Eugenio Montale |
IO e poesia, poesia e IO-3 |
I due poeti nacquero nello stesso periodo, dividendoli
solo otto anni; Allegria di naufragi è del 1923 mentre Ossi di seppia
del 1925, Sentimento del tempo è del 1933 mentre Le occasioni
è del 1939, Il dolore fu pubblicato nel 1947 e La bufera e altro
nel 1956.
Ungaretti cessò di vivere nel 1970, Montale nel 1981.
Come si vede da questa sintetica cronologia i due poeti
viaggiarono insieme e furono riferimento e insegnamento per una serie di poeti
che furono propriamente chiamati ermetici. A livello personale non ci fu
particolare affinità, ma questo a noi non interessa.
Interessa la poesia.
La sua poetica
degli “oggetti”,
il famoso “correlativo oggettivo”
permette di verificare quanto fosse credibile
la proposta di Baudelaire (e di Nietzsche) di radici che
creano alberi che si slanciano verso il
sole, senza che tutti quegli oggetti si
trasformassero in
qualcosa di semplice e fotografico
Se di pessimismo si vuole parlare questo
riguarda la condizione umana e ad esso Montale
risponde con
l’ottimismo della parola: può apparire poca
cosa
soprattutto oggi che
molti si riempiono la bocca di slogan,
ma
è uno degli insegnamenti che
Montale, come gli altri poeti moderni, ci ha lasciato. E la parola di Montale non è mai banale perché ha sempre una molteplicità di valori, parla di se stessa, delle parole che le
stanno accanto e del discorso che con quelle riesce
ad intessere.
Ritorniamo al male di vivere, ben esemplificato anche per sonorità da un rivo strozzato che gorgoglia,
da una foglia riarsa incartocciata e da un cavallo stramazzato. Si tratta di immagini,
“oggetti”, che al solo leggerli
e pensarli evocano in noi un senso di disagio
e di malessere: la fluidità del fiume, la
freschezza della foglia,
la libertà del cavallo hanno
cessato di esistere.
Non c’è dubbio che questa sia
la condizione umana e l’avverbio “spesso” sta a indicare la frequenza, quasi una costante: ad essa (il male) Montale non
contrappone in modo moralistico e ideologico una qualche fantasia (il bene), ma la possibilità di trovare in quella difficile condizione
una o più possibilità. Queste possibilità
sono schiuse
(oggi si direbbe “emergono”)
dall’indifferenza che è divina, cioè qualcosa di straordinario, perché va
oltre la normale comune condizione umana.
Ed è proprio questa apertura che caratterizza tutta la poesia di Montale, la possibilità
di
trovare nel vivere sofferente
dell’essere umano una qualche via d’uscita. Questa
via d’uscita è
ripetutamente segnalata
e rappresenta qualcosa di fondamentale nella
visione di
Montale:
“Cerca una maglia rotta nella rete / che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!” (In limine,
Ossi di seppia).
“Talora ci si aspetta / di scoprire uno sbaglio di Natura
/ il
punto morto del mondo, l’anello che non tiene, / il filo da disbrogliare che finalmente ci
metta / nel mezzo di una verità”
(I limoni, Ossi
di seppia).
“Oh l’orizzonte in fuga…Il varco
è qui?” (La casa dei doganieri, Le occasioni).
Non c’è dubbio che il punto di partenza per
Montale è quel male di vivere che è sostanza dell’esistenza
umana e che
abbiamo visto rappresentato dal fiume, dalla foglia e dal cavallo, ma che
trova forse la
più
intensa rappresentazione nei versi finali di un’altra poesia:
“sentire con triste meraviglia /com’è tutta la vita e il suo travaglio
/ in
questo
seguitare
una
muraglia
/
che
ha
in
cima cocci aguzzi di bottiglia”. (Meriggiare pallido e assorto, Ossi di
seppia).
Fare i conti con la realtà e con se stessi,
questo è il punto di partenza, invito al rifiuto
dell’ipocrisia e allo stesso
tempo invito a trovare la luce in quello
che si presenta solo
come buio.
La Natura, la
Realtà sembrano chiusi, definiti, delimitati
da una rete dove i giochi e dunque le regole sono fatti e fissi. Ma questa è
solo apparenza, occorre guardare
bene e cercare cercare cercare: c’è
sempre una maglia rotta nella rete, c’è
sempre un varco, c’è sempre un
anello che non tiene. Nessuna legge
fisica ci permetterà di trovarli, solo noi possiamo farlo, ma per
farlo occorre volere e
credere che ci sia questa possibilità. Questo
sforzo è rappresentato nella seconda parte de I
limoni: “Lo sguardo fruga d’intorno, / la mente indaga accorda disunisce” e sembra di
vedere qualcosa di inatteso,
qualcosa che vada oltre, “qualche disturbata Divinità”.
Il tentativo e lo sforzo non sono stati premiati: “Ma l’illusione manca…la luce si fa avara
– amara l’anima”. Il tentativo è fallito ma ci ha fornito strumenti importanti e così
un giorno “da un malchiuso portone / ci si mostrano i gialli dei limoni; / e il gelo del cuore si
sfa,
/ e in petto ci
scrosciano / le loro canzoni / le trombe
d’oro della solarità”. Passeggiamo e non ci accorgiamo,
perché ci manca la
fede (non religiosa) e siamo assorbiti dal male
di vivere in cui ci identifichiamo privando di
linfa la nostra anima.
Solo chi ha creduto nella possibilità
di trovare quel varco e si è esercitato, prima o poi ne riconosce le forme e i tempi: non è un caso se ha guardato oltre il portone. E’ così che il Caso e l’Istinto cessano
di essere aleatori e diventano prodotto della nostra anima. Noi siamo
il nostro Destino: scegliendo o essendo scelti.
Il varco (con questa parola
riassumo tutti gli altri termini che esprimono lo stesso concetto), il varco ci porta sia ad agire sia a conoscere,
ha valore etico ed
epistemologico (conoscitivo). Ci permette di oltrepassare il portone
e godere del profumo dei limoni, ci permette
di
godere del torpore,
di
volare alto e correre come una nuvola o come
un falco. Azione. Ma ci permette
anche di conoscere, in
un modo
completamente nuovo. Anticipando di 40
anni quanto la biologia scoprirà,
già in Montale “conoscere è creare e creare è
conoscere”.
Infatti il varco può
immetterci
in una qualche verità. Una verità, non la
Verità.
Erede di Baudelaire,
Montale sa che la realtà non è oggettiva per cui non può esistere
una
verità assoluta, da scoprire attraverso un processo che mette le tessere del puzzle una dopo l’altra fino
a quando non avremo la visione del tutto. Come meglio dirà in un’altra poesia:
“Non chiederci
la
parola
che
squadri da ogni lato
/
l'animo
nostro
informe, e a lettere di fuoco / lo dichiari e risplenda come un
croco / perduto in
mezzo a un polveroso prato. / Ah l'uomo che se ne va sicuro, / agli altri ed a se stesso amico, / e l'ombra sua non cura che la canicola /stampa sopra uno scalcinato
muro! / Non domandarci la formula che mondi possa aprirti, / sì qualche storta
sillaba
e secca
come un ramo. / Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che
non
vogliamo.”
La parola del poeta non può squadrare da ogni lato
l’animo nostro informe. L’umiltà del poeta non è psicologica o esistenziale,
ma, pur partendo dalla specificità individuale di Montale, va oltre, assumendo
un valore epistemologico.
L’animo è informe, non ha forma e non ha forma perché la
realtà non è oggettiva (vedi Baudelaire in Corrispondenze); la mancanza di
forma impedisce, non per ignoranza,
la comprensione del mondo, il suo essere identificato e preso nell’insieme
definito degli elementi che lo compongono. L’informità è impossibilità di
ricondurre i vari elementi, materiali e spirituali, a una forma, un modello,
uno schema. Caratteristica della forma è proprio il suo essere de-finita, cioè
avere dei fines, dunque dei confini, un perimetro. Come dirà Stoppard: le
montagne non sono triangoli.
La parola (o la matematica galileiana ne Il saggiatore)
non può squadrare da ogni lato, cioè ricostruire i lati-confine della
res-realtà presa in considerazione, res-realtà che in questo caso è l’animo. Ho
detto non per ignoranza, cioè questa incapacità non è legata ai limiti della
nostra conoscenza, ma al fatto che le res-realtà sono in continuo movimento e
dunque impossibili nella pre-visione. Anche questo aspetto lo ritroviamo nella
scienza della complessità: Prigogine, le biforcazioni e la natura che sceglie.
Quanto
scritto fin qui mette in luce alcune acquisizioni comuni alla poetica
montaliana e alle neuroscienze, ma la parola di Montale ha saputo anticipare
anche altri aspetti ampiamente riconosciuti oggi dalla scienza della
complessità.
La parola, letteraria e scientifica, non può dare vita a
leggi universali, secondo quanto elaborato dalla scienza moderna cartesiana e
galileiana, e questo concetto è riaffermato, senza possibili equivoci, con la
frase Non domandarci la formula che mondi
possa aprirti. Qui Montale chiarisce il carattere epistemologico della sua
affermazione: nessuna formula può aprire dei mondi, svelare enigmi, risolvere
problemi. Non è scetticismo né relativismo, ma poiesia e etica della
responsabilità. Giusto era il segno: chi l’ha ravvisato/non può fallire
nel ritrovarti (Piccolo testamento, La bufera e altro).
In questo percorso Montale è chiaro e fornisce numerosi
strumenti per percorrere quella strada: Cerca una maglia rotta nella rete (In limine, Ossi di seppia), Talora ci si aspetta/di scoprire uno sbaglio di Natura,/il punto morto
del mondo,l’anello che non tiene,/il filo da disbrogliare che finalmente ci
metta/nel mezzo di una verità.(I limoni, Ossi di seppia), Il varco è qui?...(La casa dei
doganieri, Le occasioni).
Tutti questi strumenti ci portano dentro la conoscenza,
in modo sempre più profondo: la conoscenza non è data una volta per tutte. In questa poesia è presente quello che nei
decenni successivi diventerà il moderno approccio
conoscitivo (o meglio
epistemologico).
1)Non esiste una formula che possa gettare luce sul mondo in modo definitivo e
assoluto (come si conviene a una formula); non esiste dunque una teoria del tutto
che lo stesso Hawking aveva
rinnegato dopo averne fatto
l’essenza della sua
ricerca;
2)Non esiste la parola o le parole che riconducano ad unità la complessità del mondo e
che, come voce divina, sappiano guidare gli uomini nella loro vita terrena. Mentre
la quasi totalità
degli intellettuali si lasciava
ammaliare dagli slogan dell’ideologia, Montale si fa portavoce di quel pensiero critico che solo permette
all’uomo e alla sua società di progredire: progredire, perché la società
degli uomini non
termina
con
la società illuminata dal Sol dell’Avvenire.
3)In questo percorso verso nuovi orizzonti l’uomo deve riconoscere non solo il suo
essere informe, ma la sua complessità, esemplificata nella poesia dalla presenza della sua ombra che
è parte integrante del suo essere e che non può essere trascurata.
4)In questo quadro di riferimento la parola si erge sovrana,
ma non perché capace di
esaurire ogni dubbio, ma perché,
pur nei suoi limiti, è in grado di proporre un orizzonte di verità:
non so quale sia la
strada giusta, ma so
quali
strade non devo
percorrere: ciò che
non siamo, ciò che non vogliamo.
Né tutte le strade né una in particolare, ma solo alcune direzioni.
Chi conosce la scienza della complessità sa che questa è la prospettiva moderna,
chiarita già negli anni ’70 del secolo scorso dal Premio Nobel Prigogine: la Natura ha
davanti a sé delle prospettive, ma non tutte. Fine del determinismo classico, fine del
trionfo nichilista del Caso. Allo stesso modo oggi procedono
biologia e filosofia: le possibilità sono solo quelle legate
ai vincoli.
a)
La memoria
Ogni buon manuale
ci informa del ruolo che la memoria assume nel poeta ligure, in modo particolare nella
raccolta Le occasioni; d’altra parte lo stesso Montale in Piccolo
testamento scrive “sul fil di ragno della memoria”. Solo che far
riferimento alla memoria senza tenere conto di ciò che le neuroscienze hanno
scoperto e prodotto su questa importante funzione del cervello a me pare
estremamente limitativo. Dico questo non solo per una esigenza metodologica, ma
perché copre qualcosa di molto più importante, che invece dobbiamo avere il
coraggio di vedere e di portare alla luce.
Cominciamo con Cigola la carrucola nel pozzo che pur appartenendo a Ossi di
seppia ci prepara alla seconda raccolta.
Accosto il volto a evanescenti labbri: si deforma il
passato, si fa vecchio, appartiene ad un altro....
In questi tre
versi è segnato il percorso che la memoria, intesa come continua ricostruzione
del passato, riesce ad operare grazie alla poesia. Montale parte da un volto
che appare nella superficie normalmente piana di un pozzo; è un ricordo e
trema, cioè è capace di increspare quella superficie.
Montale così
vede e non vede quell’immagine, non perché ogni ricordo è regolarmente
annebbiato, ma perché non si tratta di un semplice ricordo. Quel volto è una
persona, quel volto è un’anima: quanto di quell’anima è oggi (hic et nunc)
presente nella conformazione della sua anima? Attraverso le parole che
compongono i versi della poesia egli riconosce solo tracce modeste di
quell’anima, lui non è più lo stesso Montale di allora e non è rimpianto,
malinconico approdo del tempo che passa. Al contrario questo riconoscimento
diventa scelta e quel volto scompare nell’oscurità; la distanza è lontananza di
quell’anima e allo stesso tempo lontananza di Montale.
Questa poesia ci porta subito alle due
quartine che compongono la poesia Non
recidere, forbice, quel volto, che appartiene a Le occasioni:
Non recidere, forbice, quel
volto, / solo nella memoria che si sfolla, /non far
del
grande
suo
viso in ascolto/
la mia nebbia di sempre. / Un freddo cala... Duro il colpo svetta. / E
Anche qui un
volto con il quale egli cerca di confrontarsi.
Il primo
passo è la richiesta, appassionata, a che la memoria non operi ancora una volta
il taglio di sempre; ma l’esperimento che gli permette di scavare produce un
risultato diverso, aspettato ma non voluto. Questo risultato è però lì davanti
a lui e lo impegna rispetto a se stesso. Anche qui, come nella poesia
precedente Montale deve prendere atto che oggi quel volto è solo un guscio di
cicala, involucro secco, che non dà segni di vita e che non ha lasciato tracce
nell’anima che poesia e vita hanno costruito nel corso degli anni. Ancora una
volta la poesia, cioè la parola, ha permesso una metabolizzazione e una nuova
acquisizione, la distanza. Ancora una volta la distanza è lontananza di
quell’anima e allo stesso tempo lontananza di Montale.
Dove però questo
percorso raggiunge la massima intensità e il maggiore sviluppo è in un altro
componimento della stessa raccolta, La casa dei doganieri, poesia che
merita un’attenzione particolare e una speciale riflessione.
LA CASA DEI DOGANIERI Tu non ricordi la casa dei doganieri |
Ancora la memoria e i diversi itinerari
che gli eventi prendono, direzioni anche antitetiche.
Ci incontrammo là, allora, e mi trovai
immerso nei tuoi pensieri, uno sciame, irrequieto. Non sento più la gioia del tuo riso e tu
non ricordi,
la tua memoria ha preso altre
direzioni.
Contrariamente all’inutile visione oggettiva, tu esisti perché io ti faccio esistere: forse mi hai pensato ma non importa perché certo è solo che
io ti penso e tengo il
filo di questa
nostra storia, ma non
ho segnali e tu sei lontana e non sei con me
nella casa che ci accolse. Tu
non ricordi
e l’unica cosa
sicura è che quella sera
è la mia sera,
non più la tua.
Tutto si muove, il tempo lo
spazio le persone, ma quella sera rimane, qui dentro di me. Posso,
anzi
devo, recidere il tuo
volto, ma non
ciò che ho vissuto. Ecco un
esempio di cosa significa fare
i conti con se stessi, con la propria storia: quell’incontro mi ha
formato e il ricordo mi ha arricchito,
ha creato una nuova
persona, che le parole sviluppate verso dopo verso hanno
contribuito a formare.
Si tratta di una poesia molto ricca che in un altro
contesto avrebbe bisogno di un’attenzione specifica e minuziosa, parola per
parola; basti pensare al significato della frase Il varco è qui?
Io mi concentrerò prima di tutto sul percorso complessivo
in rapporto al ruolo creativo che anche qui assume la memoria.
Il poeta passa in rassegna la sua vita, gli eventi, le
persone, le situazioni e non si limita a farne figurine da attaccare in un
album; le intreccia, le sovrappone, le districa, le isola, le scarta in modo da
poterle ricreare non tanto secondo un ordine logico e astrattamente razionale,
ma in termini di ragione complessa. La ragione complessa opera solo se i dati
sono molteplici, variabili, non assoluti, e soprattutto se si riesce a vederli
collegati, secondo linee di flusso e d’incontro non prevedibili, non
predeterminate, non date.
Il poeta passa in rassegna la sua vita per fare i conti
con se stesso, per conformare e progettare la propria anima. Se ne assume la
responsabilità. Etica della responsabilità. E’ qui, tra l’altro, che si capisce
meglio, e più in profondità, l’affermazione per cui poetica ed etica in Montale
coincidono.
Quella donna, quella casa, quella sera, quell’incontro.
Il poeta conosce la distanza, la sente e il suo approccio immediato è quello
comune: tu non ricordi quella casa, quella sera, quell’incontro. Non puoi
ricordarla perché io conosco la distanza. E’ lo stesso atteggiamento che quasi
tutti manifestano nei confronti del primo amore (il primo amore non si scorda
mai) non perché fosse speciale ma perché non vogliamo costruire la nostra anima
e ci rifugiamo in qualcosa che, essendo privo di consistenza, ci impedisce di
conformare la nostra anima.
Per salvarci rinunciamo a noi, alle nostre possibilità:
siamo già nella tomba.
Montale fa invece i conti con se stesso.
Tu: sciame dei pensieri, irrequietudine, riso. Non
dialogo più con i tuoi pensieri irrequieti e più non sento la letizia del suono
del tuo riso. Le cose non sono andate come prevedevo e, contrariamente a ciò
che si pensa, la bussola non riesce a segnare il punto cardinale e la somma dei
dadi non coincide con la regola.
Ciò vuol dire che tu non ricordi me, quella casa, quella
sera, quell’incontro. Ciò vuol dire che il mio tempo (altro tempo) non è il tuo
tempo (altro tempo), tempo –il tuo- che disturba, détourne, frastorna la tua
memoria. Il tempo segna lo spazio, la corporeità e l’anima.
Montale è andato oltre l’istintivo, immediato, comune
ricordo. Ha segnato le distanze costruendo la sua posizione, nuova rispetto
alla precedente, ma il percorso spirituale non è concluso e si sta compiendo
attraverso uno scavo sempre più profondo, fatto di sottrazioni, addizioni,
ricomposizioni.
La matassa c’è ed io ne tengo un capo, ma la matassa si
svolge e vedo allontanarsi l’altro capo, quella casa, il tetto, la banderuola.
Sempre più Montale si rende conto che tenerne un capo non è così importante
come pensava, perché lei è sola, cioè lui è solo, perché lei non respira qui,
cioè lui non respira la stessa sua aria.
Ed ecco la conclusione, con la quale il poeta conforma la
propria anima e, metabolizzando la propria esperienza, progetta se stesso. La
conclusione appare simile all’inizio, ma la parola non è un accessorio, nessuna
parola-poesia cioè poiesia lo è. Tu non ricordi la casa dei doganieri
diventa Tu non ricordi la casa di questa
mia sera. Ecco che il poeta ha ricomposto le parti e ha creato un tutto che
è nuovo: quella casa era la casa di un incontro, ma ora quella casa è solo sua,
come solo sua è quella sera. A tutto ciò il poeta non rinuncia, ma sa che
quegli elementi (la casa, la scogliera e il frangente, i pensieri, il riso e la
gioia, la luce della petroliera) sono solo suoi e lui ha scelto che lo siano;
il fatto che appartenessero a entrambi è solo un dato fenomenico, perché il
poeta ha distrutto quel dato e se n’è appropriato, nutrendo la sua anima e
facendola germogliare. Quella donna è un dato fenomenico di cui si è nutrito,
lo ha metabolizzato e la nuova anima è solo merito suo.
La dimensione spirituale si è arricchita e il resto è
contorno, accidente, fenomeno: Ed io non
so chi va e chi resta.
Ho già
evidenziato l’importanza delle parole e la loro
centralità. Ho già detto che non starò qui a vederle una per
una. Seguirò solo qualche traccia.
I suoni sono una componente fondamentale e sferzano,
mostrando
come il percorso che Montale
sta facendo tra
il
primo e l’ultimo verso è incerto, contorto,
turbato. E ciò avviene non per incapacità ma per
coscienza della complessità, che non è lineare e tanto meno deterministica:
come ci insegnano oggi biologia e neuroscienze i percorsi formativi si
realizzano attraverso rotture, incomprensioni, salti. Le parole esprimono
questo processo attraverso tutte le possibilità a loro insite: dal significato
(un filo s’addipana), all’etimologia (l’orizzonte in fuga), al suono
(frastorna, scoscende, strapiombo). E questo avviene anche nelle altre poesie
di tutte le raccolte.
Le singole
parole permettono anche
al lettore di
andare a vedere dentro la propria anima,
perché aprono
orizzonti e mondi: rialzo, strapiombo,
scogliera, libeccio, sferza,
frastorna, banderuola, oscurità, orizzonte,
varco, frangente,
balza, scoscende.
Le parole connesse tra di loro sotto forma sia di correlativi oggettivi sia
di occasioni (non
a caso il titolo della raccolta
vuole allargare la prospettiva degli
oggetti presenti in Ossi di seppia): il rialzo a strapiombo sulla scogliera; lo sciame dei tuoi pensieri; libeccio sferza da
anni
le vecchie mura; la bussola va
all’impazzata; il calcolo dei
dadi più non torna; un filo s’addipana;
la
banderuola
affumicata gira senza
pietà; l’orizzonte
in fuga; ripullula
il
frangente; la balza che scoscende;
ed
io non so chi va e chi resta.
Questa,
come tutte le poesie di Montale, mostra un filo
esile di discorso, che serve
però solo da cornice,
mentre rimane al lettore il compito di
immergersi nel testo e usarlo a proprio piacimento, obbligandolo
a confrontarsi con la
propria anima e a fare i conti con essa, incontrandola
e violentandola, accogliendola
e respingendola.
Occorre fare propri i
suoni, le parole e le immagini. Occorre andare oltre e sostituirli con quanto
in questo viaggio lentamente viene prendendo forma.
Non si tratta di spiegare la poesia. Non si
tratta di provare emozioni.
Non
si tratta di ritrovarvi un ordine,
un ritmo, una misura. La poesia moderna deve saper
far scattare nel lettore la molla poietica e costruttiva
della nostra persona. Spesso
questo non succede
e spesso non è
colpa del poeta, ma del lettore,
che si accontenta di
molto
poco.
Non è
possibile qui dialogare con molte poesie di Montale. Ho cercato di fornire una
chiave di lettura con la quale poterlo fare autonomamente, sapendo che la parte
e il tutto non sono mondi separati, ma che, se è vero che il tutto è maggiore
della somma delle parti, cioè le singole poesie, è vero anche che vale il
principio ologrammatico (ogni punto contiene quasi tutta
l’informazione dell’insieme che l’immagine rappresenta). Esso
permette, attraverso un’intensa penetrazione nei versi dei singoli componimenti,
di individuare quel percorso emergente che ci mette sulla strada di una verità.
Poesie e versi citati vanno in questa direzione.
La raccolta
Ossi di seppia si concentra sui singoli oggetti e su di essi si basa per
svilupparsi e prendere vita. La raccolta Le occasioni allarga la
presenza degli oggetti (che non mancano) a situazioni, che comunque svolgono la
stessa funzione di corrispondenza, cioè di analogia. Una lettura,
necessariamente attenta ma anche ripetuta, ci fa capire che lo sforzo di
Montale va oltre la dimensione personale, assumendosi la responsabilità di
collegare la propria personale e limitata storia a quanto risulta collegato
alla nostra persona. Ne emerge così un quadro reticolare che è allo stesso
tempo personale e collettivo, dando alla produzione poetica anche una
dimensione etica: la poetica si apre all’etica e questa permette di guardare
verso nuovi orizzonti poetici.
Mentre la
scienza cosiddetta moderna rivela sempre più i propri limiti come limiti
dell’essere umano che non possono essere ricompresi dentro leggi universali, la
poesia moderna raggiunge con Montale una coscienza nuova che ugualmente
riconosce gli stessi limiti e, invece di rifuggirli o nasconderli, li accetta
come nostra ineliminabile forma-contenuto. Da un lato lo storicismo con le
proprie pretese divinatorie e in particolare il marxismo che non ha problemi a
definirsi “scientifico”, dall’altro la letteratura moderna che accompagna, e
spesso precede, le acquisizioni epistemologiche proposte dalla scienza della
complessità, a partire soprattutto dall’affermazione della fisica quantistica.
Dopo Le occasioni
abbiamo la stagione de La bufera e altro e poi Montale non si fermerà
continuando a scrivere poesie in raccolte nuove come Satura e Diari
del ’71 e del ’72, Quaderno di quattro anni e altro, compresa una
intensa attività giornalistica. Io ritengo conclusa l’esperienza montaliana con
La bufera, mentre rinvio agli ultimi articoli un approfondimento sulle
poesie successive e sulla loro importanza, anche se in negativo, per la
comprensione dello stato dell’arte della letteratura contemporanea.
Dunque,
dicevo, La bufera e altro.
Le poesie
di questa raccolta lo tennero impegnato per 14 anni, tra il 1940 e il 1954: non
sono molti i componimenti e sarebbe riduttivo ricondurre l’opera agli eventi
della Seconda Guerra Mondiale. Certamente una poesia molto nota, Primavera
hitleriana, fa riferimento alla tragicità di quegli anni, ma è l’unica
poesia che richiama direttamente quel periodo; altre, probabilmente le prime,
esprimono il dramma di quell’epoca, ma lo fanno in modo indiretto, sebbene con
forte intensità. Così è la prima poesia dal titolo La bufera, dove
parole dense incidono in modo significativo: immagini come i lunghi tuoni,
il lampo che candisce, lo schianto rude che irrompono in uno spazio
oscuro, nido notturno, la fossa fuia, entrar nel buio. Il senso che emerge
dai suoni, dalle danze, da un incontro trova la sua sintesi nel verbo “annaspa”
seguito dai puntini di sospensione.
Anche la
terza poesia, Su una lettera non scritta, si muove su questo senso di
bufera che tutto inquieta e tutto stravolge, privandoci anche di quei pochi
punti di riferimento che abbiamo: per pochi fili su cui s’impigli il fiocco
della vita…ch’io fugga dal bagliore dei tuoi cigli. Ben altro è sulla terra.
Sparir non so né riaffacciarmi…la sera si fa lunga, la preghiera è supplizio.
Molte
poesie di questa raccolta, al di là del contenuto che vi possiamo individuare,
sono il prolungamento di una poetica che abbiamo già conosciuto ne Le
occasioni, certo un prolungamento più duro, più oscuro, più denso, più
compresso e intricato, ma che salva l’intenzione poetica di Montale. Gli
oggetti, le situazioni si fondono in un linguaggio che evidenza il crescente
smarrimento (annaspa) del poeta e dell’uomo: non c’entrano gli eventi storici,
che pure non vanno sottovalutati, ma l’acquisizione di una maggiore complessità
del vivere. La quantità di oggetti e di situazioni evocati attraverso i versi
da Montale non rappresenta mai il perdersi nella realtà molteplice e intensamente
screziata; a qualcuno può dar noia questa insistenza del poeta che non si limita
a citare oggetti noti, ma cerca tra le diverse sfumature che la realtà ci
presenta e non solo oggetti, anche immagini, sensazioni, visioni e tutto ciò
che in maniera indistinta chiamiamo realtà. Come sempre la parola ne esprime
varietà e ricchezza. Cito in modo provvisorio e solo esemplificativo alcuni
termini poco noti: fuia, strigi, giga, stacci, riano, flabello, assito,
furlana, rigodone… Questo cercare di entrare nei minimi dettagli della
realtà attraverso le parole è il modo tipicamente montaliano di entrare nel
finito per accedere all’infinito: quanti passi sono stati fatti dal colle e
dalla siepe di Leopardi!
Per
dialogare con La bufera e altro è sufficiente fare riferimento al metodo
che ho cercato di mettere in evidenza, ma c’è una poesia che richiede una
particolare attenzione e che considero un vero e proprio hub nella produzione
del poeta e in particolare in questa fase finale della sua esperienza. Si
tratta di Piccolo testamento, la penultima poesia della raccolta,
appartenente alla Parte VII-Conclusioni provvisorie. Montale fa un
bilancio e ritiene di aver scritto il proprio testamento, qualcosa su cui non
tornerà successivamente e che rappresenta, anche per il lettore, attento e
rispettoso, qualcosa con cui fare i conti. Se abbiamo seguito le parole di
Montale dai suoi primi lavori a quanto prodotto nel secondo dopoguerra
riconosciamo in questa poesia qualcosa che cerca di portare alla luce quello
che può essere il senso della sua poesia.
Montale
scrive “Piccolo”. Una vita poetica dedicata ai più piccoli fenomeni e
che rifiuta fin dagli albori quanto presentato da “i poeti laureati”,
preferendo “gli erbosi fossi” e “le pozzanghere” (nota: Il
battello ebbro di Rimbaud termina nelle pozzanghere), essendo a suo agio nelle
“viuzze che seguono i ciglioni, discendono tra i ciuffi delle canne e
mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni”.
“Piccolo”
anche per la nuova umanità di cui egli è espressione: finito è il tempo degli
eroi e ora la scena appartiene all’uomo comune, come egli si sente: non si
creda a una falsa umiltà, perché Montale conosce il proprio valore, ma sa che
esso nasce proprio dall’aver compreso la fine dell’eroe e del vate. Per chi
aveva scritto “Non chiederci la parola”, il testamento non può essere
che “piccolo”.
Un
testamento, come dice l’etimologia, è innanzitutto una testimonianza e allo
stesso tempo un bilancio e ancora un’eredità: anche lo zio d’America, emigrato
ai primi del ‘900 lascia dei beni e fa un bilancio di una vita che testimonia
l’importanza della scelta e della responsabilità. Solo che Montale non lascia
in eredità beni materiali e la testimonianza e il bilancio che fa sono esclusivamente
spirituali: ed è per questo che ci interessano, più il bilancio e la
testimonianza che l’eredità.
Vediamo.
Notte. Al di là
della diatriba sul pessimismo il contesto rimane oscuro e buio.
Balugina.Nel buio
dei pensieri e dell’anima di tanto in tanto brilla qualcosa, luccica,
lampeggia, ma non è qualcosa di enorme e intenso, tanto da richiamare la “traccia
madreperlacea di lumaca” o addirittura di “smeriglio di vetro calpestato”.
Poca cosa, piccola cosa.
Chiesa,
officina. Contrariamente ai valori assoluti impressi nel cielo e nel cielo
luminosi, incisi nella pietra dei Comandamenti, quella luce modesta e
baluginante non è il folgorante dettato della Chiesa o del Comunismo, che forma
l’esercito dei giusti, i sacerdoti della fede religiosa e della fede comunista.
La poesia è stata scritta il 12 maggio 1953, Stalin era morto da due mesi, sul
mondo era calata una cortina di ferro che si riproduceva in Italia nella
contrapposizione tra DC e PCI, tra Chiesa Cattolica e Chiesa Comunista.
Dovranno passare ancora tre anni prima che un gruppo di intellettuali comunisti
cominci a dissentire e la morte di Stalin viene pianta con dolore. Montale,
raro esempio, non si schiera come fecero i più e anzi denuncia, all’interno
della propria poesia, le pretese assolutistiche della nuova Chiesa che illumina
passato, presente e futuro.
Fede,
speranza. Questa luce è l’unica cosa che il poeta pensa di poter lasciare in
eredità; ma cosa ha acquisito e accumulato tanto da poterla lasciare in regalo?
Naturalmente, trattandosi di un testamento spirituale, egli fa riferimento alla
sua produzione poetica che non è né quantificabile né circoscrivibile. Ciò che
lascia è il frutto di una fede non assoluta ma che lo ha visto impegnato (fu
combattuta) e di una speranza che non lo ha mai abbandonato (bruciò più lenta
di un duro ceppo nel focolare).
Cipria. Nella
previsione di tempi ancora più duri in cui ogni lampada sarà spenta e Lucifero
si impossesserà della libertà degli uomini e la danza sarà qualcosa di
infernale, Montale invita chi lo ha seguito di conservare quella modesta luce
come una cipria, perché anche se piccola potrà risultare utile per ripartire.
Eredità. Ciò che
lascia il poeta non è chissà quale portafortuna capace di contrastare e vincere
quelle forze, eppure vale la pena custodirlo per ripartire.
Memoria. La
memoria è richiamata come essenziale sebbene sia fragile, un filo di ragno, ma
nella rete del ragno è espresso l’intreccio degli eventi e l’importanza di fare
ad essi un continuo riferimento. Certo non “può reggere all’urto dei monsoni”,
ma rimane comunque un elemento fondamentale, perché non c’è eredità senza fare
i conti con la propria storia.
Orgoglio.
Umiltà. In questa storia Montale si riconosce due aspetti importanti,
apparentemente contraddittori, ma, nella loro conformazione, complementari, e
ne chiarisce la vicinanza. A tutti coloro che hanno definito la poesia del ‘900
solipsistica e giustificata solo in chiave antifascista (l’ermetismo come via
necessaria per esprimersi in un’epoca di limiti alla libertà di parola) egli
risponde che “l’orgoglio non era fuga” e ai sostenitori dell’eroismo che
in quegli anni era sinonimo di realismo socialista conferma che “l’umiltà
non era vile”
Bagliore. “Ognuno
riconosce i suoi”, conclude Montale; “Giusto era il segno: chi l’ha
ravvisato non può fallire nel ritrovarti”. Tutti questi elementi sono
baluginio e bagliore, non luminosi fuochi di rivolta; poca cosa, piccoli
elementi, ma autentici, solidi, densi di senso e dunque capaci di rappresentare
le fondamenta su cui costruire la nostra vita, anzi la vita.
Se noi guardiamo
con la mente del nuovo millennio ci accorgiamo che non c’è stato nulla di più
solido e significativo di quanto espresso dalla poesia di Montale, che qui in
realtà potrebbe parlare a nome di tutti i poeti moderni. Il crollo del
comunismo, il riconoscimento della libertà, la fine dei valori assoluti, gli
sviluppi della scienza in termini di complessità sono importanti, e certamente
nuove, proiezioni di quanto prodotto da Montale. Ancora oggi, senza il bisogno
di essere fisici teorici o neuroscienziati, la sua testimonianza rimane
qualcosa di essenziale e fondamentale.
Qualche
lettore distratto potrebbe rimproverarmi di aver presentato quest’ultima poesia
come se fosse un messaggio, quando io a più riprese ho scritto che la poesia
moderna non ha messaggi da lanciare. Essi avrebbero ragione se isolassero le
mie riflessioni su questa poesia da tutto il resto. Infatti ho presentato la
poesia cercando di seguirne il filo logico, evitando di ripetere quanto detto
in precedenza su come è opportuno leggere poesie come quelle di Pascoli,
Ungaretti, Montale e tutti i loro simili. Il filo logico aiuta, in questo caso,
a dialogare con il poeta, ma ancora una volta decisive risultano le singole
parole, i correlativi oggettivi, che in parte ho riproposto: ancora una volta
ogni parola diventa un hub nella costruzione della rete della quale, come
lettori, facciamo inevitabilmente parte. Il filo logico evidenziato dipende dalla
traccia madreperlacea di lumaca, dallo smeriglio di vetro calpestato, dal
lume di chiesa, dall’iride, dal ceppo, dalla cipria, dalla lampada, dalla
sardana, dalle ali di bitume, dal fiammifero e quel filo logico è solo un’ossatura
che si esprime, per ricchezza e profondità, attraverso queste parole. Sul filo
logico possono concordare in molti, ma quelle parole, singole e collegate, solo
pochi potranno com-prenderle, metabolizzarle e distillarle.
Dopo La
bufera e altro Montale continuò l’attività di poeta, ma io sono convinto
che nei decenni che lo videro impegnato prima della morte, egli si rese conto
che un’epoca era finita e cercò di farcelo capire attraverso la parola. Non
mancano componimenti significativi, ma essi sono nel solco della sua tradizione
e non propongono nulla di nuovo rispetto a La bufera, interessanti e
importanti per i quali i filtri fin qui delineati sono più che sufficienti.
Per quanto
riguarda gli altri componimenti che ci invitano a prendere atto della fine di
una stagione rinvio all’ultimo articolo che è nelle mie intenzioni:
Prospettive-Ciò che ci aspetta.
Vorrei
concludere richiamando, insistendo e consolidando quello che fu l’aspetto più
significativo della poesia di Montale, l’ottimismo della parola. Di esso
dobbiamo farci carico e sentirci eredi di quella ricchezza non in quanto poeti,
ma in quanto uomini: la parola può essere un vuoto rituale oppure il varco che
ci conduce oltre le apparenze della vita e delle persone. Oltre, ben oltre.
Dipende solo da noi.
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