Eugenio Montale

IO e poesia, poesia e IO-3

 Ungaretti non ottenne il Premio Nobel anche se vi andò vicino nel 1954, quando gli fu preferito Hemingway; Montale fu insignito invece del prestigioso riconoscimento nel 1975. Ungaretti non si sarebbe mai rammaricato di questa situazione dal momento che il suo prestigio internazionale fu regolarmente evidenziato dagli anni Trenta del secolo scorso. Lo stesso si può dire di Montale, un poeta molto diverso da Ungaretti, ma anche a lui molto vicino: si tratta di due poeti che hanno segnato un’epoca esaurendone le potenzialità e fornendo un quadro di riferimento ancora valido e che purtroppo non riesce a vedere i necessari sviluppi.

I due poeti nacquero nello stesso periodo, dividendoli solo otto anni; Allegria di naufragi è del 1923 mentre Ossi di seppia del 1925, Sentimento del tempo è del 1933 mentre Le occasioni è del 1939, Il dolore fu pubblicato nel 1947 e La bufera e altro nel 1956.

Ungaretti cessò di vivere nel 1970, Montale nel 1981.

Come si vede da questa sintetica cronologia i due poeti viaggiarono insieme e furono riferimento e insegnamento per una serie di poeti che furono propriamente chiamati ermetici. A livello personale non ci fu particolare affinità, ma questo a noi non interessa.

Interessa la poesia.

La sua poetica degli oggetti”, il famoso correlativo oggettivo” permette di verificare quanto fosse credibile la proposta di Baudelaire (e di Nietzsche) di radici che creano alberi che si slanciano verso il sole, senza che tutti quegli oggetti si trasformassero in qualcosa di semplice e fotografico

Come per Ungaretti anche per Montale diffuso è il discorso relativo al suo preteso pessimismo. Una delle sue poesie p famose è Il male di vivere e ci si ferma qui, senza entrare dentro versi che si dipanano in altre direzioni. E’ vero che Montale dice Spesso il male di vivere ho incontrato”, ma subito dopo scrive Bene non seppi, fuori del prodigio che schiude la divina Indifferenza: era la statua nella sonnolenza del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato”. E qui parla di prodigio, cioè qualcosa di straordinario, quasi un miracolo, citando addirittura il falco che si leva in alto nel cielo. Naturalmente la critica parlava di pessimismo, perché ad esso contrapponeva l’ottimismo del Sol dellAvvenire, quell’ottimismo  che  non solo  naufragava nella dolorosa e miserabile esperienza sovietica ma che, privo di cultura, si limitava a slogan deffetto completamente inutili e demagogici.

Se di pessimismo si vuole parlare questo riguarda la condizione umana e ad esso Montale risponde con l’ottimismo della parola: può apparire poca cosa soprattutto oggi che molti si riempiono la bocca di slogan, ma è uno degli insegnamenti che Montale, come gli altri poeti moderni, ci ha lasciato. E la parola di Montale non è mai banale perché ha sempre una molteplicità di valori, parla di se stessa, delle parole che le stanno accanto e del discorso che con quelle riesce ad intessere.

Ritorniamo al male di vivere, ben esemplificato anche per sonorità da un rivo strozzato che gorgoglia, da una foglia riarsa incartocciata e da un cavallo stramazzato. Si tratta di immagini, “oggetti”, che al solo leggerli e pensarli evocano in noi un senso di disagio e di malessere: la fluidità del fiume, la freschezza della foglia, la libertà del cavallo hanno cessato di esistere. Non c’è dubbio che questa sia la condizione umana e l’avverbio “spesso sta a indicare la frequenza, quasi una costante: ad essa (il male) Montale non contrappone in modo moralistico e ideologico una qualche fantasia (il bene), ma la possibilità di trovare in quella difficile condizione una o p possibilità. Queste possibilità sono schiuse (oggi si direbbeemergono”) dall’indifferenza che è divina, cioè qualcosa di straordinario, perché va oltre la normale comune condizione umana.

Ed è proprio questa apertura che caratterizza tutta la poesia di Montale, la possibilità di trovare nel vivere sofferente dell’essere umano una qualche via duscita. Questa via duscita è ripetutamente segnalata e rappresenta qualcosa di fondamentale nella visione di Montale:

Cerca una maglia rotta nella rete / che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!” (In limine,

Ossi di seppia).

Talora ci si aspetta / di scoprire uno sbaglio di Natura / il punto morto del mondo, l’anello che non tiene, / il filo da disbrogliare che finalmente ci metta / nel mezzo di una verità (I limoni, Ossi di seppia).

Oh l’orizzonte in fuga…Il varco è qui?(La casa dei doganieri, Le occasioni).

 

Non c’è dubbio che il punto di partenza per Montale è quel male di vivere che è sostanza dell’esistenza umana e che abbiamo visto rappresentato dal fiume, dalla foglia e dal cavallo, ma che trova forse la p intensa rappresentazione nei versi finali di un’altra poesia:

sentire con triste meraviglia /com’è tutta la vita e il suo travaglio /  in  questo  seguitare  una  muraglia  /  che  ha  in  cima  cocci  aguzzi  di  bottiglia”. (Meriggiare pallido e assorto, Ossi di seppia).

Fare i conti con la realtà e con se stessi, questo è il punto di partenza, invito al rifiuto dell’ipocrisia e allo stesso tempo invito a trovare la luce in quello che si presenta solo come buio. La Natura, la Realtà sembrano chiusi, definiti, delimitati da una rete dove i giochi e dunque le regole sono fatti e fissi. Ma questa è solo apparenza, occorre guardare bene e cercare cercare cercare: c’è sempre una maglia rotta nella rete, c’è sempre un varco, cè sempre un anello che non tiene. Nessuna legge fisica ci permette di trovarli, solo noi possiamo farlo, ma per farlo occorre volere e credere che ci sia questa possibilità. Questo sforzo è rappresentato nella seconda parte de I limoni: Lo sguardo fruga dintorno, / la mente indaga accorda disunisce e sembra di vedere qualcosa di inatteso, qualcosa che vada oltre, qualche disturbata Divinità. Il tentativo e lo sforzo non sono stati premiati: Ma l’illusione mancala luce si fa avara – amara l’anima. Il tentativo è fallito ma ci ha fornito strumenti importanti e così un giorno da un malchiuso portone / ci si mostrano i gialli dei limoni; / e il gelo del cuore si sfa, / e in petto ci scrosciano / le loro canzoni / le trombe doro della solarità”. Passeggiamo e non ci accorgiamo, perc ci manca la fede (non religiosa) e siamo assorbiti dal male di vivere in cui ci identifichiamo privando di linfa la nostra anima. Solo chi ha creduto nella possibilità di trovare quel varco e si è esercitato, prima o poi ne riconosce le forme e i tempi: non è un caso se ha guardato oltre il portone. E’ così che il Caso e l’Istinto cessano di essere aleatori e diventano prodotto della nostra anima. Noi siamo il nostro Destino: scegliendo o essendo scelti.

Il varco (con questa parola riassumo tutti gli altri termini che esprimono lo stesso concetto), il varco ci porta sia ad agire sia a conoscere, ha valore etico ed epistemologico (conoscitivo). Ci permette di oltrepassare il portone e godere del profumo dei limoni, ci permette di godere del torpore, di volare alto e correre come una nuvola o come un falco. Azione. Ma ci permette anche di conoscere, in un modo completamente nuovo. Anticipando di 40 anni quanto la biologia scoprirà, già in Montale conoscere è creare e creare è conoscere”.

Infatti il varco può immetterci in una qualche verità. Una verità, non la Verità.

Erede di Baudelaire, Montale sa che la realtà non è oggettiva per cui non può esistere una verità assoluta, da scoprire attraverso un processo che mette le tessere del puzzle una dopo l’altra fino a quando non avremo la visione del tutto. Come meglio dirà in un’altra  poesia:  

Non  chiederci  la  parola  che squadri  da  ogni  lato  /  l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco / lo dichiari e risplenda come un croco / perduto in mezzo a un polveroso prato. / Ah l'uomo che se ne va sicuro, / agli altri ed a se stesso amico, / e l'ombra sua non cura che la canicola /stampa sopra uno scalcinato muro! / Non domandarci la formula che mondi possa aprirti, / qualche storta sillaba e secca come un ramo. / Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

La parola del poeta non può squadrare da ogni lato l’animo nostro informe. L’umiltà del poeta non è psicologica o esistenziale, ma, pur partendo dalla specificità individuale di Montale, va oltre, assumendo un valore epistemologico.

L’animo è informe, non ha forma e non ha forma perché la realtà non è oggettiva (vedi Baudelaire in Corrispondenze); la mancanza di forma impedisce, non per ignoranza, la comprensione del mondo, il suo essere identificato e preso nell’insieme definito degli elementi che lo compongono. L’informità è impossibilità di ricondurre i vari elementi, materiali e spirituali, a una forma, un modello, uno schema. Caratteristica della forma è proprio il suo essere de-finita, cioè avere dei fines, dunque dei confini, un perimetro. Come dirà Stoppard: le montagne non sono triangoli.

La parola (o la matematica galileiana ne Il saggiatore) non può squadrare da ogni lato, cioè ricostruire i lati-confine della res-realtà presa in considerazione, res-realtà che in questo caso è l’animo. Ho detto non per ignoranza, cioè questa incapacità non è legata ai limiti della nostra conoscenza, ma al fatto che le res-realtà sono in continuo movimento e dunque impossibili nella pre-visione. Anche questo aspetto lo ritroviamo nella scienza della complessità: Prigogine, le biforcazioni e la natura che sceglie.

Quanto scritto fin qui mette in luce alcune acquisizioni comuni alla poetica montaliana e alle neuroscienze, ma la parola di Montale ha saputo anticipare anche altri aspetti ampiamente riconosciuti oggi dalla scienza della complessità.

La parola, letteraria e scientifica, non può dare vita a leggi universali, secondo quanto elaborato dalla scienza moderna cartesiana e galileiana, e questo concetto è riaffermato, senza possibili equivoci, con la frase Non domandarci la formula che mondi possa aprirti. Qui Montale chiarisce il carattere epistemologico della sua affermazione: nessuna formula può aprire dei mondi, svelare enigmi, risolvere problemi. Non è scetticismo né relativismo, ma poiesia e etica della responsabilità. Giusto era il segno: chi l’ha ravvisato/non può fallire nel ritrovarti (Piccolo testamento, La bufera e altro).

In questo percorso Montale è chiaro e fornisce numerosi strumenti per percorrere quella strada: Cerca una maglia rotta nella rete (In limine, Ossi di seppia), Talora ci si aspetta/di scoprire uno sbaglio di Natura,/il punto morto del mondo,l’anello che non tiene,/il filo da disbrogliare che finalmente ci metta/nel mezzo di una verità.(I limoni, Ossi di seppia), Il varco è qui?...(La casa dei doganieri, Le occasioni).

Tutti questi strumenti ci portano dentro la conoscenza, in modo sempre più profondo: la conoscenza non è data una volta per tutte. In questa poesia è presente quello che nei decenni successivi diventerà il moderno approccio conoscitivo (o meglio epistemologico).

 

1)Non esiste una formula che possa gettare luce sul mondo in modo definitivo e

assoluto (come si conviene a una formula); non esiste dunque una teoria del tutto che lo stesso Hawking aveva rinnegato dopo averne fatto l’essenza della sua ricerca;

2)Non esiste la parola o le parole che riconducano ad uni la complessi del mondo e che, come voce divina, sappiano guidare gli uomini nella loro vita terrena. Mentre la quasi totalità degli intellettuali si lasciava ammaliare dagli slogan dell’ideologia, Montale si fa portavoce di quel pensiero critico che solo permette alluomo e alla sua socie di progredire: progredire, perché la società degli uomini non termina con la socieilluminata dal Sol dellAvvenire.

3)In questo percorso verso nuovi orizzonti luomo deve riconoscere non solo il suo

essere informe, ma la sua complessi, esemplificata nella poesia dalla presenza della sua ombra che è parte integrante del suo essere e che non può essere trascurata.

4)In questo quadro di riferimento la parola si erge sovrana, ma non perché capace di esaurire ogni dubbio, ma perché, pur nei suoi limiti, è in grado di proporre un orizzonte di verità: non so quale sia la strada giusta, ma so quali strade non devo percorrere: ciò che non siamo, ciò che non vogliamo. tutte le strade una in particolare, ma solo alcune direzioni.

 

Chi conosce la scienza della complessi sa che questa è la prospettiva moderna,

chiarita già negli anni 70 del secolo scorso dal Premio Nobel Prigogine: la Natura ha davanti a sé delle prospettive, ma non tutte. Fine del determinismo classico, fine del trionfo nichilista del Caso. Allo stesso modo oggi procedono biologia e filosofia: le possibilità sono solo quelle legate ai vincoli.

 

a)    La memoria

 

Ogni buon manuale ci informa del ruolo che la memoria assume nel poeta ligure, in modo particolare nella raccolta Le occasioni; d’altra parte lo stesso Montale in Piccolo testamento scrive “sul fil di ragno della memoria”. Solo che far riferimento alla memoria senza tenere conto di ciò che le neuroscienze hanno scoperto e prodotto su questa importante funzione del cervello a me pare estremamente limitativo. Dico questo non solo per una esigenza metodologica, ma perché copre qualcosa di molto più importante, che invece dobbiamo avere il coraggio di vedere e di portare alla luce.

Cominciamo con Cigola la carrucola nel pozzo che pur appartenendo a Ossi di seppia ci prepara alla seconda raccolta.

Accosto il volto a evanescenti labbri: si deforma il passato, si fa vecchio, appartiene ad un altro....

In questi tre versi è segnato il percorso che la memoria, intesa come continua ricostruzione del passato, riesce ad operare grazie alla poesia. Montale parte da un volto che appare nella superficie normalmente piana di un pozzo; è un ricordo e trema, cioè è capace di increspare quella superficie.

Montale così vede e non vede quell’immagine, non perché ogni ricordo è regolarmente annebbiato, ma perché non si tratta di un semplice ricordo. Quel volto è una persona, quel volto è un’anima: quanto di quell’anima è oggi (hic et nunc) presente nella conformazione della sua anima? Attraverso le parole che compongono i versi della poesia egli riconosce solo tracce modeste di quell’anima, lui non è più lo stesso Montale di allora e non è rimpianto, malinconico approdo del tempo che passa. Al contrario questo riconoscimento diventa scelta e quel volto scompare nell’oscurità; la distanza è lontananza di quell’anima e allo stesso tempo lontananza di Montale.

 

Questa poesia ci porta subito alle due quartine che compongono la poesia Non recidere, forbice, quel volto, che appartiene a Le occasioni:

Non recidere, forbice, quel volto, / solo nella memoria che si sfolla, /non far del grande suo viso in ascolto/ la mia nebbia di sempre. / Un freddo cala... Duro il colpo svetta. / E

l'acacia ferita da sé scrolla / il guscio di cicala / nella prima belletta  di Novembre.

Anche qui un volto con il quale egli cerca di confrontarsi.

Il primo passo è la richiesta, appassionata, a che la memoria non operi ancora una volta il taglio di sempre; ma l’esperimento che gli permette di scavare produce un risultato diverso, aspettato ma non voluto. Questo risultato è però lì davanti a lui e lo impegna rispetto a se stesso. Anche qui, come nella poesia precedente Montale deve prendere atto che oggi quel volto è solo un guscio di cicala, involucro secco, che non dà segni di vita e che non ha lasciato tracce nell’anima che poesia e vita hanno costruito nel corso degli anni. Ancora una volta la poesia, cioè la parola, ha permesso una metabolizzazione e una nuova acquisizione, la distanza. Ancora una volta la distanza è lontananza di quell’anima e allo stesso tempo lontananza di Montale.

 

Dove però questo percorso raggiunge la massima intensità e il maggiore sviluppo è in un altro componimento della stessa raccolta, La casa dei doganieri, poesia che merita un’attenzione particolare e una speciale riflessione.

 

LA CASA DEI DOGANIERI

 

Tu non ricordi la casa dei doganieri
sul rialzo a strapiombo sulla scogliera:
desolata t’attende dalla sera
in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri
e vi sostò irrequieto.
Libeccio sferza da anni le vecchie mura
e il suono del tuo riso non è più lieto:
la bussola va impazzita all’avventura
e il calcolo dei dadi più non torna.
Tu non ricordi; altro tempo frastorna
la tua memoria; un filo s’addipana.
Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana
la casa e in cima al tetto la banderuola
affumicata gira senza pietà.
Ne tengo un capo; ma tu resti sola
né qui respiri nell’oscurità.
Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende
rara la luce della petroliera!
Il varco è qui? (Ripullula il frangente
ancora sulla balza che scoscende...)
Tu non ricordi la casa di questa
mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.

 

Ancora la memoria e i diversi itinerari che gli eventi prendono, direzioni anche antitetiche.

Ci incontrammo là, allora, e mi trovai immerso nei tuoi pensieri, uno sciame, irrequieto. Non sento più la gioia del tuo riso e tu non ricordi, la tua memoria ha preso altre direzioni. Contrariamente allinutile visione oggettiva, tu esisti percio ti faccio esistere: forse mi hai pensato ma non importa perccerto è solo che io ti penso e tengo il filo di questa nostra storia, ma non ho segnali e tu sei lontana e non sei con me nella casa che ci accolse. Tu non ricordi e lunica cosa sicura è che quella sera è la mia sera, non più la tua. Tutto si muove, il tempo lo spazio le persone, ma quella sera rimane, qui dentro di me. Posso, anzi devo, recidere il tuo volto, ma non ciò che ho vissuto. Ecco un esempio di cosa significa fare i conti con se stessi, con la propria storia: quellincontro mi ha formato e il ricordo mi ha arricchito, ha creato una nuova persona, che le parole sviluppate verso dopo verso hanno contribuito a formare.

Si tratta di una poesia molto ricca che in un altro contesto avrebbe bisogno di un’attenzione specifica e minuziosa, parola per parola; basti pensare al significato della frase Il varco è qui?

Io mi concentrerò prima di tutto sul percorso complessivo in rapporto al ruolo creativo che anche qui assume la memoria.

Il poeta passa in rassegna la sua vita, gli eventi, le persone, le situazioni e non si limita a farne figurine da attaccare in un album; le intreccia, le sovrappone, le districa, le isola, le scarta in modo da poterle ricreare non tanto secondo un ordine logico e astrattamente razionale, ma in termini di ragione complessa. La ragione complessa opera solo se i dati sono molteplici, variabili, non assoluti, e soprattutto se si riesce a vederli collegati, secondo linee di flusso e d’incontro non prevedibili, non predeterminate, non date.

Il poeta passa in rassegna la sua vita per fare i conti con se stesso, per conformare e progettare la propria anima. Se ne assume la responsabilità. Etica della responsabilità. E’ qui, tra l’altro, che si capisce meglio, e più in profondità, l’affermazione per cui poetica ed etica in Montale coincidono.

Quella donna, quella casa, quella sera, quell’incontro. Il poeta conosce la distanza, la sente e il suo approccio immediato è quello comune: tu non ricordi quella casa, quella sera, quell’incontro. Non puoi ricordarla perché io conosco la distanza. E’ lo stesso atteggiamento che quasi tutti manifestano nei confronti del primo amore (il primo amore non si scorda mai) non perché fosse speciale ma perché non vogliamo costruire la nostra anima e ci rifugiamo in qualcosa che, essendo privo di consistenza, ci impedisce di conformare la nostra anima.

Per salvarci rinunciamo a noi, alle nostre possibilità: siamo già nella tomba.

Montale fa invece i conti con se stesso.

Tu: sciame dei pensieri, irrequietudine, riso. Non dialogo più con i tuoi pensieri irrequieti e più non sento la letizia del suono del tuo riso. Le cose non sono andate come prevedevo e, contrariamente a ciò che si pensa, la bussola non riesce a segnare il punto cardinale e la somma dei dadi non coincide con la regola.

Ciò vuol dire che tu non ricordi me, quella casa, quella sera, quell’incontro. Ciò vuol dire che il mio tempo (altro tempo) non è il tuo tempo (altro tempo), tempo –il tuo- che disturba, détourne, frastorna la tua memoria. Il tempo segna lo spazio, la corporeità e l’anima.

Montale è andato oltre l’istintivo, immediato, comune ricordo. Ha segnato le distanze costruendo la sua posizione, nuova rispetto alla precedente, ma il percorso spirituale non è concluso e si sta compiendo attraverso uno scavo sempre più profondo, fatto di sottrazioni, addizioni, ricomposizioni.

La matassa c’è ed io ne tengo un capo, ma la matassa si svolge e vedo allontanarsi l’altro capo, quella casa, il tetto, la banderuola. Sempre più Montale si rende conto che tenerne un capo non è così importante come pensava, perché lei è sola, cioè lui è solo, perché lei non respira qui, cioè lui non respira la stessa sua aria.

Ed ecco la conclusione, con la quale il poeta conforma la propria anima e, metabolizzando la propria esperienza, progetta se stesso. La conclusione appare simile all’inizio, ma la parola non è un accessorio, nessuna parola-poesia cioè poiesia lo è. Tu non ricordi la casa dei doganieri diventa Tu non ricordi la casa di questa mia sera. Ecco che il poeta ha ricomposto le parti e ha creato un tutto che è nuovo: quella casa era la casa di un incontro, ma ora quella casa è solo sua, come solo sua è quella sera. A tutto ciò il poeta non rinuncia, ma sa che quegli elementi (la casa, la scogliera e il frangente, i pensieri, il riso e la gioia, la luce della petroliera) sono solo suoi e lui ha scelto che lo siano; il fatto che appartenessero a entrambi è solo un dato fenomenico, perché il poeta ha distrutto quel dato e se n’è appropriato, nutrendo la sua anima e facendola germogliare. Quella donna è un dato fenomenico di cui si è nutrito, lo ha metabolizzato e la nuova anima è solo merito suo.

La dimensione spirituale si è arricchita e il resto è contorno, accidente, fenomeno: Ed io non so chi va e chi resta.

Ho già evidenziato l’importanza delle parole e la loro centralità. Ho già detto che non starò qui a vederle una per una. Seguirò solo qualche traccia.

I suoni sono una componente fondamentale e sferzano, mostrando come il percorso che Montale sta facendo tra il primo e lultimo verso è incerto, contorto, turbato. E ciò avviene non per incapacità ma per coscienza della complessità, che non è lineare e tanto meno deterministica: come ci insegnano oggi biologia e neuroscienze i percorsi formativi si realizzano attraverso rotture, incomprensioni, salti. Le parole esprimono questo processo attraverso tutte le possibilità a loro insite: dal significato (un filo s’addipana), all’etimologia (l’orizzonte in fuga), al suono (frastorna, scoscende, strapiombo). E questo avviene anche nelle altre poesie di tutte le raccolte.

 

Le singole parole permettono anche al lettore di andare a vedere dentro la propria anima, perché aprono orizzonti e mondi: rialzo, strapiombo, scogliera, libeccio, sferza, frastorna, banderuola, oscurità, orizzonte, varco, frangente, balza, scoscende.

 

Le parole connesse tra di loro sotto forma sia di correlativi oggettivi sia di occasioni (non a caso il titolo della raccolta vuole allargare la prospettiva degli oggetti presenti in Ossi di seppia): il rialzo a strapiombo sulla scogliera; lo sciame dei tuoi pensieri; libeccio sferza da anni le vecchie mura; la bussola va allimpazzata; il calcolo dei dadi più non torna; un filo saddipana; la banderuola affumicata gira senza pietà; l’orizzonte in fuga; ripullula il frangente; la balza che scoscende; ed io non so chi va e chi resta.

Questa, come tutte le poesie di Montale, mostra un filo esile di discorso, che serve però solo da cornice, mentre rimane al lettore il compito di immergersi nel testo e usarlo a proprio piacimento, obbligandolo a confrontarsi con la propria anima e a fare i conti con essa, incontrandola e violentandola, accogliendola e respingendola. Occorre fare propri i suoni, le parole e le immagini. Occorre andare oltre e sostituirli con quanto in questo viaggio lentamente viene prendendo forma.

 

Non si tratta di spiegare la poesia. Non si tratta di provare emozioni. Non si tratta di ritrovarvi un ordine, un ritmo, una misura. La poesia moderna deve saper far scattare nel lettore la molla poietica e costruttiva della nostra persona. Spesso questo non succede e spesso non è colpa del poeta, ma del lettore, che si accontenta di molto poco.

 

Non è possibile qui dialogare con molte poesie di Montale. Ho cercato di fornire una chiave di lettura con la quale poterlo fare autonomamente, sapendo che la parte e il tutto non sono mondi separati, ma che, se è vero che il tutto è maggiore della somma delle parti, cioè le singole poesie, è vero anche che vale il principio ologrammatico (ogni punto contiene quasi tutta l’informazione dell’insieme che l’immagine rappresenta). Esso permette, attraverso un’intensa penetrazione nei versi dei singoli componimenti, di individuare quel percorso emergente che ci mette sulla strada di una verità. Poesie e versi citati vanno in questa direzione.

La raccolta Ossi di seppia si concentra sui singoli oggetti e su di essi si basa per svilupparsi e prendere vita. La raccolta Le occasioni allarga la presenza degli oggetti (che non mancano) a situazioni, che comunque svolgono la stessa funzione di corrispondenza, cioè di analogia. Una lettura, necessariamente attenta ma anche ripetuta, ci fa capire che lo sforzo di Montale va oltre la dimensione personale, assumendosi la responsabilità di collegare la propria personale e limitata storia a quanto risulta collegato alla nostra persona. Ne emerge così un quadro reticolare che è allo stesso tempo personale e collettivo, dando alla produzione poetica anche una dimensione etica: la poetica si apre all’etica e questa permette di guardare verso nuovi orizzonti poetici.

Mentre la scienza cosiddetta moderna rivela sempre più i propri limiti come limiti dell’essere umano che non possono essere ricompresi dentro leggi universali, la poesia moderna raggiunge con Montale una coscienza nuova che ugualmente riconosce gli stessi limiti e, invece di rifuggirli o nasconderli, li accetta come nostra ineliminabile forma-contenuto. Da un lato lo storicismo con le proprie pretese divinatorie e in particolare il marxismo che non ha problemi a definirsi “scientifico”, dall’altro la letteratura moderna che accompagna, e spesso precede, le acquisizioni epistemologiche proposte dalla scienza della complessità, a partire soprattutto dall’affermazione della fisica quantistica.

 

Dopo Le occasioni abbiamo la stagione de La bufera e altro e poi Montale non si fermerà continuando a scrivere poesie in raccolte nuove come Satura e Diari del ’71 e del ’72, Quaderno di quattro anni e altro, compresa una intensa attività giornalistica. Io ritengo conclusa l’esperienza montaliana con La bufera, mentre rinvio agli ultimi articoli un approfondimento sulle poesie successive e sulla loro importanza, anche se in negativo, per la comprensione dello stato dell’arte della letteratura contemporanea.

Dunque, dicevo, La bufera e altro.

Le poesie di questa raccolta lo tennero impegnato per 14 anni, tra il 1940 e il 1954: non sono molti i componimenti e sarebbe riduttivo ricondurre l’opera agli eventi della Seconda Guerra Mondiale. Certamente una poesia molto nota, Primavera hitleriana, fa riferimento alla tragicità di quegli anni, ma è l’unica poesia che richiama direttamente quel periodo; altre, probabilmente le prime, esprimono il dramma di quell’epoca, ma lo fanno in modo indiretto, sebbene con forte intensità. Così è la prima poesia dal titolo La bufera, dove parole dense incidono in modo significativo: immagini come i lunghi tuoni, il lampo che candisce, lo schianto rude che irrompono in uno spazio oscuro, nido notturno, la fossa fuia, entrar nel buio. Il senso che emerge dai suoni, dalle danze, da un incontro trova la sua sintesi nel verbo “annaspa” seguito dai puntini di sospensione.

Anche la terza poesia, Su una lettera non scritta, si muove su questo senso di bufera che tutto inquieta e tutto stravolge, privandoci anche di quei pochi punti di riferimento che abbiamo: per pochi fili su cui s’impigli il fiocco della vita…ch’io fugga dal bagliore dei tuoi cigli. Ben altro è sulla terra. Sparir non so né riaffacciarmi…la sera si fa lunga, la preghiera è supplizio.

Molte poesie di questa raccolta, al di là del contenuto che vi possiamo individuare, sono il prolungamento di una poetica che abbiamo già conosciuto ne Le occasioni, certo un prolungamento più duro, più oscuro, più denso, più compresso e intricato, ma che salva l’intenzione poetica di Montale. Gli oggetti, le situazioni si fondono in un linguaggio che evidenza il crescente smarrimento (annaspa) del poeta e dell’uomo: non c’entrano gli eventi storici, che pure non vanno sottovalutati, ma l’acquisizione di una maggiore complessità del vivere. La quantità di oggetti e di situazioni evocati attraverso i versi da Montale non rappresenta mai il perdersi nella realtà molteplice e intensamente screziata; a qualcuno può dar noia questa insistenza del poeta che non si limita a citare oggetti noti, ma cerca tra le diverse sfumature che la realtà ci presenta e non solo oggetti, anche immagini, sensazioni, visioni e tutto ciò che in maniera indistinta chiamiamo realtà. Come sempre la parola ne esprime varietà e ricchezza. Cito in modo provvisorio e solo esemplificativo alcuni termini poco noti: fuia, strigi, giga, stacci, riano, flabello, assito, furlana, rigodone… Questo cercare di entrare nei minimi dettagli della realtà attraverso le parole è il modo tipicamente montaliano di entrare nel finito per accedere all’infinito: quanti passi sono stati fatti dal colle e dalla siepe di Leopardi!

Per dialogare con La bufera e altro è sufficiente fare riferimento al metodo che ho cercato di mettere in evidenza, ma c’è una poesia che richiede una particolare attenzione e che considero un vero e proprio hub nella produzione del poeta e in particolare in questa fase finale della sua esperienza. Si tratta di Piccolo testamento, la penultima poesia della raccolta, appartenente alla Parte VII-Conclusioni provvisorie. Montale fa un bilancio e ritiene di aver scritto il proprio testamento, qualcosa su cui non tornerà successivamente e che rappresenta, anche per il lettore, attento e rispettoso, qualcosa con cui fare i conti. Se abbiamo seguito le parole di Montale dai suoi primi lavori a quanto prodotto nel secondo dopoguerra riconosciamo in questa poesia qualcosa che cerca di portare alla luce quello che può essere il senso della sua poesia.

Montale scrive “Piccolo”. Una vita poetica dedicata ai più piccoli fenomeni e che rifiuta fin dagli albori quanto presentato da “i poeti laureati”, preferendo “gli erbosi fossi” e “le pozzanghere” (nota: Il battello ebbro di Rimbaud termina nelle pozzanghere), essendo a suo agio nelle “viuzze che seguono i ciglioni, discendono tra i ciuffi delle canne e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni”.

Piccolo” anche per la nuova umanità di cui egli è espressione: finito è il tempo degli eroi e ora la scena appartiene all’uomo comune, come egli si sente: non si creda a una falsa umiltà, perché Montale conosce il proprio valore, ma sa che esso nasce proprio dall’aver compreso la fine dell’eroe e del vate. Per chi aveva scritto “Non chiederci la parola”, il testamento non può essere che “piccolo”.

Un testamento, come dice l’etimologia, è innanzitutto una testimonianza e allo stesso tempo un bilancio e ancora un’eredità: anche lo zio d’America, emigrato ai primi del ‘900 lascia dei beni e fa un bilancio di una vita che testimonia l’importanza della scelta e della responsabilità. Solo che Montale non lascia in eredità beni materiali e la testimonianza e il bilancio che fa sono esclusivamente spirituali: ed è per questo che ci interessano, più il bilancio e la testimonianza che l’eredità.

Vediamo.

Notte. Al di là della diatriba sul pessimismo il contesto rimane oscuro e buio.

Balugina.Nel buio dei pensieri e dell’anima di tanto in tanto brilla qualcosa, luccica, lampeggia, ma non è qualcosa di enorme e intenso, tanto da richiamare la “traccia madreperlacea di lumaca” o addirittura di “smeriglio di vetro calpestato”. Poca cosa, piccola cosa.

Chiesa, officina. Contrariamente ai valori assoluti impressi nel cielo e nel cielo luminosi, incisi nella pietra dei Comandamenti, quella luce modesta e baluginante non è il folgorante dettato della Chiesa o del Comunismo, che forma l’esercito dei giusti, i sacerdoti della fede religiosa e della fede comunista. La poesia è stata scritta il 12 maggio 1953, Stalin era morto da due mesi, sul mondo era calata una cortina di ferro che si riproduceva in Italia nella contrapposizione tra DC e PCI, tra Chiesa Cattolica e Chiesa Comunista. Dovranno passare ancora tre anni prima che un gruppo di intellettuali comunisti cominci a dissentire e la morte di Stalin viene pianta con dolore. Montale, raro esempio, non si schiera come fecero i più e anzi denuncia, all’interno della propria poesia, le pretese assolutistiche della nuova Chiesa che illumina passato, presente e futuro.

Fede, speranza. Questa luce è l’unica cosa che il poeta pensa di poter lasciare in eredità; ma cosa ha acquisito e accumulato tanto da poterla lasciare in regalo? Naturalmente, trattandosi di un testamento spirituale, egli fa riferimento alla sua produzione poetica che non è né quantificabile né circoscrivibile. Ciò che lascia è il frutto di una fede non assoluta ma che lo ha visto impegnato (fu combattuta) e di una speranza che non lo ha mai abbandonato (bruciò più lenta di un duro ceppo nel focolare).

Cipria. Nella previsione di tempi ancora più duri in cui ogni lampada sarà spenta e Lucifero si impossesserà della libertà degli uomini e la danza sarà qualcosa di infernale, Montale invita chi lo ha seguito di conservare quella modesta luce come una cipria, perché anche se piccola potrà risultare utile per ripartire.

Eredità. Ciò che lascia il poeta non è chissà quale portafortuna capace di contrastare e vincere quelle forze, eppure vale la pena custodirlo per ripartire.

Memoria. La memoria è richiamata come essenziale sebbene sia fragile, un filo di ragno, ma nella rete del ragno è espresso l’intreccio degli eventi e l’importanza di fare ad essi un continuo riferimento. Certo non “può reggere all’urto dei monsoni”, ma rimane comunque un elemento fondamentale, perché non c’è eredità senza fare i conti con la propria storia.

Orgoglio. Umiltà. In questa storia Montale si riconosce due aspetti importanti, apparentemente contraddittori, ma, nella loro conformazione, complementari, e ne chiarisce la vicinanza. A tutti coloro che hanno definito la poesia del ‘900 solipsistica e giustificata solo in chiave antifascista (l’ermetismo come via necessaria per esprimersi in un’epoca di limiti alla libertà di parola) egli risponde che “l’orgoglio non era fuga” e ai sostenitori dell’eroismo che in quegli anni era sinonimo di realismo socialista conferma che “l’umiltà non era vile

Bagliore.Ognuno riconosce i suoi”, conclude Montale; “Giusto era il segno: chi l’ha ravvisato non può fallire nel ritrovarti”. Tutti questi elementi sono baluginio e bagliore, non luminosi fuochi di rivolta; poca cosa, piccoli elementi, ma autentici, solidi, densi di senso e dunque capaci di rappresentare le fondamenta su cui costruire la nostra vita, anzi la vita.

 

Se noi guardiamo con la mente del nuovo millennio ci accorgiamo che non c’è stato nulla di più solido e significativo di quanto espresso dalla poesia di Montale, che qui in realtà potrebbe parlare a nome di tutti i poeti moderni. Il crollo del comunismo, il riconoscimento della libertà, la fine dei valori assoluti, gli sviluppi della scienza in termini di complessità sono importanti, e certamente nuove, proiezioni di quanto prodotto da Montale. Ancora oggi, senza il bisogno di essere fisici teorici o neuroscienziati, la sua testimonianza rimane qualcosa di essenziale e fondamentale.

Qualche lettore distratto potrebbe rimproverarmi di aver presentato quest’ultima poesia come se fosse un messaggio, quando io a più riprese ho scritto che la poesia moderna non ha messaggi da lanciare. Essi avrebbero ragione se isolassero le mie riflessioni su questa poesia da tutto il resto. Infatti ho presentato la poesia cercando di seguirne il filo logico, evitando di ripetere quanto detto in precedenza su come è opportuno leggere poesie come quelle di Pascoli, Ungaretti, Montale e tutti i loro simili. Il filo logico aiuta, in questo caso, a dialogare con il poeta, ma ancora una volta decisive risultano le singole parole, i correlativi oggettivi, che in parte ho riproposto: ancora una volta ogni parola diventa un hub nella costruzione della rete della quale, come lettori, facciamo inevitabilmente parte. Il filo logico evidenziato dipende dalla traccia madreperlacea di lumaca, dallo smeriglio di vetro calpestato, dal lume di chiesa, dall’iride, dal ceppo, dalla cipria, dalla lampada, dalla sardana, dalle ali di bitume, dal fiammifero e quel filo logico è solo un’ossatura che si esprime, per ricchezza e profondità, attraverso queste parole. Sul filo logico possono concordare in molti, ma quelle parole, singole e collegate, solo pochi potranno com-prenderle, metabolizzarle e distillarle.

 

Dopo La bufera e altro Montale continuò l’attività di poeta, ma io sono convinto che nei decenni che lo videro impegnato prima della morte, egli si rese conto che un’epoca era finita e cercò di farcelo capire attraverso la parola. Non mancano componimenti significativi, ma essi sono nel solco della sua tradizione e non propongono nulla di nuovo rispetto a La bufera, interessanti e importanti per i quali i filtri fin qui delineati sono più che sufficienti.

Per quanto riguarda gli altri componimenti che ci invitano a prendere atto della fine di una stagione rinvio all’ultimo articolo che è nelle mie intenzioni: Prospettive-Ciò che ci aspetta.

Vorrei concludere richiamando, insistendo e consolidando quello che fu l’aspetto più significativo della poesia di Montale, l’ottimismo della parola. Di esso dobbiamo farci carico e sentirci eredi di quella ricchezza non in quanto poeti, ma in quanto uomini: la parola può essere un vuoto rituale oppure il varco che ci conduce oltre le apparenze della vita e delle persone. Oltre, ben oltre. Dipende solo da noi.

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