Gli
assenti |
Il perché di una non presenza |
In un celebre racconto Borges immagina una Biblioteca infinita che raccolga tutto il sapere degli esseri umani, una Biblioteca geometrica e ben organizzata che richiama anche nel nome la Torre di Babele della Bibbia. Come questa Torre anche la Biblioteca esprime il sogno, l’aspirazione degli uomini a un’unità, capace di ergersi sino al cielo e sfidare la Volontà di Dio: atto di superbia. La Biblioteca di Borges come la Torre biblica dimostra le possibilità umane, ma allo stesso tempo impedisce all’uomo di fare i conti con se stesso, di vedere le differenze, sognando quell’unità, quell’Uno, che non è nella nostra natura.
In alcune celebri
opere dell’incisore olandese Maurits Cornelis Escher possiamo vedere
delle scale che appaiono realistiche nei particolari se non fosse per il fatto
che non potrebbero esistere perché impraticabili: vengono chiamati “Gli
oggetti impossibili”. E trovano un loro corrispettivo nella “scala di
Penrose”, dal cognome del celebre fisico che produsse oggetti geometrici
simili nello stesso periodo.
Mi sono venute
in mente queste due realtà, una letteraria e l’altra grafica, nel momento in
cui dovevo spiegare la non presenza di molti autori meritevoli. Stavo per dire
“giustificare” e mi sono reso conto che non si tratta di giustificazione, ma
semplicemente di chiarire certe ragioni. A parte il “realismo socialista” trovo
ogni prodotto letterario interessante, in maggiore o minore misura, ma non ho
pregiudizi seppure delle preferenze sì.
Vediamo un
po' di cose.
Esiste una
cornice che voglio rispettare e che è ripetuta in molti dei miei articoli:
il rifiuto di “reductio ad unum”, cioè di cercare la univoca chiave di volta
sia di una singola opera sia di un singolo autore sia di un movimento sia di
un’epoca. Sono arrivato a questo punto di partenza ancor prima di accedere al
pensiero complesso, in relazione alle mie lezioni nelle scuole. All’inizio
cercavo di schematizzare seguendo la corrente e ricordo l’impaccio e la
frustrazione, ad esempio, nella presentazione dell’Illuminismo e del
Romanticismo: sembrava tutto semplice, ragione contro cuore, logica contro
sentimento. Mano a mano che entravo in contatto con nuovi autori e nuove opere
mi accorgevo di quanto vuote fossero quelle classificazioni, incapaci di
spiegare anche i più semplici legami laddove invece si pretendeva di avere una
visione onnisciente. Cominciai a confondermi tra neoclassicismo, proto o
pre-romanticismo, Romanticismo tedesco e Italiano, romanzo storico e
sentimentale, Rivoluzione francese e Imperialismo ed altre etichette.
Quindi il
riconoscimento della complessità vale per me sia in campo storico, dove è più
facile riconoscerlo, sia in campo letterario, dove la convinzione della scienza
moderna (non a caso chiamata riduzionistica) è stata estesa anche ai fenomeni
culturali.
Nella cornice
si aprono diversi scenari e varie prospettive, che non possono più
essere ridotte a una dimensione estetica: da un lato si pretende di riconoscere
a un autore o a un’opera una parvenza di oggettività, dall’altro si dichiara il
più aperto soggettivismo come se il piacere che proviamo nella letteratura
dipenda dalle peculiarità individuali. Il carattere straordinario della
letteratura è sempre stato quello di non essere ricondotto e rinchiuso in uno
schema, ma al contrario di aver sempre aperto nuovi percorsi e individuato
nuovi orizzonti. E questo è avvenuto anche quando l’autore aveva intenti
celebrativi. Virgilio voleva esaltare l’avvento di una nuova era grazie al
primo imperatore romano, Augusto. Dante voleva farci partecipi del disegno
divino che il Cristianesimo aveva portato in terra. Entrambi però non fecero
opere catechistiche e seppero dare a quello che sembrava un semplice messaggio
di fede una ricchezza e una vastità tali da fruttificare in molte direzioni e
dare vita a nuove specie. La letteratura è sempre stata questo, un insieme di
reti interconnesse capaci di richiamarsi in continuazione e stabilendo ponti
con tutti gli altri fenomeni culturali, per questo occupa un posto particolare
nel momento in cui, seppur in maniera scomposta, si diffonde l’esigenza, e la
possibilità, di un incontro (Prigogine usa l’espressione Alleanza) tra
scienze umane e scienze fisiche.
Rifiuto
dell’unità e riconoscimento della complessità si capiscono meglio se cerchiamo
di articolarli secondo termini presi in prestito dalla Scienza della
complessità e dal Pensiero complesso.
La fine della
Scienza come valore assoluto capace, grazie alla matematica, di individuare
leggi universali ha comportato molte trasformazioni anche nel campo delle
Scienze Umane, compresa la Letteratura. Non è una suggestione teorica, ma da Prigogine
al Santa Fe Institute al New England Complex Sistem a tutti i
gruppi che parlano di complessità la Scienza riguarda la Fisica come la Storia
e la Letteratura. Naturalmente ognuno con i propri ambiti e le proprie
caratteristiche di ricerca e sviluppo.
Ci sono
alcuni termini propri delle scienze naturali che possono servire da stimolo
alla comprensione dei fenomeni letterari. Qui li riporto in sequenza, ma per
non appesantire la lettura li sviluppo in Appendice.
a) Eterogeneità,
b) Provvisorietà, c) Debolezza dei legami, d) Casualità,
e) Idiosincrasia,
f) Analogia, g) Rumore.
E’ in base a
questi elementi che ho operato una scelta nel mare magnum della
letteratura, in modo tale da presentare gli autori che in maniera più ampia e
profonda mettessero in luce le dinamiche che si possono richiamare alla
complessità. Naturalmente ciò non vuol dire che gli altri non avessero nella
loro attività elementi interessanti e da valorizzare; non esiste un discrimine
per cui al di sopra si trovano “i complessi” e al di sotto “i semplici”.
Mi sono
lasciato questo spazio per parlare in modo fluido e non organico di quegli
autori che avrei potuto affrontare, ma che per diverse esigenze, non secondaria
quella dello spazio, ho dovuto mettere in pausa. Gli altri autori, che in
questo articolo non vengono citati, meritano un approfondimento, ma solo a
tempo debito.
1)Due autori meritano una riflessione meno superficiale e
che va ben oltre la cultura generale di ogni buon cittadino. Parlo di Machiavelli
e di Guicciardini. Cosa ritengo significativo dei due autori e personaggi
pubblici del 1500 europeo? La concezione della politica. Machiavelli è in modo
unanime riconosciuto come il fondatore della moderna scienza politica, non
tanto per la celebre frase “il fine giustifica i mezzi”, quanto per avere
separato la politica dalla morale, come ogni buon libro di diritto mette in
evidenza fin dalle sue prime pagine. I numerosi lavori di Machiavelli
testimoniano un’attenzione per la realtà molto forte, tanto che persino la sua
più celebre commedia, La mandragola, è un evidente sviluppo del realismo
di Boccaccio. In realtà l’importanza dal punto di vista della complessità
risiede soprattutto sul fatto che a partire dallo studio della sua realtà
contemporanea egli trae l’ipotesi che sia possibile individuare una legge
scientifica e dunque ricondurre la molteplicità del reale a unità e
universalità. E’ in questo senso parte del grande flusso di studiosi e
pensatori che nel corso di alcuni secoli porteranno alla formazione di quella
che è nota come Scienza Moderna (o Cartesiana o Galileiana o Newtoniana).
Dall’altra
parte troviamo un Guicciardini che sembra aver anticipato quella che oggi si
configura come crisi della Scienza Moderna aprendo alle diverse acquisizioni
epistemologiche che ruotano e danno solidità e vigore all’universo della
complessità. La parola chiave del pensiero di Guicciardini è “particulare”,
termine con il quale egli denuncia l’impossibilità di individuare leggi
universali in quello che è l’intreccio complesso cui diamo il nome di realtà.
E’ evidente che non era quello il tempo di Guicciardini, perché probabilmente
era necessario passare per un tentativo unificatore di tipo laico, viste le
numerose resistenze derivanti dall’acquisizione di una cultura, e di
un’epistemologia, consolidate che negavano un confronto diretto con la realtà.
Oggi possiamo recuperare il pensiero di Guicciardini che non mostra di essere
dalla parte del giusto, in senso astratto, ma offre significativi spunti di
riflessione: la Scienza moderna ha permesso quel grande salto nella qualità
della vita degli esseri umani che tutti conosciamo, ma oggi non è più sufficiente.
Così il pensiero di Machiavelli è servito, ma è anche alla base delle derive
novecentesche (ricordiamo come Gramsci identificasse nel Principe il Partito
Rivoluzionario). Nessuna colpa, naturalmente, ma l’esigenza di andare oltre.
Non si tratta dunque di essere per Guicciardini contro Machiavelli, ma di
comprendere come nelle differenze tra i due pensatori fosse presente una
problematica di più vasta portata rispetto a quanto creduto finora.
A PROPOSITO
DI MACHIAVELLI L’analisi fatta
ne Il Principe segue in qualche modo quello che nel secolo successivo sarà il
“metodo scientifico” basandosi su un’analisi dettagliata del fenomeno
“Principato” oggetto dello studio per arrivare ad elaborare, direttamente o
indirettamente, dei princìpi (una specie di leggi) universali. I primi
undici capitoli studiano i vari tipi di principato possibili, attraverso una
analisi dettagliata di ciò che la Storia ci ha messo davanti e soffermandosi
su quelli di nuova istituzione. Anche i
quattro capitoli successivi, che riguardano l’esercito dello Stato sono
svolti attraverso l’analisi di casi particolari. Dal XV al
XXIII è di scena il Principe, la guida dello Stato, e anche qui l’analisi
precede la teoria, ribaltando quanto di uso comune: su “crudeltà-pieta,
mantenimento parola data, generosità-parsimonia, amore-odio,
adulazione-verità” non esiste un principio morale da seguire ma solo ciò che
gli permetta di salvare lo Stato. Negli
ultimi tre capitoli si parla dell’Italia e c’è l’esaltazione non astratta
delle possibilità dell’uomo (virtù) rispetto agli ostacoli frapposti dagli
eventi (fortuna), avendo egli XV.1: mi è
parso più conveniente andare drieto alla verità effettuale della cosa, che
alla immaginazione di essa. E molti si sono immaginati repubbliche e
principati che non si sono mai visti né conosciuti essere in vero; perché
elli è tanto discosto da come si vive a come si doverrebbe vivere, che colui
che lascia quello che si fa per quello che si doverrebbe fare, impara più
tosto la ruina che la perservazione sua: perché uno uomo che voglia fare in
tutte le parte professione di buono, conviene rovini infra tanti che non sono
buoni. Onde è necessario a uno principe, volendosi mantenere, imparare a
potere essere non buono, et usarlo e non usare secondo la necessità. XV.3: Et
etiam non si curi di incorrere nella infamia di quelli vizii sanza quali
possa difficilmente salvare lo stato; XVIII.3:
Dovete adunque sapere come sono dua generazione di combattere: l’uno con le
leggi, l’altro con la forza: quel primo è proprio dello uomo, quel secondo
delle bestie: ma, perché el primo molte volte non basta, conviene ricorrere
al secondo. Per tanto a uno principe è necessario sapere bene usare la bestia
e lo uomo… bisogna a uno principe sapere usare l’una e l’altra natura; e
l’una sanza l’altra non è durabile. Sendo adunque, uno principe necessitato
sapere bene usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe e il lione;
perché il lione non si defende da’ lacci, la golpe non si difende da’ lupi.
Bisogna, adunque, essere golpe a conoscere e’ lacci, e lione a sbigottire e’
lupi. XVIII.5: E
nelle azioni di tutti li uomini, e massime de’ principi, dove non è iudizio
da reclamare, si guarda al fine. Facci dunque uno principe di vincere e
mantenere lo stato: e’ mezzi saranno sempre iudicati onorevoli, e da ciascuno
laudati. N.
MACHIAVELLI: IL PRINCIPE |
A PROPOSITO
DI GUICCIARDINI SERIE PRIMA 35. Questi ricordi sono regole che si
possono scrivere in su' libri; ma e' casi particulari, che per avere
diversa ragione s'hanno a governare altrimenti, si possono male scrivere
altrove che nel libro della discrezione. 150. Ho detto di sopra che non si
assicurano gli stati per tagliare capi, perché piú presto multiplicano gli
inimici, come si dice della idra; pure sono molti casi ne' quali cosí si
legano gli stati col sangue, come gli edifici con la calcina. Ma la
distinzione di questi contrari non si può dare per regola: bisogna gli
distingua la prudenzia e discrezione di chi l'ha a fare. 171. Nelle cose importante non può fare
buono giudicio chi non sa bene tutti e' particulari, perché spesso una
circumstanzia, benché minima, varia tutto el caso: ma ho visto spesso
giudicare bene uno che non ha notizia di altro che de' generali, e el
medesimo giudicare peggio, intesi che ha e' particulari; perché chi non ha el
cervello molto perfetto, e molto netto dalle passione, intendendo molti
particulari, facilmente si confonde o varia. SERIE SECONDA 6. È grande errore parlare delle cose del
mondo indistintamente e assolutamente, e per dire cosí, per regola; perché
quasi tutte hanno distinzione ed eccezione per la varietá delle
circunstanzie, in le quali non si possono fermare con una medesima misura; e
queste distinzione ed eccezione non si truovano scritte in su' libri, ma
bisogna le insegni la discrezione. 23. Le cose future sono tanto fallace e
sottoposte a tanti accidenti, che el piú delle volte coloro ancora che sono
bene savi se ne ingannano- 111. E' vulgari riprendono e' iurisconsulti
per la varietá delle opinione che sono tra loro, e non considerano che la non
procede da difetto degli uomini, ma dalla natura della cosa in sé; la quale
non sendo possibile che abbia compreso con regole generali tutti e' casi particulari,
spesso e' casi non si truovano decisi appunto dalla legge, ma bisogna
conietturarli con le opinione degli uomini, le quali non sono tutte a uno
modo. Vediamo el medesimo ne' medici, ne' filosofi, ne' giudici mercantili,
ne' discorsi di quelli che governano lo stato, tra' quali non è manco varietá
di giudicio che sia tra' legisti. 114. Sono alcuni che sopra le cose che
occorsono fanno in scriptis discorsi del futuro, e' quali quando sono fatti
da chi sa, paiono a chi gli legge molto belli; nondimeno sono fallacissimi,
perché dependendo di mano in mano l'una conclusione dell'altra, una che ne
manchi, riescono vane tutte quelle che se ne deducono; e ogni minimo particulare
che vari, è atto a fare variare una conclusione; però non si possono
giudicare le cose del mondo sí da discosto, ma bisogna giudicarle e
resolverle giornata per giornata. 186. Però ed in questo ed in molte altre
cose bisogna procedere distinguendo la qualitá delle persone, de' casi e de'
tempi, ed a questo è necessaria la discrezione, la quale se la natura
non t'ha data, rade volte si impara tanto che basti con la esperienzia; co'
libri non mai. F.
GUICCIARDINI: I RICORDI |
2)La poesia
religiosa che si prolunga dal XIII secolo fino al
secolo scorso. Si tratta di una poesia che non si è limitata a tessere le lodi
della propria fede e a catechizzare il lettore così che essa esprime la
ricchezza e la profondità dell’animo umano. Non faccio riferimento a opere pur
interessanti come gli Inni sacri di Manzoni, che esprimono il dovuto
riconoscimento del neofita alla religione da poco scoperta.
La poesia
religiosa di cui parlo nasce nel XIII secolo unendo poeti come San Francesco e
il suo Cantico delle creature, Iacopone da Todi in Donna de Paradiso
e il poeta islamico di origini afgane Rumi con la sua enorme produzione.
Con
riferimento al XVI e XVII secolo vale la pena soffermarsi su due religiosi di
lingua castigliana, lo spagnolo San Juàn de la Cruz e la messicana Suor Inès de
la Cruz.
Avrei
concluso con la poesia del Premio Nobel bengalese Tagore i cui orizzonti tra
1800 e 1900 sono talmente vasti che spingono l’essere umano sempre oltre.
Tutti questi
poeti mostrano attraverso la qualità delle loro parole e immagini come la
religione non sia qualcosa da estirpare dall’essere umano in quanto
superstizione, ma che ne faccia parte a pieno titolo, cosa che trova il
riconoscimento negli studi contemporanei fatti dalle neuroscienze sulle
dinamiche del cervello.
A PROPOSITO
DI RUMI …. Anche se tu
non hai piedi, scegli di viaggiare in te stesso, come
miniera di rubini sii aperto all’influsso dei raggi del sole. O uomo!
Viaggia da te stesso in te stesso, ché da
simile viaggio la terra diventa purissimo oro Avanza da
amarezza e acredine verso dolcezza, ché da
suolo amaro e salato nascono mille specie di frutta! Da Poesie Mistiche, Ed. Rizzoli, 1980-pag. 107 |
A PROPOSITO
DI SAN JUÀN DE LA CRUZ Oh llama de
amor viva, que
tiernamente hieres de mi alma
en el màs profundo centro!, pues ya no eres esquiva, acaba ya,
si quieres; rompe la
tela de este dulce encuentro. Oh cauterio
suave! …. Oh làmparas
de fuego … Cuàn manso
y amoroso Recuerdas
en mi seno, donde
secretamente solo moras, y en tu
aspirar sabroso de bien y
gloria lleno cuàn
delicadamente me enamoras! Da Poesìa completa, Ed. Ambito, 1994, pag 123 |
A PROPOSITO
DI SUOR INÈS DE LA CRUZ Aquel
decirte màs Cuando me
explico menos, queriendo
en negaciones expresar
los conceptos. Y, en fin,
digaslo tù, que de mis
pensamientos lince
sutil, penetras los màs ocultos
senos. Si he dicho
que te he visto, mi amor
està supuesto, pues es
correlativo de tus
merecimientos. … Ellos a ti
te basten, que si
prosigo, pienso que con
superfluas voces su
autoridad ofendo. Da Poesìas escogidas, Ed. Aguilar, 1990- pag.64-65 |
A PROPOSITO
DI TAGORE … Se
l’Immortale non albergasse nel cuore della morte, se la gaia
sapienza non sbocciasse lacerando la scorza del dolore, se il
peccato non morisse rivelandosi, se
l’orgoglio non si spezzasse sotto il peso delle sue decorazioni, da dove
verrebbe allora la speranza …. Il valore
del sangue dei martiri, delle
lacrime delle madri sarà
completamente perduto nella polvere della
terra, senza conquistare il Cielo con il loro
prezzo? E quando
l’Uomo infrange I suoi
legami mortali, non si
rivela in quel momento l’Infinito? Da Poesie
d’amore, Ed. Newton, 1989- pag. 108 |
3)Un altro settore importante che meriterebbe un ampiamento
riguarda la poesia moderna tra fine ‘800 e metà ‘900. Io ho sviluppato i
punti di riferimento, coloro che hanno contribuito a un vero e proprio salto di
paradigma sostituendo la poesia di rappresentazione con la poesia di creazione,
ma bisogna ricordare che accanto e in conseguenza di quella produzione abbiamo
avuto decine di autori che hanno consolidato la nuova concezione permettendole
di conformarsi, consolidarsi e alla fine imporsi. Ne abbiamo in Italia e
all’estero.
Nel nostro
Paese vanno ricordati i così detti Vociani, Sbarbaro Slataper Jahier Rebora, va
ricordato un poeta molto particolare come Campana, e quelli che si possono
considerare i veri ermetici, come Quasimodo Luzi Bigongiari.
All’estero
possiamo vedere come la diffusione si sia verificata in ogni dove, dalla
Germania di Benn alla Spagna di Machado alla Francia di Valery e Eluard alla
Grecia di Kavafis al Portogallo di Pessoa ai poeti di lingua inglese T.S. Eliot
e Pound e via dicendo.
Questi poeti,
e tutti gli altri che non ha senso elencare in questa sede, hanno un loro modo
di esprimere la propria ricerca e il proprio scavo, un modo sempre originale e
che segnala sia il contesto storico-geografico sia le relazioni personali. Gli
autori ai quali ho dedicato uno specifico articolo, Baudelaire Rimbaud Pascoli
Ungaretti Montale Paz, non sono i migliori per gusto estetico o per il
carattere rivoluzionario della parola da loro espressa; essi non sono neppure i
poeti a cui sono maggiormente affezionato. Ad essi ho dedicato uno spazio
autonomo perché penso che aiutino meglio di altri a comprendere i caratteri e
l’evoluzione della poesia moderna; essi rappresentano sia il filtro più
adeguato sia la chiave di lettura di tutte quelle generazioni che hanno animato
il verso del 1900.
Può capitare
di trovare Eliot più intenso di Montale, Pound più innovativo di Rimbaud,
Eluard più aereo di Ungaretti, Benn e Kavafis più emotivamente concentrati
degli altri e la loro lettura ci permette di andare ancora più in profondità,
ma, non essendo questa né un’Accademia né un’Enciclopedia, nei poeti che ho
sviluppato possiamo scorgere un orizzonte, senza il quale rischiamo di perdere
la bussola.
4)Anche la prosa del ‘900 meritava uno sguardo sebbene
sia stata dominata da realismo e neorealismo, mentre poche sono le tracce che
troviamo sulla scia di Pirandello e Svevo. In questo senso si sarebbe dovuto
parlare soprattutto degli stranieri che hanno segnato fortemente il panorama
letterario e mi riferisco in particolare a Kafka e Proust, senza scordare Joyce
e Borges. Tra questi avrei parlato in particolare di Proust e di Borges.
Lo scrittore francese non è solo lo scrittore delle madeleinettes o delle
relazioni diverse né il grande pittore di un’epoca, ma il poeta del tempo,
colui che è riuscito a scandagliare quel tempo che Bergson aveva cominciato a
interrogare e che obbligherà Heidegger a fermarsi. In questo senso non sono i primi
sei romanzi della Recherche a lasciare il segno indelebile per chi sa
che le parole sono la vita e la vita corrisponde al senso della vita, ma
proprio l’ultimo, il romanzo intitolato “Il tempo ritrovato” che,
nonostante la frammentazione dell’esistenza e delle esistenze, nonostante la
circolarità della vita scolpita dal tempo che invece procede in una forma
apparentemente lineare, fornisce quel senso senza il quale la letteratura
resterebbe priva di orizzonti.
Per quanto
riguarda Borges ci troviamo di fronte a una regione moderna con i suoi
centri abitati, le sue costruzioni, le attività produttive in collegamento con
la natura, le comunicazioni e tutti gli interrogativi che crescono con il
crescere di una realtà organizzata. A differenza di Proust il percorso di Borges
è reticolare e difficilmente rappresentabile se non si hanno in mente numerose
alternative, possibilità, intrecci. Ricondurlo nell’ambito della fantasia e
dell’immaginazione significherebbe falsarne la comprensione, possibile solo se
quei due aspetti sono visti come naturale produzione della mente umana. Alla
maniera delle acquisizioni contemporanee delle neuroscienze. Di Borges si
ricordano soprattutto Finzioni e in particolare L’aleph, ma la
sua attività è talmente vasta e profonda che, per chi è veramente interessato a
scavare nella letteratura per trarre incidenze con le proprie parole e la
propria esistenza, non esiste opera privilegiata, perché ogni pagina può
permetterci uno sguardo, un vislumbrar, in nuove stanze che tocca a noi
scegliere di illuminare o meno. Può essere una poesia, una breve sollecitazione
culturale o un racconto apparentemente argentino, una riflessione di ampio
respiro, una semplice frase capace di essere incorniciata o deformata.
Insomma
tutto.
A
PROPOSITO DI PROUST “Alla ricerca
del tempo perduto” è, come si sa, il
titolo originale e completo di questo
pluriromanzo, considerato
il più lungo del mondo con quasi 10 milioni di caratteri. Si tratta di un’opera da tutti considerata
straordinaria a tal punto
che un critico
l’ha definita “L’opera
cattedrale”. … Nel pluriromanzo di Proust troviamo
tutto quello
che ci serve a dare un senso alla
nostra vita, ma non come manuale di istruzioni e lista della
spesa, bensì come indicazione di percorsi ed orizzonti. Su molti punti possiamo
discordare, ma non sull’invito continuo che Marcel, il protagonista, ci fa, a non dimenticare mai il senso
delle cose, l’approccio
con cui ci rivolgiamo agli
altri e al mondo, cioè a noi
stessi. … Dobbiamo leggere le sue pagine, dense di ragionamenti e di riflessioni, pensando a noi
stessi. “In realtà, ogni lettore,
quando legge, è il lettore di se stesso. L’opera è solo una
sorta di strumento ottico che
lo scrittore offre al lettore per consentirgli di
scoprire ciò che forse, senza
il libro, non avrebbe visto in se stesso…l’autore non se ne deve offendere ma, al contrario, lasciare
al lettore la più grande libertà, dicendogli: ‘Guardate voi stesso se vedete meglio con quella lente, con questa, con quest’altra’.” (Il tempo ritrovato, Oscar
Mondadori, pag.268). … E non si trattava di un IO preconfezionato, ma
di un IO che erano molti
IO: “Capivo infatti che morire non
era qualcosa di nuovo,
che dall’infanzia in poi ero già morto tante volte…e Albertine avevo smesso di amarla quando ero diventato un altro” (Op.Cit.
pag.420). “Uno dei
miei IO..aveva
serbato in me i suoi
scrupoli e perduto la sua memoria. In compenso l’altro IO…si ricordava”
(Op.
Cit. Pag.423). Marcel parla
di scrittura ed è chiaro
che il suo confronto è con i grandi, ma sa anche che questo lavoro di scavo,
di scoperta, di traduzione
di ciò che non si vede appartiene a tutti: “La vera vita, la vita finalmente riscoperta e illuminata, la
sola vita, dunque,
pienamente vissuta, è la letteratura. Vita
che, in un certo senso, abita in ogni istante in tutti gli uomini non meno che nell’artista. Ma essi non la
vedono, perché non cercano di illuminarla” (Op. Cit. Pag.249). Questa elusione era stata chiarita in precedenza: “Quanto
al libro interiore di segni sconosciuti, per la cui lettura nessuno
poteva offrirmi l’aiuto di nessuna
regola, la lettura stessa consisteva in un atto di creazione dove non c’è alcuno
che possa sostituirci e nemmeno collaborare con noi.
Quanti così tralasciano
di scriverlo! Quanti compiti non ci
si assume pur
di sottrarsi a
quello. Ogni avvenimento…aveva fornito altre scuse agli scrittori per non decifrare quel libro” (Op. Cit.
Pag. 230). … Il tempo ritrovato non è solo la conclusione del pluriromanzo, ma diventa
la chiave di lettura delle
vicende narrate
e dei personaggi
proposti: è allo stesso tempo parte
interna dell’opera complessiva e punto
di vista esterno capace di illuminare tutta la materia.
… Ogni elemento
oggettivo ha lo stesso valore ed è da esso che occorre partire, si tratta
infatti di tradurre ognuno di quegli elementi oggettivi che
incontriamo e che accompagnano la nostra esistenza: “Una nube, un triangolo, un campanile, un fiore, un sasso…sotto
quei segni c’era forse qualcosa di completamente diverso che dovevo sforzarmi
di scoprire, un pensiero di cui essi erano la traduzione…Questa decifrazione
era difficile, certo; ma era la sola che desse qualche verità da leggere. Le
verità che l’intelligenza afferra direttamente…hanno qualcosa di meno
profondo, di meno necessario (da qui la falsità del realismo di cui a
pag.232) di quelle che la vita ci comunica malgrado tutto. In un’impressione,
materiale perché entra in noi attraverso i sensi, ma di cui possiamo estrarre
lo spirito” (Op. Cit. Pag. 229). Appare evidente che si tratta di uno
sviluppo della famosa estrazione della quintessenza di cui parla Rimbaud ne
La lettera del veggente; infatti “bisognava
cercare di interpretare le
sensazioni come segni
di altrettante leggi e idee, tentando di pensare, ossia di far uscire
dalla penombra quel che avevo sentito, di convertirlo in un equivalente
intellettuale.” (Op. Cit. Pag. 229) Dunque la realtà non
è data oggettivamente, ma ha bisogno di essere ricostruita e poi edificata e
questa costruzione non può essere immediata e istantanea, ma deve porsi e
vivere attraverso il tempo: la madeleine come il campanile hanno un senso
solo se la memoria, soprattutto involontaria, permette l’unione tra la
madeleine di oggi e quella di allora, tra il suono delle campane appena
sentito e quello simile che è stato evocato e ricondotto in vita. Proust si
rende conto che il tempo è un riferimento ordinato e cronologico, ma il tempo
è anche qualcosa che ha a che fare con la coscienza e con la realtà dell’IO.
Il passato non è mai passato del tutto e lascia tracce inconfondibili e
indelebili sul presente, così come il futuro non è semplicemente qualcosa di
aleatorio e insondabile, in quanto presenza contemporanea di molteplici
possibilità. La riflessione
di Proust passa
attraverso numerosi esempi.
Il titolo dell’opera non è
malinconico e pessimista, al contrario è allo stesso tempo progetto e
impegno: il tempo che ci ha fatto vivere si presenta come perduto, ma ciò che
lo scrittore vuole fare è ricercarlo, andare incontro a quanto è stato
vissuto e che per i più è ormai morto e sepolto. Attraverso oggetti, persone,
situazioni, episodi che vivono perché nutriti dall’anima di Marcel il
protagonista ci accompagna in questa sua ricerca fino al momento in cui può
farci partecipi del successo del suo impegno. … Il tempo alla fine è stato
ritrovato. Cerchiamo di capire il senso della ricerca e il senso del ritrovamento. … Non
è un’operazione mentale,
ma qualcosa di spirituale;
non è la riproposizione di qualcosa che non c’è più, ma la
capacità di collegare
il passato, che ci ha formati, al presente che lo ha fatto rivivere.
… Non c’è nè rimorso nè rimpianto nè semplice contemplazione, perché
il recupero del passato (una sensazione, un pensiero, una
relazione) mi obbliga
a fare i conti con me stesso,
con la storia cui ho dato vita, con tutto quanto è dipeso da me e con tutto quanto mi ha formato. “Ero alla ricerca della causa di tale felicità (le immagini di Combray e
Venezia)…sino a far rifluire il passato
nel presente…; in verità
l’essere che assaporava allora
in me quell’impressione (era)
grazie a una di tali identità fra il presente e il passato…non viveva che dell’essenza
delle cose…Questo
essere non
era venuto a me…che…ogni volta che il miracolo di un’analogia
mi aveva fatto
sfuggire al presente…L’essere che era rinato in
me…quell’essere non
si
nutre che dell’essenza delle cose, in essa soltanto trova la propria sostanza, le
proprie delizie” (Op.
Cit.
Pagg. 220-221-222). Occorre uno sforzo titanico, ma chiaro nelle
sue linee: “Il solo modo per goderne di più era tentare di conoscerle più compiutamente là dove esse si trovavano, vale a dire in
fondo a me stesso, di renderle più chiare sin nella
loro profondità”
(Op. Cit. Pag.228). … Occorre “ritrovare,
riafferrare, farci conoscere quella
realtà lontani dalla
quale viviamo, rispetto alla quale deviamo sempre di più a mano a mano che prende spessore e impermeabilità la conoscenza convenzionale
con cui la sostituiamo – quella realtà che rischieremmo di
morire senza averla conosciuta
e che è, molto semplicemente, la nostra vita” (Op. Cit.
Pag. 249). Questo lavoro che abbiamo visto non è circoscritto all’artista “è esattamente l’inverso
del lavoro che compiono incessantemente in noi, quando viviamo distolti
da noi stessi, l’amor proprio, la passione, l’intelligenza,
l’abitudine, ammassando sopra le nostre impressioni
vere, per nascondercele completamente,
le nomenclature,
le finalità pratiche che chiamiamo erroneamente la vita….(Questo lavoro) fa vedere
a noi stessi la nostra propria
vita, la vita che non può essere ‘osservata’, le cui apparenze, una volta
osservate, hanno bisogno di essere tradotte e, spesso, lette alla rovescia e
decifrate con fatica” (Op. Cit.
Pag. 250). L’analogia è opera
della mente
e del cuore, è opera dell’anima; e imparare a leggere
la vita stabilendo analogie,
cioè ponti tra tutto ciò che è espressione del nostro IO,
è ricercare il senso stesso della nostra vita. Proust ci insegna, attraverso migliaia di
pagine, che ricercare il senso della
vita è già una prima risposta alla domanda:
qual è il senso della vita? L’esteta Marcel, che rimpiange il foie gras di fronte alla avvilente spuma che si trova in commercio o il vero rombo e la vera salsa bianca, riesce
a fare breccia sul
muro di quella che
si impone come realtà, unica e oggettiva. Superato il
varco ci offre numerosi stimoli perché ognuno faccia una cosa simile: il muro non
separa solo una realtà da un’altra
realtà più vera, ma esistono tanti muri quanti sono gli
IO e hanno molte cose in comune, ma non tutte. Lo sforzo di lettura e traduzione
è dunque personale. Insistere con risposte consuete e
prestabilite non aiuta: l’idea
che conferme, stabilità
e certezze siano una garanzia è smentita
dalla vita
stessa, dove
dominano distanze, incertezze e mutamenti.
… Tutto il romanzo è uno sprofondare
nelle mutevolezze che il Tempo determina, perché
non devo “lasciarmi ingannare
dall’identità apparente
dello spazio” (Op. Cit. Pag. 286). “D’altronde, che noi occupiamo un posto
in continua crescita nel Tempo, tutti lo sentono e questa
universalità non poteva non rallegrarmi perché
era la verità, la
verità sospettata da
ciascuno, che io dovevo sforzarmi
di chiarire…Per cercare di sentirlo
più da vicino, ero
costretto a ridiscendere in me stesso…giacché quell’istante lontano stava ancora in me, potevo
ritrovarlo, tornare sino a lui, solo scendendo più profondamente in me (Op. Cit. Pag. 430-431). Il Tempo ci appartiene allo stesso modo che noi apparteniamo a lui. Ci sono però
differenze sostanziali perché
il Tempo
è impersonale e, come scrive Baudelaire, è un gladiatore
e ci imprigiona nella
sua rete, mentre
noi siamo persone e il
Tempo che si crede libero viene da noi intrappolato per gli anni della
nostra vita.
Ungaretti cercò di
penetrare il Sentimento del
tempo e Heidegger provò a collegarlo all’Essere. Proust risolve
il
problema, mantenendo le differenze
senza che le persone soccombano e
lo fa dalla prospettiva
dello scrittore che scava e opera
in profondità
mostrando a tutti
un percorso che è alla portata di tutti. L’uomo non può lottare contro
il Tempo, ma
non deve necessariamente essere annientato:
“Tutto quel tempo…era
stato, senza una sola interruzione, vissuto, pensato, secreto da me, non solo era la mia vita, non solo era me stesso,
ma anche dovevo tenerlo ogni minuto attaccato a me” (Op. Cit.
Pag. 432). La scrittura diventa lo strumento fondamentale
perché lì “gli uomini…occupano un posto così considerevole accanto a quello così angusto
che è loro riservato nello
spazio, un posto, al contrario, prolungato a dismisura poichè toccano simultaneamente, come giganti immersi negli anni,
periodi vissuti da loro a tanta
distanza e fra cui tanti giorni si
sono depositati
– nel Tempo”. (Op.
Cit. Pag. 433) L’uomo non potrà mai sconfiggere il
Tempo, perché
l’uomo è destinato alla morte, ma può uscire di scena a testa alta:
occorre però che sappia tenere insieme i fili che lo
collegano alle sue diverse stagioni, stagioni che non basta vivere,
ma che solo lo scavo può tenere unite, lasciando
la propria impronta
nella scrittura. Tante altre cose ci sarebbe da dire,
soprattutto su come La recherche abbia anticipato di mezzo secolo quanto rivelato dalle neuroscienze, con particolare riferimento alla memoria. Come ho scritto in altro luogo, è comune alla
poesia moderna aver
precorso aspetti che
poi le scienze della
natura hanno
confermato dal proprio punto di
vista. Lo spazio qui non lo permette; per questo rinvio al mio lavoro,
in
fase di conclusione,
su “Letteratura moderna e
scienza della
complessità” (estratto
da “La poesia costruisce l’IO”) |
A PROPOSITO DI BORGES “Si finisce sempre con l’assomigliare ai propri nemici”. ... Prendiamo un’altra citazione. Recuperando Coleridge
dice che “tutti
gli uomini nascono aristotelici
o platonici” (Altre
inquisizioni: Dalle
allegorie ai romanzi). Borges
sa che la vita, e la conoscenza, sono
un
labirinto, per questo
non ti dice
dove andare,
ma ti indica l’orizzonte.
Il come e non il cosa. Borges …è ognuno di noi;
Borges porta a un livello più alto i dubbi e i pensieri che si affacciano dentro ognuno
di noi, anche quando un velo ci nasconde i nostri stessi dubbi e i nostri stessi pensieri.
La riflessione su Aristotelismo e Platonismo non è una riflessione
di tipo filosofico, ma
esistenziale. Da essa infatti diparte qualcosa che
impegnò costantemente Borges per
tutta la vita, cioè per tutta la sua opera (non esiste in nessuno come in lui questa
identità): il tempo, lo spazio, il finito e
l’infinito. Il suo sguardo è molto più profondo,
ricco e utile
di quello di molti fisici e matematici, perché
non riduce i suoi interrogativi
nè alla letteratura nè alle
scienze dure. L’immagine
della Biblioteca di Babele in Finzioni o le riflessioni
sul tempo fatte ad esempio in A. I. di Altre inquisizioni o ancora
tutti i brani presenti in Storia
dell’eternità: sono solo degli esempi di come Borges
entra alla sua maniera in quelle che fino a quel momento erano disquisizioni
solo filosofiche o solo
scientifiche. E lo stesso vale per quanto riguarda la differenza tra
classico e romantico di cui parla
ad esempio in La postulazione della realtà
in Discussione del 1931: nulla
di accademico e convenzionale, ma l’occasione per entrare dentro questi
due universi per cercare di
com-prendere cosa si
nasconda nelle viscere dell’esistenza degli uomini. … E l’uomo non è mai l’umanità, categoria talmente astratta che lo fa sorridere, ma sempre,
comunque e
dovunque, l’individuo. L’individuo nella concretezza della
sua carne e dei suoi pensieri, nella concretezza delle
sue letture e delle
sue paure, nel sogno di un altro come
nel sogno di Dio. Evaristo Carriego, Hernandez del Martìn Fierro,
Francisco Luis Bernàrdez, autori di saghe nordiche, anonimi scrittori orientali dialogano con i più grandi pensatori,
narratori e poeti mai esistiti. E non manca la luce
della Cabala,
delle Mille e una Notte,
del Ramayana, del Libro dei morti, della
Bibbia….. Sembrerebbe
enciclopedismo di sfaccendati e inetti abitatori di strane biblioteche. E infatti apro a caso il volume
1°, Altre Inquisizioni,
da pag. 1033 a pag. 1037 c’è il testo
“Sopra
il Vathek di William
Beckford”. In queste poche pagine troviamo
riferimenti a: Carlyle, Michelangelo, Poe,
Fonthill, Chapman, Mallarmée, Belloc,
Voltaire, Saintsbury, Lang, Swedenborg, Dante, Stevenson, Chesterton,
Melville, De Quincey, Baudelaire, Huysmans, d’Herbelot, Hamilton, Galland, Piranesi, Marino, Henley. Per
la curiosità Vathek era il nono califfo abasside. Poco più
di quattro pagine
e tanti riferimenti. … E’
un mondo che
scoperchia molti
mondi e si getta in
nuovi mondi… Borges non intende ricostruire il mondo degli uomini o il mondo delle lettere secondo
un piano organico e meccanico; egli corre a perdifiato lungo le lievi colline e le aspre montagne della
vita e della letteratura. E la Biblioteca di Babele è
“illuminata, solitaria, segreta, infinita”, come l’uomo e lo scrittore, come
la sua vita e le
sue opere. E’ anche “periodica”,
per cui Borges è ognuno di
noi e ognuno di
noi è Borges. Non è sufficiente leggere le opere dello scrittore argentino,
occorre accoglierne il virus, senza
pensare a un vaccino: solo
così, forse alla
fine dei
nostri
giorni, ci
accorgeremo cosa vuol dire
che Borges
è ognuno di noi
e ognuno di noi
è Borges. (estratto da “La poesia costruisce l’IO”) |
Ho citato
quattro aree che avrebbero aiutato ad approfondire l’importanza della
letteratura nello sviluppo di elementi di complessità e non ho preteso di
riassumere la letteratura (mondiale) in queste pagine. Allo stesso tempo ho
cercato prospettive che non rispondessero al gusto personale né che volessero
imporsi come una visione oggettiva del fenomeno letterario. Ciò non vuol dire
che non esista una gerarchia, anzi si può dire che, stando come punto di
riferimento le nuove acquisizioni epistemologiche collegate al pensiero
complesso, gli autori sin qui presentati sono quelli che permettono un maggior collegamento
con quelle acquisizioni. Naturalmente anche in questo articolo sono ricordati
solo alcuni degli autori che comunque hanno contribuito nel corso degli ultimi
secoli a confrontarsi con la complessità del reale.
Come succede
sempre ogni epoca si guarda indietro e recupera autori e tematiche
precedentemente poco valutate o addirittura condannate, ed è così che
continuerà a succedere. E’ proprio di questi tempi la rivalutazione di una
scrittrice italiana che pure è stata insignita del Premio Nobel, Grazia Deledda,
che era caduta nel completo dimenticatoio. Negli ultimi decenni abbiamo
assistito a un recupero del Medio Evo, seppure con vari distinguo, a una messa
in discussione del valore assoluto della ragione, a una rivalutazione del Barocco avvicinato addirittura alla Scienza
Moderna, a una critica alla Rivoluzione Francese, a una considerazione molto
più alta di quello che un tempo fu chiamato Post-Romanticismo e a tanti altri
movimenti che mostrano qualcosa di più del cambiamento di gusti. Certamente i
gusti e gli affetti continuano ad avere una influenza non marginale, ma
lentamente ci si rende conto del carattere reticolare anche della letteratura,
per cui, come succede in ogni sistema reticolare, le informazioni e in generale
i flussi si muovono in tutte le direzioni senza prescrizioni e determinismi, scoprendo
nuovi aspetti che non cancellano il passato ma lo arricchiscono, permettendo di
guardare il futuro con un occhio molto più attento, comprensivo e riconoscendo
in modo sempre più netto quanto ogni prodotto letterario ci appartenga e
obbligandoci a fare i conti in misura sempre meno superficiale.
Concludo, in
onore degli assenti dal mio modesto libretto, con passi di Borges tratti da La
Biblioteca di Babele (Ed. A. Mondadori, I Meridiani, 1984 - pag. 684-687 )
Quando si
proclamò che la Biblioteca comprendeva tutti i libri, la prima impressione fu
di stravagante felicità. Tutti gli uomini si sentirono padroni di un tesoro
intatto e segreto. Non v'era problema personale o mondiale la cui eloquente
soluzione non esistesse: in un qualche esagono. L'universo era giustificato,
l'universo attingeva bruscamente le dimensioni illimitate della speranza.
…
Altri, per
contro, credettero che l'importante fosse di sbarazzarsi delle opere inutili.
Invadevano gli esagoni, esibivano credenziali non sempre false, sfogliavano
stizzosamente un volume e condannavano scaffali interi: al loro furore
igienico, ascetico, si deve l'insensata distruzione di milioni di libri. Il
loro nome è esecrato, ma chi si dispera per i « tesori » che la frenesia di
coloro distrusse, trascura due fatti evidenti. Primo: la Biblioteca è cosí
enorme che ogni riduzione d'origine umana risulta infinitesima. Secondo: ogni
esemplare è unico, insostituibile, ma (poiché la Biblioteca è totale) restano
sempre varie centinaia di migliaia di facsimili imperfetti, cioè di opere che
non differiscono che per una lettera o per una virgola. Contrariamente
all'opinione generale, credo dunque che le conseguenze delle depredazioni
commesse dai Purificatori siano state esagerate a causa dell'orrore che quei
fanatici ispirarono. Li sospingeva l'idea delirante di conquistare i libri
dell'Esagono Cremisi: libri di formato minore dei normali, onnipotenti,
illustrati e magici.
…
Non mi sembra
inverosimile che in un certo scaffale dell'universo esista un libro totale (in
nota: Ripeto: perché un libro esista, basta che sia possibile. Solo
l'impossibile è escluso. Per esempio: nessun libro è anche una scala, sebbene
esistano sicuramente dei libri che discutono, che negano, che dimostrano questa
possibilità, e altri la cui struttura corrisponde a quella d'una scala);
prego gli dèi ignoti che un uomo - uno solo, e sia pure da migliaia d'anni! -
l'abbia trovato e l'abbia letto. Se l'onore e la sapienza e la felicità non
sono per me, che siano per altri. Che il cielo esista, anche se il mio posto è
all'inferno. Ch'io sia oltraggiato e annientato, ma che per un istante, in un
essere, la Tua enorme Biblioteca si giustifichi.
APPENDICE
a) Eterogeneità:
permette di valorizzare le differenze, rifiutando la pretesa superiorità
chiarificatrice e com-prensiva di ciò che rende omogeneo. Non si tratta dunque
di vedere eccezioni rispetto a una regola, ma di scoprire come all’interno di
un movimento che in quanto tale credevamo omogeneo numerose sono le differenze.
Lo stesso vale per ogni singolo autore e anche per un’opera.
b) Provvisorietà:
consente di rifuggire da pretese letterarie, sia di poetica sia di gusto,
definitive, scoprendo come non solo nel lungo percorso letterario tutto si
presenti come provvisorio, ma addirittura ciò avvenga all’interno di un secolo
e di uno stesso autore.
c) Debolezza
dei legami: permette di stabilire legami in tutte le direzioni, andando al
di là di quei collegamenti a cui siamo di norma abituati, uno per tutti il
legame storia-letteratura; si tratta cioè di sperimentare nuove possibilità
sapendo graduare anche l’intensità dei collegamenti. Certi legami, che
consideravamo forti, potranno apparirci deboli e viceversa, mentre cercheremo di
utilizzare tutta la scala di riferimento.
d)
Casualità: serve a recuperare il ruolo del Caso, inteso non come forza
mitica o come alter ego della nostra ignoranza, ma come elemento che va al di
là di leggi che abbiamo definito come universali ed è capace di contribuire
alla forma che prenderanno le nostre vite.
e) Idiosincrasia:
permette di com-prendere il carattere specifico, particolare (idios),
irripetibile ed irriducibile di ogni elemento preso in considerazione, dal
singolo autore alla singola opera. La capacità di stabilire sempre maggiori
legami non significa la perdita di specificità dei singoli punti, al contrario
ne valorizza la estrema varietà coloristica di cui sono composti.
f) Analogia:
consente di non ridurre le nostre possibilità e capacità (di comprensione,
scoperta, creazione) a rapporti causa-effetto e onnicomprensivi, illudendoci di
possedere una realtà, laddove –come la poesia moderna ci insegna- una relazione
analogica è capace di andare maggiormente in profondità, mentre una
de-finizione sembra solo più sicura perché più superficiale e limitata.
g) Rumore:
permette di allargare il rapporto ordine-disordine introducendo elementi di
turbamento e agitazione come significativi sia del vivere umano sia della sua
organizzazione. In questo senso ciò che non è possibile immediatamente
ricondurre all’ordine (v. dichiarazioni di poetica ad esempio) o al disordine
(v. il problema della pazzia nella genesi letteraria) ha un valore decisivo
nella produzione letteraria.
Commenti
Posta un commento