UNGARETTI

Tutti conosciamo Allegria, l’opera di Ungaretti scritta in gran parte nelle trincee durante la Prima Guerra Mondiale e tutti sappiamo che il poeta fa riferimento all’ermetismo, anche se pochi conoscono i testi delle altre raccolte. Ungaretti non scrisse solo Allegria e altre opere, ma volle raccogliere tutta la sua produzione sotto un titolo importante: Vita di un uomo”. Non si trattò né di una scelta banale né di una scelta editoriale o di qualcosa di molto semplice, perché dietro quel titolo non c’era solo il bisogno di concludere un’esperienza umana e poetica, ma la necessità di mettere in evidenza uno dei concetti fondamentali della poesia moderna, l’identificazione della poesia con la vita: le parole sono la distillazione dei vari momenti concreti e materiali che per altri sono la vita stessa, mentre per il poeta sono solo la base epifenomenica da cui partire per dare un senso alla propria esistenza.

La critica ritiene che l’opera poetica di Ungaretti si articoli essenzialmente in tre raccolte: Allegria, Sentimento del tempo e Il dolore. Egli scrisse e fece molto di più, ma è vero che in quelle tre opere troviamo l’anima dell’uomo e della sua poesia.

Un approccio complesso alla poesia deve andare oltre la considerazione delle opere in senso cronologico. Non c’è dubbio che esista una sequenza cronologica, ma c che dovremmo imparare in casi come questi è riconoscere l’estrema omogeneità tra le tre opere. Le differenze ci sono e sono evidenti, ma non esiste un “vero Ungaretti che per molti è solo quello di Allegria mentre dovremmo riconoscere eguale valore sia a Sentimento del tempo sia a Il dolore. Come non esiste un “vero” IO così non esiste un poeta che possa essere rinchiuso in una formula, per quanto certe caratteristiche possano risultare dominanti.

Le differenze soprattutto tra Sentimento del tempo e Allegria sono notevoli, ma esse convivono e si compongono in quella che è la conformazione del poeta. Come un esploratore passa da un territorio a un altro, da un continente ad un altro, così il poeta si imbatte in quella vita che il Caso, la famiglia, il tempo, le sue scelte determinano e su quegli episodi che vive e si trova a vivere decide quale nuovo territorio della sua anima esplorare: da ogni viaggio riporta non souvenir ma cche lo nutre.

Ogni raccolta contribuisce a dare una pennellata diversa al quadro che Ungaretti sta dipingendo, quel quadro che è la sua vita e che trova espressione in Vita di un uomo”. Dopo quello che ho scritto a proposito di Pascoli apparirà più chiaro come il titolo dato all’insieme dei suoi lavori serva a ricordarci che la poesia, anche quella che chiamiamo ermetica, non è qualcosa di fumoso o di astratto, bensì una proiezione di tutti quegli elementi che caratterizzano, giorno dopo giorno, l’esistenza di una persona.

Per tutti la vita è quell’insieme concreto e materiale di eventi, azioni, relazioni facilmente riconoscibili e identificabili: gli studi, il lavoro, l’impegno politico, la vita religiosa, gli amori, la famiglia, le malattie, gli svaghi, gusti di ogni genere. Sono le “cose” che ci accomunano e anche ci rendono diversi. Riconosciamo a ognuno di noi l’avere delle opinioni e dei pensieri, ma in genere questi sono considerati secondari, molto secondari rispetto alle “cose” che chiamiamo vita. E così ciò che scriviamo, poesie racconti diari, vengono considerati appendici, semplici appendici della “vera” vita, e solo ai grandi viene dato un riconoscimento, una specie di lasciapassare per cui le loro parole assurgono alla dignità della vita. Purtroppo in genere si tratta di un riconoscimento estetico che vive solo nell’ambito di un canone linguistico o sentimentale. Di queste dinamiche ho scritto altrove e non posso proseguire qui per esigenze di spazio, ma voglio ricordare il Contre Sainte-Beuve di Proust, perché riassume gli aspetti principali del tema: l’IO storico dell’uomo, l’IO storico del poeta, l’IO poetico. Non esiste solo “La scrittura o la vita”, ma molteplici sono le aree in cui si esprime l’uomo-poeta e nelle tre che ho appena ricordato si muovono ulteriori forme e ulteriori segmenti.

Torniamo a Ungaretti.

Se ci avviciniamo a Sentimento del tempo con i filtri di Allegria non riusciamo ad orientarci: il poeta infatti sembra aver abbandonato ogni riferimento materiale e sembra tentare la ricerca della parola sovrana. Sarebbe più giusto dire che ha abbandonato ogni riferimento materiale visibile, come avveniva invece nella sua prima raccolta. E qui si apre una riflessione tanto interessante quanto doverosa.

Il riferimento materiale alla base della distillazione poetica può essere la vista di un aratro, una madeleine o, nel caso di Ungaretti, una passeggiata nel Parco della villa di Tivoli. L’uomo che cammina e osserva gli alberi non è riducibile a questo, perché quell’uomo è tutta la sua storia, cioè l’insieme di eventi relazioni pensieri che lo hanno continuamente modificato e continuamente ri-con-formato. Ungaretti che passeggia in quel Parco è una entità profondamente diversa da quella di qualsiasi altro essere umano che ha passeggiato, passeggia o passeggerà in quel Parco. Mentre per quasi tutti quella passeggiata lasce la persona uguale a prima, perché ha vissuto quell’incontro in chiave estetica (profumi, suoni, vista), per Ungaretti essa produrrà senso e darà vita a un Ungaretti nuovo, perché l’incontro con il Parco è stato distillato in poesia e la dimensione estetica si è fusa con la storia dell’uomo, dando vita, attraverso le parole poietiche, a un senso nuovo e a un uomo nuovo. Il riferimento al Parco di Tivoli riguarda la nota poesia della seconda raccolta: Di luglio.

Ho detto nuovo, cioè diverso, non migliore.

La differenza tra un poeta e un essere comune sta nel fatto che quello è sempre alla ricerca di senso, un senso di cui si assume la responsabilità, perché di quel senso egli è artefice e perché quel senso lo forma e lo con-forma.

Così avviene per Allegria una raccolta che ha la sua colonna vertebrale nell’esperienza di trincea durante la Prima Guerra Mondiale; in quell’esperienza c’è l’uomo Ungaretti e il poeta Ungaretti e non sono separati, il poeta è tale in quanto uomo che vive quella stessa esperienza come tutti gli altri uomini che gli sono vicini: sparerà, proverà paura quando sente sibilare le pallottole, avrà sussulti all’esplosione di una bomba, aspetterà il rancio con desiderio, si riposerà quando gli verrà concesso, farà incubi e sogni piacevoli. Come tutti i suoi compagni, anzi i suoi fratelli. Ma tutti quei momenti non saranno solo di paura, piacere, ansia o altro, perché spesso, anche se non sempre, quei momenti lo spingeranno in una dimensione diversa dagli altri soldati. In questa dimensione Ungaretti non si limita alla narrazione da cronista, più o meno colto o bravo, e neanche da vate dispensatore di messaggi, perché egli lavora su se stesso, scava nella sua anima, e facendo questo scopre territori nascosti e invisibili e ne diventa il testimone. Come aveva scritto Rimbaud ne La lettera del veggente.

Per leggere Allegria occorre entrare dentro la rete della poesia moderna e del lavoro del poeta, percorrerla senza indugi né pregiudizi logici o cronologici, ma cercando di individuare alcuni nodi che, come le sinapsi nel cervello, favoriscono lo scambio e dunque permettono di andare oltre la semplice informazione.

Dopo aver percorso la rete della poesia in lungo e in largo, in alto e in basso, e anche per strade oblique, credo che il primo Hub su cui soffermarsi sia la poesia Porto sepolto, perché apre le porte per entrare in tutte (o quasi) le altre poesie di Ungaretti.

 

“Porto sepolto”.

Anche questa poesia, come le altre, è stata scritta al fronte e fa riferimento al Porto dell’antica Alessandria d’Egitto, andato sommerso, storia nota a chi, come Ungaretti, era nato e aveva vissuto in quella città. Questi elementi, utili a uno studente, risultano però solo decorativi.

Esiste un luogo dove si trovano tesori. Questi tesori sono le parole che il poeta riesce a portare alla luce. Non sono le parole che chiunque può trovare nella superficie (del mare o della terra). Occorre scavare, immergersi, andare in profondità. E’ c che fa il poeta, il quale, tornato in superficie, sparge i tesori, diffonde quelle parole.

Ungaretti è un poeta e parla di se stesso, ma il poeta non è lunico che usa parole. Lo fa anche il lettore. La differenza è che le parole del poeta vengono lette da molti, quelle del lettore solo da pochi. Ci vorrà Octavio Paz, qualche decennio p tardi, per farci riflettere su questo:

Aperto o chiuso il testo poetico esige la morte del poeta che scrive e la nascita del poeta che legge.

Entrambi uomini: lo scrittore e il lettore. Luomo che legge nasce, ogni volta che legge, e si trasforma: è un uomo nuovo, diverso. La parola, di cui la poesia vive, può aiutare ognuno di noi a formarsi, rinnovandosi in continuazione. Quelle parole sono i canti che il poeta trova laggiù nelle profondità dell’anima e che poi disperderà a beneficio di tutti quelli che vogliono beneficiarne.

Occorre però che la parola non sia un ornamento (estetico o sentimentale), ma nutra le nostre viscere fino in fondo, procedendo a una continua metabolizzazione. Se è vero che siamo c che mangiamo è ancora p vero che siamo le parole di cui ci nutriamo. Dobbiamo accoglierle, accarezzarle, rispettarle, evitando di usarle o come arma o per farsi belli.

Le parole sono di tutti, ma quelle che noi emettiamo sono le nostre parole, siamo noi. Rispettarle vuol dire avere rispetto per noi stessi.

Non c’è messaggio nella poesia di Ungaretti e tanto meno un messaggio all’insegna del pacifismo: ciò non toglie che quelle parole riportate in superficie non siano tesori di esclusiva proprietà del poeta, ma siano rivolti a tutti. Rimane però l’assunzione di responsabilità individuale del poeta che risponde prima di tutto a se stesso, chiedendosi cosa gli resti di quel percorso: la risposta è “quel nulla di inesauribile segreto”. E cosìl’inesauribile segreto è c che troviamo nel porto sepolto, nello scavo in profondità, è qualcosa di nascosto (secretum, da se-cernere, indica qualcosa che è separato). Ed è inesauribile. Da ricercare in continuazione e che non si esaurisce, perché, ancora con Rimbaud, è “enormità che si fa norma e (il poeta è) come moltiplicatore di progresso” oppure, con la scienza della complessità “margine del caos” dove è il confine tra distruzione e costruzione.

Perché partire da Porto sepolto? Perché è la migliore chiave di lettura di tutta la poesia di Ungaretti. Richiama quello che poi verrà definito ermetismo, non tanto come movimento ma come concetto; il poeta è infatti come il sacerdote che fa da mediatore tra il Dio (Ermete Trismegisto) e l’uomo comune, che non capirebbe le sentenze divine, per questo le sue poesie rivelano qualcosa che appartiene agli Dei, ma che non ci è incomprensibile. Ancora con Rimbaud “Dunque il poeta è veramente un ladro di fuoco.”

 

 

 

 

 

La seconda poesia è “M’illumino d’immenso”.

 

A tutti i lettori, la prima volta, questa poesia pare troppo piccola, esageratamente breve. Tale giudizio rimane nel corso degli anni, perché si pensa alla poesia come dichiarazione e messaggio; al contrario, se entriamo dentro la poesia moderna come poesia di creazione, allora ci rendiamo conto che quelle quattro parole erano il massimo che Ungaretti poteva esprimere in quell’attimo della composizione.

 

La poesia non è un racconto una spiegazione, essa nasce e si conclude con le parole che il poeta ha deciso. Non si può pretendere di p dal poeta, mentre si può (e si deve) pretendere di p dal lettore: il poeta che scrive era morto, doveva nascere il poeta che legge.

 

MI: io, si parla di me; io è il soggetto e l’oggetto di quel verso. Come Leopardi aveva suggerito, si deve sempre partire dall’Io, qui ed ora: io sedendo, io mirando, il colle, la siepe.

ILLUMINO: una luce si appropria di una parte di me e porta chiarore-chiarezza a una parte che risultava nascosta (segreta), in ombra.

IMMENSO: in-mensus, qualcosa che non si può misurare; è sinonimo di in-finito (una realtà che non ha confini). Limmenso è loltre, è qualcosa che è privo di di-mensione e dunque una realtà che non ha peso/spessore né posizione. Eppure esiste ed esiste a tal punto da riuscire a illuminare una parte di me, che, senza un punto di osservazione più ampio, sarebbe rimasta completamente nel buio. Segreta. Invisibile.

 

In questi due versi, m’illumino / d’immenso è possibile comprendere l’esistenza di qualcosa di spirituale che non sia riconducibile alla Religione, qualcosa che presuppone l’infinito, ma che allo stesso tempo è frutto della nostra persona, una spiritualità nuova, non consueta, credibile, non chiusa e continuamente, in modo inesauribile, capace di creare la vita.

Per creare vita occorre però superare il lamento.

Lo aveva detto Saffo: Non si addice il lamento alla casa dei poeti”.

Lo aveva ricordato Leopardi nel verso finale de L’infinito: e l naufragar m’è dolce in questo mare”. Un passo avanti. Dal punto di vista dell’infinito è legittimo il solo naufragio, perché non ci sono punti fissi e assoluti. Il naufragare cessa di essere qualcosa di negativo e perdersi nel mare dell’infinito è cosa dolce.

Lo esprime infine Ungaretti con la sua prima raccolta il cui nucleo originario fu Allegria di naufragi. Qui, al di del riferimento evidente, l’allegria emerge dal contesto della guerra. Il naufragio ungarettiano è allo stesso tempo la mancanza di appigli dell’Infinito leopardiano e la difficolche il senso comune, umano, attribuisce alla parola. Coesistono questi due aspetti e Ungaretti, fedele al senso della sua vita e alla sua poetica, capisce che solo affiancandoli, facendoli suoi può fare un passo avanti. Lui è infatti sia uomo comune sia poeta.

E’ curioso come ci sia un’ostinazione nel definire la poesia moderna, e in particolare la poesia del primo Novecento, pessimista, negativa. Se con questo si vuole mettere in evidenza il male del mondo e dunque del vivere va bene, lo diceva già la Bibbia e lo conferma la Storia. Ma la poesia non si limita a registrare gli eventi del mondo, perché scava e va in profondità, cercando negli anfratti e negli spazi angusti dell’anima: al male del mondo risponde la poesia, al pessimismo della realtà risponde l’ottimismo della parola.

 

Ungaretti decise di andare in guerra, fu un soldato conseguente, codardo eroe, e cercò in eventi che lo sovrastavano di estrarre qualcosa di positivo dalla situazione in cui si trovò a vivere. Come avrebbe fatto p tardi per la morte del figlio (Il dolore).

E così fece Ungaretti, il cui l’Io storico è sempre presente, perché non taglia mai il legame tra i vincoli della sua esistenza e le possibilità che si aprono.

“Vita di un Uomo.

La Prima Guerra Mondiale Ungaretti si trovò a volerla-doverla combattere. Non si dette al lamento recriminatorio che, nel disprezzo dei combattenti, avrebbe favorito l’ascesa del fascismo. Non si dette a trionfalistici peana: preferì la cultura all’ideologia.

Molti sono i lettori che apprezzano le poesie di Allegria. Mio padre si por con sè “Allegria di naufragiquando partì per la guerra; e vi trovò conforto. Ognuno ha le sue poesie preferite e non è detto che siano le stesse per tutti. Anche io ho le mie preferenze. Occorre però capire che, contrariamente a quanto si insegna, nelle poesie di Allegria non cè alcun messaggio e che gli elementi descrittivi rappresentano soltanto un’occasione, un punto di partenza per un salto oltre l’Io storico, il salto che è l’unica cosa che interessa al poeta.

E’ questo salto che rende l’uomo-Ungaretti diverso e nuovo alla fine della poesia

rispetto a quando l’aveva iniziata.

 

Ho già introdotto Sentimento del tempo mettendo in evidenza che il poeta sembra aver abbandonato ogni riferimento materiale e sembra tentare la ricerca della parola sovrana, ma occorre capire cosa questo significa nella prospettiva poietica di Ungaretti.

Ogni poesia di Allegria si basa su una situazione storicamente determinata, tanto che comincia con il luogo e la data della composizione, mentre nelle poesie della raccolta successiva ci troviamo spaesati tanto i riferimenti di tempo e spazio sono assenti. Se vogliamo soddisfare la nostra curiosità, basta andare nelle parti finali di Vita di un uomo e in particolare nelle “Note a cura dell’autore e di Ariodante Marianni”: lì sono i riferimenti. Ma si tratta di curiosità pura e semplice, che non aiuta a entrare dentro lo sforzo poetico.

Avendo scelto di rifiutare una lettura estetica che ci porterebbe a esaltare il ritmo o il lessico o tutti gli aspetti formali che si indicano parlando di versi, occorre vedere la poesia come organo complesso in sé e anima dell’anima del poeta. E’ da qui che nasce l’attenzione per la parola, proposta dal poeta e accolta dal lettore. Si tratta di un’attenzione che va ben oltre il significato comune e specifico che possiamo trovare nel vocabolario: bisogna vedere il contesto e allo stesso tempo fare uno sforzo per cogliere le parole come proiezioni intimamente legate al poeta. Già in Allegria tutti mettono in evidenza l’importanza della parola (scarnificata) che spesso coincide col verso stesso, ma ci si limita a riportarla nel contesto storico. Nella poesia “Veglia” ad esempio abbiamo tre versi-parole: “massacrato”, “digrignata”, “penetrata”. Esse  vengono ricondotte alla guerra, mentre dalla guerra partono  per andare dentro l’anima del poeta. Dunque già in Allegria la parola è sovrana, ma un filo la tiene attaccata ad eventi, situazioni, personaggi di cui siamo portati a conoscenza. In Sentimento del tempo questo filo è assente e lo sforzo del poeta diventa sfida per il lettore, che non ha più la scusa di tornare alla dimensione storica di partenza e deve fare i conti con se stesso. Ho citato Di luglio, ma tutte le poesie di questa seconda raccolta si muovono allo stesso modo: impenetrabili, indiscusse all’origine ma doverosamente discutibili al termine, incomprensibili allo sguardo del pittore ma aperte al dialogo dell’anima. Quelle poesie non hanno la pretesa di catturare il lettore, se non per piccoli morsi di un pasto duraturo, ma pretendono l’attenzione del lettore e la sua cautela e la sua umiltà e il suo balbettio o bisbiglio: “vislumbre”, direbbe Octavio Paz, un parlare tra sé e sé di qua e di là dalla soglia.

Sentimento del tempo è la raccolta che più difficilmente può essere parafrasata, come in genere si fa a scuola. Prendo a caso una poesia, Lido, del 1925. Vado subito alle Note e leggo che si tratta di un paesaggio invernale, sulla sponda di un lago (forse di Albano); siamo al crepuscolo alla fine dell’anno. Letto questo torno al componimento e mi accorgo subito che è difficile ritrovarvi il crepuscolo e il lago, mentre la fine dell’anno è dichiarata nell’ultimo verso. Lo sforzo da fare è prendere le parole della poesia, introdurle dentro la propria anima, farle germogliare e aspettare che producano un frutto, anche se fosse solo tra molti anni.

L’anima dissuade…gli arbusti sono gracili…i bisbigli insidiosi…l’anima ignara colpita da muto sgomento e ridente incontra di nuovo l’oscurità…il tremito conclude l’anno.”

L’anima si interconnette con elementi materiali, con attitudini sentimentali, con aspetti spirituali obbligandoci a soffermarci su ogni parola: cosa intendiamo per anima? E la nostra come si muove? È ignara, ma di cosa? Dissuade e non persuade: perché? Essa è gracile e la sua voce, sebbene tenue, è insidiosa pur nel silenzio dello sgomento, ma sorridente di fronte all’ignoto, oscuro. Nessuna certezza dunque e il tremito esprime questo disagio.

Ciò che ho appena scritto non è una “spiegazione”, ma solo l’indicazione di un possibile percorso che ha senso solo se diventa il nostro percorso: nessuno saprà mai quanto questo percorso si avvicinasse a quello di Ungaretti, ma sarà sempre e comunque il “nostro” percorso innescato dai versi del poeta. La poesia assume così un senso, per il poeta e anche per noi.

La raccolta spinge anche ad altre riflessioni e sforza l’anima del lettore, l’anima che è mente e cuore insieme.

Verso le ultime poesie troviamo La Pietà, La Preghiera e La Pietà Romana che, per diretta affermazione del poeta (sempre le Note: “La Pietà è la prima manifestazione risoluta di un mio ritorno alla fede cristiana che…nella mia persona dissimulandosi non cessava d’attendere”) segnano un riavvicinamento di Ungaretti al Cristianesimo. Se è vero che tutta la poesia di Ungaretti è un intreccio tra Io Storico, Io Poetico e Assoluto (sintesi che anche se semplice ha una sua verità) questo ritorno alla Fede è l’espressione matura di quell’assoluto che aveva dominato fino a quel momento. Il Dio cristiano non appare, qui e nelle raccolte successive, molto diverso da quell’assoluto, infinito e immensità, che abbiamo cominciato a riconoscere a partire da Leopardi; esso si presenta infatti con forme diverse, ma identico è lo spirito e soprattutto l’anelito che lo caratterizza. Ne vedremo i caratteri nei diversi momenti della sua esistenza attraverso le ultime raccolte, soprattutto Il Dolore e La Terra Promessa, ma già qui possiamo vedere come questo nuovo sposalizio con il Cristianesimo non è una celebrazione della Fede alla maniera degli Inni sacri manzoniani, ma qualcosa che attraverso il Dio e la Fede ritrovati allarga e approfondisce la ricerca interiore dell’uomo, e dunque anche del poeta.

Una riflessione meno puntuale ma che nasce dalla raccolta riguarda proprio il titolo: Sentimento del tempo. La parte della raccolta “Inni” dove troviamo le tre poesie sopra ricordate si conclude con un componimento che ha per titolo lo stesso della raccolta: Sentimento del tempo, 1931.

Ungaretti riconduce questo titolo al suo incontro con Roma, la sua città di adozione, città segnata dall’antichità e dal Barocco, città del vuoto e dell’assenza, assenza che è espressione estetica ma anche spirituale, perché è assenza dell’essere. E’ qui ed è per questo che Ungaretti si riavvicina a Dio, ma allo stesso tempo è attraverso questo incontro, con la città, con l’assenza, con l’Assoluto, che dà il suo contributo a un tema che da decenni si faceva sempre più pressante, continuando a rimanere attuale: il tempo. Da Bergson a Proust a Montale a Heidegger in filosofia e letteratura, da Einstein alla fisica quantistica alle neuroscienze e all’astrofisica nel campo delle scienze dure: tra fine Ottocento e nuovo Millennio il tempo è uno dei temi che sconvolge e travolge la mente dell’Occidente, attraverso infiniti recuperi in altre direzioni ed anche nel passato.

Heidegger aveva scritto Essere e tempo e poi aveva progettato di scrivere una terza sezione, ma vi aveva rinunciato. Non riuscì, nonostante l’ampiezza e la profondità della riflessione, a trovare una conciliazione tra l’essere e il tempo, tra l’assoluto e il contingente. Concluse parlando del silenzio come della vera parola umana, perché l’uomo deve solo ascoltare la voce dell’essere e individuò nella poesia quella voce; non era un vero e proprio silenzio, ma l’espressione della capacità del poeta di ascoltare e dare voce all’essere. La cosa verrà chiarita in un saggio del 1950 all’interno dell’opera “Saggi e discorsi”, dal  titolo Poeticamente abita l’uomo”, parlando della poesia di Hölderlin.

Egli scrive: “Il poetare edifica l’essenza dell’abitare. Non solo poetare e abitare non si escludono reciprocamente. Essi sono anzi in una connessione inscindibile, si richiedono reciprocamente.

Se, conclude il filosofo, l’uomo può misurarsi con la Divinità, come può abitare sulla terra? O meglio: come può l’uomo abitare sulla terra in modo da potersi misurare con la Divinità? Ecco la risposta di Hölderlin che Heidegger fa sua: Poeticamente.

Questa lunga digressione è utile a comprendere il senso del poetare di Ungaretti e in particolare il senso del suo Sentimento del tempo. Non è un caso che sia proprio all’interno di questa raccolta la riscoperta di Dio, una riscoperta e una riconquista che è la proiezione della sua inesausta ricerca di una conciliazione tra contingente e assoluto, tra tempo ed essere.

Non intendo qui procedere a una spiegazione-parafrasi della poesia del 1931, che occorre leggere, rileggere, accogliere dentro di sé per superare il varco del tempo che è anche la difesa del corpo. Riporto due versi soltanto come invito a quello sforzo:

“la lontananza aperta alla misura, ogni mio palpito, come usa il cuore, ma ora l’ascolto”.

Ancora una volta e ancora con Rimbaud: “Pensiero che uncina il pensiero e che tira”.

E’ come se, con questa raccolta scritta tra il 1919 e il 1935 ma la cui parte più densa risale agli anni Trenta, Ungaretti rispondesse all’opera di Heidegger che è del 1927.

 

E così arriviamo a Il dolore.

Questa raccolta è un canto che ha alla base due eventi personali, la morte del fratello nel 1937 e la morte del figlioletto nel 1939, e poi un evento globale, la Seconda Guerra Mondiale.

Torna in primo piano, rispetto a Sentimento del tempo, l’IO storico che risulta nella sua immediatezza, come era in Allegria, ma, diversamente da Allegria, il poetare si fa più ampio e complesso, la parola si ricongiunge alla parola, cessando di essere franta, e ricostruendo una sintassi. La caratteristica di questa sintassi non è narrativa e l’evento alla base della poesia è solo un pretesto perché la parola rimanga sovrana: il lettore che si riconosceva nella parola di Allegria e si trovava quasi perduto nelle parole di Sentimento del tempo, ora può fare un salto importante, soprattutto se ha avuto la pazienza e l’umiltà di seguire il percorso di Ungaretti nelle due raccolte precedenti. La poesia de Il dolore sembra più facile: “Tutto ho perduto dell’infanzia / e non potrò mai più / smemorarmi in un grido”; “Se tu mi rivenissi incontro vivo, / con la mano tesa, / ancora potrei, / di nuovo in uno slancio d’oblio, stringere, / fratello, una mano.”

Il poeta ci accompagna per mano, si è reso conto delle nostre difficoltà e si muove con maggiore semplicità nei singoli passi, ma l’insieme esprime in pieno la sua complessità, dove il tutto è maggiore della somma delle parti: il lettore non ha più la scusa di non riuscire ad orientarsi e lo sforzo di dialogare con il poeta non è impossibile. Rimane comunque uno sforzo. Ungaretti ci ha preso per mano e ci ha introdotti nelle possibilità intraviste nel porto sepolto: la singola parola, per quanto decisiva parte della creazione, non ci impediva di intravedere-vislumbrar oltre la soglia dell’esperienza personale, cioè dell’IO storico. Poi egli ci ha provocato, offuscando i contorni comuni dell’esperienza, e ci ha obbligati a ritrovare dentro di noi la parola capace di creare la nostra persona: l’IO poetico è sembrato così cancellare tutto il resto.

Ne Il dolore infine ha ricomposto il tutto, ci ha fatto comprendere che non si può prescindere dalla nostra persona, dalla storicità del nostro IO; ci ha fatto comprendere che senza la parola capace di distillare quell’esperienza, la nostra esistenza si ritrova in fosse comuni; infine ci ha mostrato le diverse sfaccettature con cui l’assoluto si mostra e come quell’assoluto, sempre leopardianamente, sia possibile non come negazione della nostra fisicità e storicità, ma al contrario solo attraverso sia la fisicità sia la storicità.

Possiamo limitarci a cogliere nelle parole di Ungaretti solo il dolore per la morte del fratello, per la morte del figlioletto di nove anni, per i bombardamenti su Roma: ma sarebbe ben poca cosa. Ognuno di noi, poeta o lettore che sia, ha sofferto, chi più chi meno, per qualche evento. Non è né il sentire né il pensare che danno vita al poeta, ma il creare.

E così veniamo a quella che è la poesia centrale della raccolta, Giorno per giorno, riferita alla morte del figlioletto, un poema di 17 strofe per la composizione del quale furono necessari sei anni, dal 1940 al 1946. Questa vera e propria gestazione fu necessaria proprio perché Ungaretti non stava scrivendo una celebrazione un ricordo unepigrafe funebre un divino messaggio, cosa a cui la gente comune aveva dedicato nel corso dei millenni il suo tempo e la propria opera.

Il poeta crea realtà e Ungaretti si trovava di fronte a un impegno che, da un punto di vista logico, appare impossibile: come creare realtà di fronte alla morte del figlioletto? Lelaborazione del lutto è sempre qualcosa di estremamente difficile, ha bisogno di importanti strumenti e non c’è dubbio che debba basarsi sul principio di realtà. Solo un credente cristiano riesce ad accompagnare il dolore alla certezza che potrà rivedere la persona cara morta.

Il principio di realtà è però allo stesso tempo consapevolezza e rimozione: la certezza di una scomparsa e la certezza di una presenza, perché il legame affettivo e spirituale è qualcosa che rimane, fisicamente, e che non scompare con la morte.

Ungaretti, in Giorno per giorno, non nega il principio di realtà e la sua consapevolezza, ma allo stesso tempo riesce a limitare la rimozione di cui parlavo prima. Non fa, ovviamente, resuscitare il figlioletto, ma riesce a mantenere vivo il legame che lo unisce al figlio. E questo è possibile solo alla poesia, non certo al romanzo o al cinema, cioè alla narrazione, come dimostra il bel film di Nanni Moretti “La stanza del figlio”. Ritengo inadeguato commentare strofe e versi di questa poesia e discutere su alcune parole o alcune immagini: la poesia deve essere letta autonomamente e ogni lettore cerchi di viverla dentro la propria anima. Non c’è dolore p straziante e più innaturale della morte di un figlio ancora in erba, cosa per fortuna non molto frequente: sarà difficile una immedesimazione del lettore, ma ritengo possibile un avvicinamento.

Ecco il testo quasi integrale.

 

 

1.

"Nessuno, mamma, ha mai sofferto tanto..."

E il volto già scomparso

Ma gli occhi ancora vivi

Dal guanciale volgeva alla finestra,

E riempivano passeri la stanza

Verso le briciole dal babbo sparse

Per distrarre il suo bimbo...

 

 

2.

Ora potrò baciare solo in sogno

Le fiduciose mani...

E discorro, lavoro,

Sono appena mutato, temo, fumo...

Come si può ch'io regga a tanta notte?...

 

 

3.

Mi porteranno gli anni

Chissà quali altri orrori,

Ma ti sentivo accanto,

M'avresti consolato...

 

 

4.

Mai, non saprete mai come m'illumina

L'ombra che mi si pone a lato, timida,

Quando non spero più...

 

 

7.

In cielo cerco il tuo felice volto,

Ed i miei occhi in me null'altro vedano

Quando anch'essi vorchiudere Iddio...

 

 

8.

E t'amo, t'amo, ed è continuo schianto!...

 

 

10.

Sono tornato ai colli, ai pini amati

E del ritmo dell'aria il patrio accento

Che non riudcon te,

Mi spezza ad ogni soffio...

 

11.

Passa la rondine e con essa estate,

E anch'io, mi dico, passerò...

Ma resti dell'amore che mi strazia

Non solo segno un breve appannamento

Se dall'inferno arrivo a qualche quiete...

 

 

12.

Sotto la scure il disilluso ramo

Cadendo si lamenta appena, meno

Che non la foglia al tocco della brezza...

E fu la furia che abbatté la tenera

Forma e la premurosa

Carità d'una voce mi consuma...

 

 

13.

Non p furori reca a me l'estate,

Né primavera i suoi presentimenti;

Puoi declinare, autunno,

Con le tue stolte glorie:

Per uno spoglio desiderio, inverno

Distende la stagione p clemente!...

 

 

15.

 

Rievocherò senza rimorso sempre

Un'incantevole agonia di sensi?

Ascolta, cieco: "Un'anima è partita

Dal comune castigo ancora illesa..."

 

 

Mi abbatterà meno di non pudire

I gridi vivi della sua purezza

Che di sentire quasi estinto in me

  Il fremito pauroso della colpa?

 

 

 

17.

Fa dolce e forse qui vicino passi

Dicendo: "Questo sole e tanto spazio

Ti calmino. Nel puro vento udire

Puoi il tempo camminare e la mia voce.

Ho in me raccolto a poco a poco e chiuso

Lo slancio muto della tua speranza.

Sono per te l'aurora e intatto giorno"

 

 

Ci sono altri versi che varrebbe la pena leggere. Tutti esprimono il dolore dell’uomo che, grazie alla poesia, riesce a vivere la propria vita con grande dignità, continuando a costruire nonostante gli eventi strazianti. E tutto c ci è stato lasciato in eredità. Non dobbiamo dilapidare questo dono neppure rifugiandoci nella dimensione estetica. Solo sforzandoci ed impegnandoci a fare nostre almeno alcune tracce renderemo onore al poeta, ma soprattutto mostreremo di amare noi stessi e i nostri cari.

 

Dopo Il dolore Ungaretti continuò a comporre, ma in maniera molto misurata e non andando oltre quanto già sviluppato fino ad allora. Non riceverà il Premio Nobel per la letteratura, ma i riconoscimenti a livello nazionale e internazionale furono numerosi e immensi. Nella sua storia è facile riconoscere la deriva del panorama italiano che abbandonò la cultura a vantaggio dell’ideologia: alla caduta del fascismo fu sospeso dall’insegnamento, per fortuna vi fu reintrodotto nel 1947, ma soprattutto si dovette assistere alla vergognosa assenza di rappresentanti ufficiali del governo italiano ai suoi funerali nel 1970.

Va detto questo: ciò che i poeti e gli artisti…hanno fatto e si ostinano a fare è immenso: hanno sentito l’invecchiamento della lingua: il peso delle migliaia d’anni che portano nel loro sangue; hanno restituito alla memoria la sua misura d’angoscia e, nello stesso tempo, mediante sforzi crudeli e ostinati hanno acquisito il potere di darle la libertà di emancipare se stessa in quel medesimo grado che l’afferma.

Soltanto la poesia – l’ho imparato terribilmente, lo so -la poesia sola può recuperare l’uomo, persino quando ogni occhio s’accorge, per l’accumularsi delle disgrazie, che la natura domina la ragione…” (G. Ungaretti, Ragioni di una poesia in Vita d’un uomo, A. Mondadori Editore, 1969).

 

 

 

 

 

 

 

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