Giovanni Pascoli |
IO e poesia, poesia e IO-1 |
Dopo i poeti maledetti è la volta di un poeta la cui vita tranquilla lo colloca agli estremi dei due francesi dell’ultimo articolo. Non solo, mentre migliaia sono i fan di Leopardi su Internet non troviamo che pochi riferimenti a Pascoli e un poeta senza fan, si sa bene, al giorno d’oggi è un poeta morto.
Eppure ci fu
un tempo, alla fine del 1800 e nella prima metà del ‘900, che Pascoli, il poeta
Giovanni Pascoli, era quasi un Vate, una figura di cui andare orgogliosi come
italiani nel panorama mondiale della letteratura. Era per lo più un orgoglio
accademico che si riverberava nella società attraverso la scuola elementare che
lo presentava in una versione semplice e familiare, ma tanto bastava perché i
nostri genitori, a qualsiasi gradino della scala sociale, sapessero chi era
Pascoli.
La società di
massa, sempre più di massa a partire dagli anni Sessanta del ‘900, fece molte
vittime, soprattutto ciò che aveva a che fare con la tradizione: Dio era già
morto da un secolo, ora era la volta della famiglia, della Patria, del merito,
della responsabilità e di tanti altri valori che avevano tenuto insieme la
nostra società. Non fu né un bene né un male: semplicemente fu, avvenne. In
certi casi lo spirito innovatore aprì porte, illuminò orizzonti, permise
sviluppo e profondità; in altri casi invece si combatté contro i mulini a vento
e si crearono bersagli immaginari. Pascoli rientrò tra questi, vittima di un
giacobinismo che nulla aveva a che fare con la letteratura, ma che intrideva di
odio e derisione tutto ciò che non rispettava i sacri comandamenti dell’impegno
unidirezionale.
A quei tempi (e ancora oggi)
per
molti Pascoli andava soppresso: era il poeta “delle piccole cose”, un
piccolo borghese, che, in epoca di rivoluzioni sognate, era quanto di più spregevole si potesse pensare (Nella logica
della cultura marxista l’attributo piccolo-borghese è quanto di più offensivo
si possa pronunciare: una specie di eunuco, di ameba, di scarto della storia,
di pidocchio-pulce-blatta). Per di più era professore di latino e greco, vincitore ripetutamente
di
concorsi di poesia in latino, insomma come lo si poteva collocare nella gloriosa marcia del proletariato verso il Sol dell’Avvenir? Per giunta la sua poesia era intimista, soggettiva e dunque difficilmente recuperabile, come invece si era fatto con Manzoni che, seppur
religioso, parlava degli umili o
con
Verga che aveva scritto dei Vinti.
Anche autori seri e attenti cadevano, talvolta, nella trappola, parlando, a proposito del
Manifesto Poetico
“Il fanciullino” di immaturità
personale (l’attaccamento
all’infanzia), anche se ne riconoscevano
il valore letterario.
Sul disprezzo per Pascoli vale la pena citare alcune
frasi del poeta comunista Sanguineti, tra i più acclamati nel secondo
dopoguerra: “(La poesia di Pascoli) una fabbricazione sadica di macchinette
liriche per lacrime, ad usum infantis, ma tutt’altro che inefficace sui
maggiori, pazientemente manipolata sull’occasione della tragedia familiare…pietà
per i morti, superstiziosa e morbosa quanto si voglia…ma generatrice almeno di
potenti allucinazioni e di “strazianti deliri.” (in Pascoli-Poesie, Ed.
Garzanti, Profilo, pag.XXII. Da Poesia del Novecento, a cura di E. Sanguineti,
Ed. Einaudi). Siamo nel 1969 e l’impronta ideologica lascia un segno profondo,
non solo negli studi dei giovani ma anche nella cultura di alcune generazioni.
Fatto sta che solo alla fine del secolo scorso ci furono
interventi importanti che cercarono di valutare in termini letterari e non
ideologici la produzione del poeta romagnolo. Ciò avvenne a partire dalla
critica ufficiale e dalle Università, per cui si rimase in ambito estetico, ma
non fu poca cosa e permise di riaprire il dialogo con Pascoli, come, sempre
negli stessi anni, avveniva con Nietzsche non più etichettato come nazista.
Ciò che in precedenza appariva come vuoto e infantile
sentimentalismo, ora veniva rivalutato per il valore tutt’altro che vuoto della
lingua pascoliana, capace di aprire nuove porte e nuovi orizzonti. Nonostante
gli eventi della vita di Pascoli fossero lontani anni luce da quelli dei
“maudits”, si cominciarono a usare espressioni che li accomunavano, come poesia
suggestiva, evocativa e allusiva.
Non fu facile, e non è tuttora facile, comprendere questa
vicinanza ed omogeneità, perché, soprattutto in Italia, le persone sono ancora
invischiate in filtri ideologici che portano solo alla condanna e
all’assoluzione, invece che al dialogo.
Naturalmente non farò una analisi puntigliosa di tutte le
opere di Pascoli, ma cercherò quelli che sono i passaggi più significativi che
mi permettono l’incontro con il mondo scientifico della complessità e che non
rappresentano una situazione estemporanea e provvisoria.
Myricae è la prima raccolta e ha un sottotitolo ripreso da
Virgilio, ma senza la negazione iniziale: “Gli arbusti e le umili tamerici
piacciono/fanno bene”. E’ introdotto quel mondo delle piccole cose che
tanto ha disturbato la critica, un mondo che, curiosamente, appartiene a
Leopardi e a Montale: mi pare che piccole cose siano le viole, le rose e la
ginestra leopardiani, come piccole cose siano gli ossi di seppia montaliani. Saltando
a piè pari la polemica è bene rilevare come Pascoli rappresenti l’anello che
collega Leopardi a Montale e dunque a tutto il Novecento; non sono solo le
immagini della natura o i riferimenti diretti, ad esempio nella prefazione di Myricae,
ma il senso della poesia, quello che usa il mondo, le cose, la natura come
strumento per entrare meglio dentro la propria anima. Pascoli procede secondo
il metodo complesso della spirale, torna indietro, metabolizza, distilla e
traccia il sentiero nella montagna. Ogni componimento, quasi ogni verso, si
nutre dell’analogia e, a differenza di Leopardi, Pascoli non ha più bisogno di fornire
spiegazioni, perché è l’analogia stessa che suggerisce, evoca, allude lasciando
al lettore di metabolizzare secondo la propria consistenza: in questo senso
possiamo dire che Pascoli è il primo, vero e completo, poeta moderno italiano.
La rivoluzione linguistica che oggi tutti gli
riconoscono, quella rivoluzione fatta di un lessico popolare, di onomatopee
anche estreme, di una punteggiatura significante, è solo la punta di un iceberg
e non esaurisce il contributo poetico pascoliano, anzi, essa in quanto forma è
immediatamente contenuto: ridurla a sperimentalismo e mera innovazione tecnica
impedisce di cogliere proprio il senso e l’anima della poesia pascoliana.
Ogni poeta, come ogni persona, è inserito in un contesto
fatto di spazio e di tempo, fatto di relazioni, di fili passati e di fili che
si aprono verso il futuro e privarlo di tutti questi legami è un’operazione senza
alcun senso, anche se a farla è la stessa persona. In questo senso il famoso
passo di Pascoli sulla guerra in Libia “Finalmente la grande proletaria s’è
mossa” non deve interessare più di tanto e non dobbiamo farci trarre in inganno.
La poesia è un’altra cosa, perché essa non è né teoria né ideologia, ma la
capacità di fare i conti con quel contesto, che per Pascoli riguarda
soprattutto la campagna (come per la maggior parte degli italiani fino agli
anni ’60 del ‘900), la morte del padre, il rapporto con le sorelle. Pascoli
porta alla luce questo universo non in termini narrativi, ma poetici, facendo
sì che la parola, in quanto presente, sia capace di ricucire i brandelli che
provengono dal passato.
Leopardi aveva scritto “Passata è la tempesta, odo
augelli far festa…beata se morte risana”; in Pascoli molte poesie parlano
di temporali e non c’è bisogno di trarre una conclusione, perché quelle
immagini sono analogie pure. La morte del padre, ucciso quando Giovanni aveva
solo 12 anni, ritorna spesso nelle sue poesie, ma non sotto forma di aneddoto
bensì come occasione di scavo dentro l’animo umano nella prospettiva della
morte. E’ per questo che la poesia pascoliana parla di morte illuminando la
vita, perché la morte non è qualcosa di estraneo e fa parte della vita; come
vedremo non è la malinconia e il rimpianto il frutto della metabolizzazione
poetica.
Prendiamo una poesia come L’assiuolo (Myricae,
In campagna, XI).
La narrazione è assente e il poeta dialoga con se stesso
e dentro di sé, ma il dialogo interiore non è propriamente logico perché si
muove in termini di flussi, veloci e che procedono in molteplici direzioni.
Ogni parola, ogni frase, ogni verso traduce qualcosa che proviene dal profondo
e che nel foglio si compone come tante pennellate di differenti colori,
spessore, intensità. Il poeta che scrive deve lasciare il posto al poeta che
legge che non può limitarsi alla spiegazione, che è semplice e superficiale: il
temporale nasconde la luna, ma si sente la voce dell’assiuolo; qualche stella
appare e il rumore tra i cespugli fa singhiozzare il poeta; soffia il vento e
si sentono le cavallette il cui suono fa pensare a un pianto di morte.
Parafrasi veloce ma corretta. Ma qui non c’è Pascoli e
nemmeno la sua poesia. Occorre entrare dentro le singole parole e andare oltre
il loro immediato significato: esse non ci ripropongono cosa provasse Pascoli,
perché questo è stato totalmente espresso nella poesia, ma permettono di dialogare
con noi stessi. In un quadro naturale realistico sentiamo “i soffi di lampi”
e vediamo “il nero di nubi”: il quadro è psicologico non naturalistico e
il suono “chiù” è seguito dai puntini di sospensione, che aprono e
preparano.
Nella seconda strofa entra in scena l’IO poetico: il chiù
e ora il fru fru provocano un sussulto e un singhiozzo che
richiamano nell’animo di Pascoli un antico grido. Il vento sospira tremante, ma
in realtà è il poeta che trema sospirando e il suono delle cavallette evoca
invisibili porte che, come il gatto di Schrödeinger, sono ora aperte ora chiuse:
sussulto, singhiozzo, sospiro, tremore portano alla luce un pianto di morte,
anzi quel pianto di morte.
Dalla luna al sentimento della morte Pascoli ha disegnato
un percorso che ha preso forma in un momento particolare, nella contingenza di
un temporale, ma che di apertura in apertura ha prodotto qualcosa che va ben
oltre quel preciso momento. La poesia non si limita a rappresentare, ma verso
dopo verso crea, se stessa e il poeta, che all’ultimo verso non è più lo stesso
della persona che aveva iniziato la composizione.
Ho preso questa poesia come esempio di un metodo che
permette di entrare meglio nel processo di creazione, poetico e personale, di
Pascoli e di tutta la poesia moderna, o letteratura poietica come
sarebbe più corretto chiamarla. Naturalmente non tutte le poesie di tutte le
raccolte si muovono allo stesso modo, perché talvolta l’intensità attribuita
alle parole è maggiore, mentre altrove l’aspetto narrativo e aneddotico
prevale; ancora in certi componimenti il poeta si esprime con un linguaggio radicato
nella tradizione popolare mentre in altre poesie egli fa ricorso alla
tradizione letteraria. Penso, come ho già scritto in precedenti articoli, che
non sia importante ricondurre a unità l’opera del poeta attraverso tagli e
sintesi che fanno perdere la complessità dello sforzo poetico.
In Myricae abbiamo numerosi esempi di questo
contributo pascoliano alla valorizzazione della parola nella costruzione
dell’IO; anche se questa non è la sede per una
analisi dettagliata, posso proporre alcuni aspetti e riferimenti che ritengo
utili.
Intanto
dobbiamo evitare la pretesa tradizionale di una parafrasi che oltre a chiarire
elementi lessicali non comuni cerchi di ricostruire in modo narrativo le frasi
presenti in una poesia: occorre infatti ricordare che il discorso poetico
moderno prescinde dalla ricostruzione grammaticale a fini informativi e che ciò
che produce non è mancanza di chiarezza, ma il massimo di chiarezza possibile,
perché il discorso poetico moderno si muove in verticale e non in un terreno
orizzontale.
In Lavandare
abbiamo un aratro che oltre ad essere abbandonato nel campo è messo lì nel
mezzo della poesia: è un oggetto, come tanti nella poesia a venire, un oggetto
che serve solo ad evocare il sentimento della lavandaia che aspetta il ritorno
del suo amato. Questa solitudine non è qualcosa di definito, ma parla alla
nostra solitudine e ne arricchisce i rilievi, oppure ci lascia indifferenti:
dipende da noi. “Pare dimenticato” ed è immerso in “un vapor leggiero”:
la solitudine richiama sempre la dimenticanza e ci lascia immersi in qualcosa
che ci impedisce di vedere pienamente e con chiarezza, immersi nella foschia
espressa dal leggero vapore.
Pascoli
evoca, suggerisce, allude, lasciando a ognuno di noi la capacità, e l’interesse,
di un approfondimento.
Nella poesia Allora
(Myricae,
Dall’alba al tramonto, VI) il tempo si dilata e si restringe lasciando nell’animo
quanto di più dolce, che non è ricordo, non è malinconia, ma capacità di
serbare quella dolcezza e proiettarla in avanti:
Allora... in un tempo assai
lunge
felice fui molto; non ora:
ma quanta dolcezza mi giunge
da tanta dolcezza d'allora!
Quell'anno!
…
Un giorno
…
Un punto!... così passeggero,
che in vero passò non raggiunto,
ma bello così, che molto ero
felice, felice, quel punto!
Vedremo ancora come Pascoli riesce a entrare nel tempo e nella memoria
attraverso un percorso non lineare che si incontra con quanto esprimeranno in
quegli anni Bergson e successivamente Proust, realizzandolo sempre dentro la
propria anima che prende forma attraverso una relazione complessa, capace di fare
i conti con il passato, metabolizzare e distillare.
La strofa finale di Novembre (Myricae, In campagna, XVIII) ci mostra ancora una
volta il metodo pascoliano evidenziato sin qui:
Silenzio,
intorno; solo, alle ventate
odi lontano, da giardini ed orti,
di foglie un cadere fragile. E' l'estate,
fredda, dei morti.
Il dato naturalistico non è importante; certo il
riferimento è realistico e parla della così detta “estate di San Martino”,
quando ai primi di novembre il sole splende e sembra di essere tornati indietro
di qualche mese: l’aria è pura, il sole è chiaro, ti aspetti di vedere le albicocche
e di sentire il profumo del biancospino. In realtà è un’illusione della
coscienza, perché la natura mostra che siamo in autunno inoltrato.
Ci viene svelato alla fine il perché di tutto questo.
Eppure il realismo è solo un pretesto e il senso della
poesia ha a che fare con lo scavo del poeta ed esso non si trova nella
spiegazione semplice: il freddo del tempo ha sostituito l’illusione del caldo.
Ogni parola ha infatti un posto nel tessuto naturale per uscirne e andare
oltre: ancora una volta dalla siepe all’infinito.
L’anima è una realtà complessa, che prende a prestito ciò
che trova davanti a sé solo perché gli è più familiare: nel cuore si oppongono
le gemme e la luce da un lato e l’amaro dall’altro. In quel momento Pascoli
coglie l’oscillazione della sua anima e lo fa attraverso parole evocative: secco,
stecchite, nere trame, vuoto, cavo. Correlativi oggettivi li chiamerà Montale
riprendendoli da Eliot.
La strofa finale fornisce una via d’uscita che ci colloca
nel presente proiettandoci oltre: silenzio, colpi di vento, voci lontane,
leggere, impalpabili, quelle del “cader fragile di foglie” secche.
La realtà si scopre, il presente si presenta, ma tutto ciò serve al poeta per
andare oltre e richiamarlo alla complessità (con-fusione avrebbe detto
Baudelaire) dell’esistenza.
Prima di passare a poesie che ritengo più in-cisive e
de-cisive volevo invitare a una riflessione su questa prima opera pascoliana.
Ho già messo in evidenza l’importanza di una lettura
reticolare delle poesie di un autore e ne trovo conferma dialogando con Myricae:
ripeto che dobbiamo evitare una semplificazione magari fatta anche con l’uso
della statistica e cercare di districarsi nell’opera vista come una rete di
relazioni in cui le varie poesie si incontrano e si staccano per riprendere il
cammino in altre direzioni. Ricorsivamente e ologrammaticamente.
Capisco che per molti lettori già i titoli delle poesie
lascino perplessi: il morticino, il rosicchiolo, i puffini dell’Adriatico,
pianto, orfano, i due bimbi, la vite e il cavolo, un rondinotto, vagito, il piccolo
bucato, a nanna, il castagno e tante altre.
Capisco che qualcuno pensi di trovarsi di fronte a un
sussidiario delle elementari, dove dominano piccole e piccolissime cose,
situazioni modeste e impresentabili in un giornale nazionale, insomma tutto ciò
che può aiutare la crescita di un bambino partendo dalla sua esperienza lontana
dal mondo adulto.
Non mi interessa per questo richiamare la ricchezza
lessicale di quelle poesie e il loro ricchissimo apparato metrico e fonosimbolico.
Quasi tutte le poesie si presentano secondo quel metodo
evidenziato sopra: analogie, simboli, suggestioni, allusioni che spingono a
partire dalla siepe per andare verso l’orizzonte. E questo già sarebbe
sufficiente per garantirne spessore e dignità letteraria, ma devo aggiungere
l’importanza del riferimento personale.
A meno che non si sia convinti che poesia sia solo quella
che è centrata sull’impegno e la volontà eroica, dobbiamo convenire col fatto
che essa abbia come base qualsiasi aspetto della vita personale, sia esso
realmente avvenuto sia esso vivo solo nella mente dell’autore, sia esso
presente o passato.
Certamente la vita di Pascoli non fu la stessa di
D’Annunzio e neanche di Solženicyn, Pound o
Pasternak, ma ciò non toglie che nessuno ha il diritto di stabilire una classifica
della vita delle persone, poeti operai contadini. La vita di Pascoli fu quella
che fu in relazione al tempo, ai luoghi, ai legami imposti e alle relazioni
scelte; non fu né migliore né peggiore di tante altre. La differenza sta
esclusivamente nel fatto che si servì della parola per evitare che la sua vita
si riducesse a banale aneddotica, cercando tra la molteplicità degli episodi
quelli che gli permettessero di dare un senso alla propria esistenza. E’ così
che l’insieme delle poesie di Myricae forma la vita dell’IO poetico
elaborata e distillata a partire da quello che è comune all’esperienza di
ognuno, l’IO storico.
Può succedere
di venire a conoscenza, nel borgo o in campagna, di un bimbo morto piccolissimo
o di una madre che perde la vita; come reagiamo, come reagisce l’uomo comune?
Semplicemente dichiarando il proprio dolore o vivendolo per il tempo che il
legame con l’evento stabilisce: tutto qui, poi la vita continua e quegli eventi
entrano nella normale saggezza popolare, priva di consistenza: Poveri, ah! Come
è ingiusta la vita, come sono stati sfortunati, se avessero…se avessero fatto…
Leggete Il
morticino e Il rosicchiolo e ponete attenzione alle parole: se le
poesie vi sembrano sentimentali e lamentose vuol dire che aspirate a una vita
eroica…che però non è la vostra.
Fare i conti
con se stesso è ciò che fa il poeta e che lo distingue.
Lo stesso
vale per tutte le altre poesie, che riguardano le sorelle, le piante che hanno
vissuto con lui, gli uccelli che si stagliano sopra il mare, gli animali della
fattoria, gli amici, lo sguardo del cielo in diversi momenti, il pensiero al
tempo che scorre, le luci e i colori del paesaggio, gli studi, il legame con la
propria terra e tutto ciò che facciamo anche noi, oggi, nel mutato contesto spazio-temporale
e nella specificità della nostra dimensione individuale.
Ma noi ci
fermiamo lì e tutti quei momenti e quelle sostanze vengono rimesse nel cassetto
e forse lì resteranno rinchiuse per sempre; e se mai un giorno le riproporremo
all’attenzione di qualcuno sarà solo per ravvivare (col sorriso o con le
lacrime) una cena o un incontro. Non potrà essere altro, perché non le abbiamo
tenute in vita, non le abbiamo curate e accarezzate, ce ne siamo disfatti.
Myricae è invece quel diario, quello zibaldone che Pascoli non
ha lasciato a se stesso, ma che ha raccolto per costruire la propria persona e
dare un senso alla propria esistenza.
Myricae non è l’unica raccolta pascoliana che si può collocare
nell’ambito di qualcosa che ha a che fare con le tematiche della complessità;
certamente è l’opera che ha permesso al poeta romagnolo di creare le basi di un
percorso che, soprattutto in Italia, darà considerevoli risultati. In ogni
raccolta è possibile trovare componimenti particolarmente densi di significato,
anche se il periodare appare in genere più disteso e meno franto.
I canti di
Castelvecchio sono la raccolta che meglio mi sembra
interpretare un aspetto fortemente innovativo, innovativo perché anticipatore
di quelli che saranno i paradigmi della scienza della complessitá.
Prenderò in
considerazione due poesie che trovo di grande interesse: La mia sera e Nebbia.
La mia sera
Il giorno fu pieno di lampi; |
La nube nel giorno più nera |
A me piace pensare il poeta affacciato alla finestra di
una di quelle case coloniche in pietra che si trovano così facilmente ancora
oggi nelle campagne toscane (o emiliane o umbre). E’ sera e nel moto collinare
osserva la natura, come ancora oggi si usa fare dalle nostre parti. Si
aspettano le prime stelle, si sente il fruscio delle foglie, la voce delle rane
e il gorgogliare del torrente. I lampi e i tuoni del giorno hanno lasciato il
posto a una calma che invita al riposo, al pensiero: i pensieri passano di palo
in frasca, voli pindarici che ci proiettano oltre noi stessi. Nessuno, tra i
pensieri che scorrono dentro di noi, merita il primo premio; non è una gara, tutti
si rincorrono allegramente e con tristezza, veloci sempre più veloci, lenti
sempre più lenti. E l’anima è in balia di quel fluire incessante e inesorabile
che nessuno può fermare e che solo esseri umani evanescenti riescono a
cancellare o rimuovere. Nessun pensiero riesce ad avere il sopravvento: né la
morte del padre né la volontà di potenza che si appropria delle sorelle né la
gloria non sempre riconosciuta. Né qualsiasi altro pensiero che contingenze
possono aver fatto scorrere lungo i neuroni. Nessun pensiero può avere il
sopravvento perché l’anima (non tutti però hanno un’anima) deve chiedersi qual
è il senso della vita, il senso non un senso; e questo interrogarsi –per
chi è cresciuto con Petrarca- non cerca risposte. Gli eventi e le contingenze
si ricompongono in questa unica domanda che sola può creare poesia, cioè quella
realtà in cui il passato e il futuro si amano nel presente: qual è il senso
della vita?
Rispetto ad altre
poesie qui il valore analogico delle singole parole è
più forte e condensato: le tremule foglie esprimono il tremore del
poeta di fronte ai lampi esplosi durante il giorno; ma una gioia
leggera riesce
comunque a passare attraverso quel tremore ed
è la
pace della sera dopo il giorno pieno
di lampi. Il suono delle ranelle richiama l’attenzione
e presso di loro “singhiozza
monotono
un rivo”. Il singhiozzo non è solo lamento,
ma stupore, interruzione
del respiro, ripresa del respiro,
suono, monotono, insistito, quasi uguale; momento di
passaggio dai lampi alla pace, dal
turbamento
alla gioia, dal “cupo
tumulto”, dalla “aspra bufera”.
Ciò che
Leopardi aveva espresso ne “L’infinito”
viene qui ripreso in chiave
più complessa e profonda. Là
per
accedere all’infinito occorreva entrare
dentro il finito
della siepe e del colle; qua “E’ quella infinita tempesta finita
in un rivo canoro”.
Il percorso tra finito e
infinito è
reciproco e ricorsivo:
da
un lato solo il
finito (la siepe e il colle leopardiani, l’albero di Baudelaire, le radici di Nietzsche) permette di entrare in
qualcosa che ha l’aura dell’infinito; dall’altro solo la complessità di qualcosa che ha
i risvolti dell’infinito
permette di godere della vita, come fa il ruscello che canta.
L’infinito ha cessato
di
essere un salto, un
volo
pindarico, un’inutile fantasia, una costruzione
metafisica e ha ricomposto il suo legame con quella che è la dimensione comune dell’essere umano, cioè il suo essere finito. E lo stesso
è il
punto di vista di
questo essere finito che, ricorsivamente, è capace di proiettarsi verso l’infinito, pro-
porre orizzonti
che stabiliscono limiti solo dopo
essersi posti senza limiti.
Infinito. E così anche i fulmini (paura e dolore) riescono a dar vita alla porpora e all’oro. La
nube nel giorno più nera diventa la nube più rosa: ancora
i fiori del male, ma in una sfumatura
più
intensa, personale, specifica.
Il poeta si è affacciato alla finestra della sua casa, da lì ha osservato il cielo, lo ha visto
trasmutare, da lì ha visto i colori, da lì ha sentito i rumori e i suoni
che
provengono dall’alto
(cielo) e dal basso (fiume), da lì ha sentito dentro di sé il passaggio, così ricco
e complesso, dal giorno alla sera. Da lì ha visto le rondini e il
cumulo di sensazioni e pensieri lo ha portato a divenire il protagonista della poesia: dal finito del mondo all’infinito dell’anima; della
sua anima: “Né io…”.
Ecco dunque che improvvisamente esplode l’analogia, non
più nella dimensione della logica o dello spazio ma in quella ben più ardua e
difficile del tempo.
Il suono delle campane realizza il miracolo. Le campane
di questa sera sono le campane di quando eravamo bambini:
“Don ... Don ... E mi dicono, Dormi! mi cantano, Dormi!
sussurrano,
Dormi! bisbigliano, Dormi! là, voci di tenebra azzurra ... Mi sembrano canti di
culla, che fanno ch'io torni com'era ... sentivo mia madre ... poi nulla ...
sul far della sera.”
La poesia moderna non è una trascrizione, secondo regole, di sentimenti o pensieri che sono già formati
prima della scrittura:
la poesia moderna prevede che il poeta, certo
con
tutto l’insieme che caratterizza la sua persona, si accinga a scrivere versi, che sono liberi e che gli permettono, verso dopo verso, di rivisitare, rinnovare, modificare,
arricchire la persona che era ed è. In tal modo al termine della poesia quella persona,
proprio grazie al percorso fatto grazie ai versi, non è più la
stessa e non importa quanto essa sia cambiata e cosa essa sia
diventata, perché l’elemento decisivo sta nella capacità della scrittura
di trasformare e creare la vita.
Torniamo all’ultima strofa.
Il poeta ha avuto un transfert, non si è trattato di un
semplice ricordo, la memoria rappresenta la base di quel
viaggio nello spazio e nel
tempo e può essere stata stimolata da quella
sera oppure essere
già presente, non importa.
Le parole
dell’ultima strofa servono al poeta prima
che al lettore: Pascoli
torna indietro nello spazio e nel tempo e sente la voce della madre che il suono delle campane ha evocato (ex-voce, dare voce). E’ una voce che si fa sempre più debole, ad accompagnare
il sonno del bambino: dicono,
cantano, ma
poi
sussurrano e infine bisbigliano.
Non occorre andare dallo psicanalista, basta sapere che la poesia e in genere la parola non sono semplice
vestito e nome delle cose, ma strumento essenziale di creazione e di trasformazione della vita. Della vita della persona,
del
vivere della sua anima.
Quanto sia durata
questa regressione è qualcosa che
riguarda solo la persona
del poeta; a noi interessano quei sette
versi e mezzo, quelle
parole,
quei punti esclamativi, quei puntini di sospensione: “…poi nulla…”. Abbiamo un
vantaggio rispetto
al poeta e riguarda il fatto
che
le parole rimangono e possiamo
riprenderle e farle nostre ogni volta che la
nostra volontà o
il Caso ritengano giunto
il momento: in fondo, devo riconoscerlo, ho letto Pascoli
a partire dai miei sette anni e ho cominciato a
nutrirmene solo qualche decennio
dopo.
Scambiare questa operazione per ricordo, pur intenso
profondo intimo denso, è errore frequente. Pascoli rivive
quell’esperienza, quando la madre ne accompagna il sonno. Il suono delle
campane conduce il poeta fuori da quella casa, fuori da quella sera e gli
permette un volo che solo l’incalzare delle parole, delle onomatopee e dei
puntini di sospensione rendono reale.
C’è spesso un equivoco, in questa come in altre poesie
moderne (anticipo qui La casa dei doganieri) ed è l’equivoco della
memoria, del ricordo: ovviamente questo equivoco non nasce da ignoranza ma al
contrario esprime un determinato sapere.
E’ certo che noi operiamo –come ricorda anche Gadamer-
grazie ai nostri pre-giudizi che diventano i nostri filtri di lettura; quando
questi pregiudizi esprimono un sapere alto, collettivo, scientifico allora
diventano consueti e consolidati. Ad essi facciamo riferimento noi tutti,
ovunque: il consueto e consolidato diventa comune e, col passare del tempo,
luogo comune, che come tale però diventa necessario estirpare.
E’ in gioco quell’elemento che Sant’Agostino considerava
componente essenziale dell’anima, la memoria. Su di esso le neuroscienze hanno
fatto grossi progressi, ma Pascoli ce ne aveva parlato quasi cento anni prima.
Prendiamo in considerazione il saggio di Vilayanur S.
Ramachandran, “Che cosa sappiamo della mente” del 2003 o “Alla ricerca
della memoria” di Daniel Schacter del 1996 o ancora “L’errore di Cartesio”
di Antonio Damasio.
E’ facile rendersi conto di come funzioni la memoria e
già evitare di dire cosa è la memoria non è secondario. L’immagine della
memoria come qualcosa di passivo, un archivio inserito in un mobile che apriamo
ogni volta che ci serve per poi richiuderlo nel silenzio e nell’oscurità della
mente, ebbene questa immagine è stata travolta dagli studi sul cervello. E così
la memoria si presenta come un sistema complesso interconnesso col sistema
complesso che è il nostro cervello a sua volta interconnesso con quel sistema
complesso di cui è, e non è, parte, e cioè il nostro corpo.
Il passato rivive, riportato alla luce e continuamente
rimodellato, e questa operazione noi la chiamiamo memoria. Questa operazione
non ci mette davanti agli occhi, e quindi fuori di noi, la fotografia di
quell’evento, di quella persona, ma al contrario crea continuamente un evento
nuovo che a noi piace chiamare ricordo, cosa che facciamo solo per semplicismo
e riduzionismo, perdendo così una parte enorme delle nostre capacità creative.
Il riduzionismo e il semplicismo (ma le montagne non sono
triangoli) ha finito col conformare la nostra anima, riducendola e
semplificandola, così che quell’idea di memoria è diventata il pre-giudizio con
cui abbiamo cercato di fare (o non fare) i conti con il nostro passato.
Lentamente lo abbiamo deformato (il nostro passato) e gli abbiamo dato forme
coerenti con la nostra volontà di potenza, senza mai assumerci la
responsabilità di questa nostra operazione: d’altra parte la canzone popolare
esprime la profondità e la diffusione di questa operazione “chi ha dato ha
dato, ha dato, scordiamoci il passato”.
Dimenticare il passato è come ricordarlo-fotografarlo:
esso è passato. D’altra parte il passato è, per de-finizione, passato.
Ma se noi usciamo da queste attitudini riduzioniste e
sempliciste scopriamo che il passato è presente, noi lo abbiamo continuamente
costruito e ricostruito fino a farne parte ineliminabile della nostra anima,
non in quella pretesa forma statica ed oggettiva che richiama la fotografia, ma
nel suo incessante divenire.
Questo oggi scoprono le neuroscienze, questo avevano già
scoperto i poeti moderni.
Pascoli, scrivendo quei versi, non ha riportato alla luce
–in modo rappresentativo- un episodio della sua infanzia, con la inevitabile
conseguenza della malinconia, che non a caso accompagna sempre la memoria: il
tempo che passa ci avvicina alla morte. Pascoli è tornato indietro per andare
avanti; quelle campane, quel canto di culla sono un marchio indelebile che
forma e conforma Pascoli al sigillare i suoi versi con il punto finale.
Non è importante l’effetto-madeleine, non è importante
sapere se quell’episodio è evocato ora o era già presente alla mente del poeta
(da sempre, da molto o da poco); ciò che è importante è lo spessore di quelle
parole che va conformando una nuova persona, una nuova anima, un nuovo Pascoli,
e questo avviene solo ora e solo grazie al disvelamento di quelle parole e alla
loro organizzazione.
Un’altra poesia, anch’essa
tratta da Canti di Castelvecchio, si inserisce
nel percorso appena descritto. Nebbia è il titolo e anche qui nelle cinque strofe che la compongono è
facile sentire come il movimento nel
tempo possa rappresentare
una conquista dell’anima, un suo decisivo anello. Non si
può
pretendere una nitidezza fotografica, ma si può abbozzare
qualcosa che lo spazio con le sue forme
più
decise aiuta a
comporre. L’infinito non può essere definito (de-finito) né semplicemente dichiarato
(de-clarato): va prefigurato e fatto emergere come con-fusione di elementi, che affondando nel passato vivono nel presente. L’infinito non è solo il futuro, anche solo
intravisto, ma la sintesi del nostro passato, del presente
e di ciò che
forse
sarà.
Nebbia, appunto. Una nebbia che ci avvolge, ci accarezza, ci penetra, “impalpabile e scialba”. Ad essa
Pascoli ricorre perché nasconda,
come è proprio della nebbia, “le cose lontane”, lontane più nel tempo che nello spazio: la morte del padre, i lampi
notturni, “il nero mio pane”,
la vita amara. E
il nascondere non significa cancellare, perché la poesia ha questa capacità,
di
far vivere tutto ciò che pronuncia.
Da quel dolore, “le cose son
ebbre di pianto”, si impone il presente
come vicinanza: “l’alba”, “la siepe dell’orto”, “la mura”,
“i due peschi, i due meli…che danno
i soavi lor mieli”.
Tutto
ciò,
il dolore del passato e la soavità del presente, non solo non impedisce di incontrare
il futuro, ma lo richiama: “quel bianco / di strada
/che un giorno
ho
da fare tra stanco /
don
don di campane… “. La morte non è desiderata né é semplicemente ricordata; essa è qui nella con-fusione di tempi evocati, certa come “il nero mio pane”,
certa come
“la siepe dell’orto”: “Ch’io veda il cipresso / là, solo / qui, solo quest’orto, cui presso / sonnecchia il mio
cane”.
Il tempo comune è il tempo successivo e lineare: ieri, oggi, domani. Ma non è il tempo della
poesia. Il tempo della
poesia non è il tempo della
memoria:
esso
è istante e presenza, un istante e una presenza
in cui con-vivono (nella persona del poeta Pascoli) il dolore,
il sereno della sua casa, la strada
verso il cimitero. Solo la poesia è in grado
di operare questa sintesi, che
rimescola gli elementi ma
allo stesso tempo li lascia integri, trasformando il sentimento e il pensiero in parola, una parola che nella sua autonomia fa vivere quel sentimento
e quel pensiero.
Parola che è poesia, anzi poiesia, cioè creazione. Creazione. Di se stessi prima di tutto.
Nebbia raccoglie in modo profondo gli aspetti più significativi
della poesia pascoliana; non solo non ci sono sbavature, ma frasi, versi e
strofe si costruiscono in modo essenziale, perché sono tutte necessarie al
massimo livello. La poesia si espande e si contrae ritmicamente, evitando pause
rincorrendo se stessa procedendo a spirale. Si tratta forse di quanto più
vicino risponda al concetto di analogia come espresso da Rimbaud: “pensiero
che uncina il pensiero e che tira”. In ogni poesia moderna tutte le parole,
tante o poche, alte o basse, sentimenti o pensieri, sono necessarie perché
appartengono alla costruzione del poeta, che può servirsi di tutto ciò di cui
ha bisogno. Questa poesia fonde, più di altre, il cuore e la mente dando vita a
parole che sono allo stesso tempo sentimenti del pensiero e pensieri del
sentire. In questo senso essa esprime in modo ancora più chiaro il proprio
carattere complesso, attraverso una rete di relazioni che si rincorrono e si
incontrano, si parlano e dialogano rimanendo insieme ma allo stesso tempo
mantenendo la propria autonomia.
Ogni nodo ci propone qualcosa, ogni legame ci propone
qualcosa, la relazione ci propone qualcosa, ma la rete nel suo insieme ci
abitua a fare della nostra esperienza, distillata grazie alle parole, un momento
decisivo della costruzione di quell’IO di cui assumersi pienamente la
responsabilità.
Non esiste un modello di vita in cui il padre non debba morire ucciso, le sorelle debbano essere vissute in questo e non in quel modo, in cui ci si debba sposare per
forza o in cui non ci si debba interessare alla letteratura
anche quella antica.
La vita è frutto
sempre di Caso, Contesto, Scelte.
Negare alla poesia una funzione essenziale alla vita è stupido molto più che sbagliato,
perché nella poesia c’è la persona che si sviluppa nel Caso, nel Contesto e nelle proprie
Scelte.
La Natura pascoliana così vasta e
specifica non ha mai una funzione
oggettiva e rappresentativa;
essa esiste così come la
incontriamo grazie
alla creazione dell’IO
poetico pascoliano.
La poesia ha creato una realtà e
soprattutto
ha
creato un nuovo
Pascoli, una nuova persona.
Deve scoccare una scintilla che sappia provocare
una reazione del cuore e della
mente, qualcosa che
improvvisamente richiama altre parti della tua anima e del tuo mondo, fatto di relazioni prosastiche e di letture poetiche, di circostanze,
di
orizzonti, di fantasie. E a tutto ciò
devi prepararti. Pascoli è un sicuro approdo.
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