Baudelaire
e Rimbaud |
IO e poesia, poesia e IO- 0 |
Da Leopardi a Baudelaire e Rimbaud il salto può apparire mortale e infatti
difficile è trovare nei manuali un collegamento che stabilisca un nodo decisivo
per la letteratura. Come ho spiegato nel precedente articolo, Leopardi svolge
un ruolo di cerniera tra vecchio e nuovo, tra poesia di rappresentazione e
poesia di creazione: ho messo in evidenza come dentro la inesausta ricerca del
poeta di Recanati l’idillio “L’infinito” abbia rappresentato un punto di
svolta nell’individuazione di un percorso evolutivo della poesia e allo stesso
tempo nel senso che Leopardi dette poi alla propria produzione. Ma lasciamo da
parte Leopardi e occupiamoci dei due poeti francesi, per i quali, con
l’accompagnamento spesso di Verlaine e Mallarmé, è in uso il termine
“simbolisti”, termine che poi è debordato dalla letteratura per occupare altri
spazi artistici.
La tomba di Baudelaire a Montparnasse è oggetto di un continuo
pellegrinaggio in tutte le stagioni ed è superata solo dalla venerazione per il
sepolcro di Jim Morrison, sempre a Parigi. Eppure Baudelaire il grande, Baudelaire
il genio, non un poeta, ma il
poeta per eccellenza, in Italia
ha cominciato ad apparire solo dopo un secolo, alla fine del Novecento. Non che
fosse ignoto, ma ancora negli anni ’60 del Novecento non se ne parlava e tanto meno lo si studiava.
L’affermazione di una cultura di massa e lo sviluppo della democrazia ha
portato alla diffusione di modelli così detti di Controcultura, di forte contestazione
nei confronti dell’establishment e dei costumi tradizionali. Come sempre
succede (oggi ad esempio in campo musicale) si va alla ricerca di riferimenti
culturali che in qualche modo legittimino le nuove aspirazioni. La Beat
generation americana diventa il primo naturale richiamo: Ginsberg, Burroughs e
Kerouac, il cui On the road risale al 1951. La palingenesi proposta ha
però bisogno di affondare su qualcosa di più corposo, più radicato e
maggiormente riconosciuto, ed è per questo che il riferimento a Baudelaire e ai
poeti maledetti diventa essenziale. Molti sono gli aspetti che giustificano
questo coinvolgimento; già il termine maudits (maledetti) usato dai
contemporanei li collocava in uno spazio di alterità, che attraverso un linguaggio
irriverente, l’uso di droghe e costumi “licenziosi” aveva come obbiettivo
quello di “Epater les bourgeois”, sconvolgere i borghesi. Lo stesso obbiettivo di molti
movimenti post-68.
Da un lato
Baudelaire irrideva e sbeffeggiava persino il suo lettore (“ipocrita lettore”), dall’altro molte poesie
richiamavano un mondo sotterraneo e oscuro, non nuovo perché patrimonio anche
di un certo Romanticismo, ma che ora diventava progetto di vita e progetto
letterario. Ne sono testimonianza molte poesie de I fiori del male, il
cui titolo è fortemente evocativo: “Il nemico. La carogna. Il
vampiro. Il veleno. Lo
spettro. Sepoltura. Spleen I,II,III,IV. Danza
macabra. Il vino. Le
litanie di Satana. La morte. Il ribelle.
L’abisso.”
Dopo aver insistito sul carattere tardo-romantico di quello che poi altri
chiameranno Decadentismo, dopo aver accettato nell’Olimpo letterario questi
poeti soprattutto per i legami con la letteratura accademica, come il Parnaso,
anche in Italia si poté (come si dice oggi) sdoganarli, ma, come è naturale,
ciò avvenne secondo l’anima corrente nel nostro Paese, che ha sempre visto
primeggiare una certa cultura di origine marxista con tutti i suoi aloni e
contorni material-materialistici.
Il carattere trasgressivo veniva apprezzato e valorizzato dagli studenti,
che come adolescenti amano questo atteggiamento, ma i “maestri”, critici e
docenti, ex-sessantottini diventati adulti, cercavano in tutti i modi di
dettare la linea e ricondurre il tutto nell’alveo del processo storico come
delineato da Marx e reinterpretato dai partiti che a esso facevano riferimento.
Si esaltava così un Baudelaire, figliastro per seconde nozze della madre di un
militare, precisamente un tenente colonnello, totalmente insofferente e che,
nonostante errori e strade sbagliate, mostrava comunque la crisi della società
borghese e del capitalismo; lo stesso valeva per Rimbaud di cui si esalta il
poeta “ribelle” contrapposto al poeta “veggente”.
E così si usano poeti come Baudelaire e Rimbaud per sottolineare la crisi
di un modello di società, se ne evidenzia la carica rivoluzionaria, ma gli
esiti inadeguati, perché rifiutano la strada dell’impegno, si isolano in una
torre d’avorio, rifuggono il popolo e dunque vengono stigmatizzati come persone
che hanno scelto “la fuga dalla realtà”.
Impegno ed estetismo sono sempre stati le
due facce della stessa medaglia della critica letteraria, spesso visti in
contrapposizione (il Foscolo delle Grazie contro il Foscolo dei Sepolcri), ma
talvolta anche strettamente collegati. Non è stato facile dialogare con
Baudelaire, la cui poesia ha portato i suoi studiosi nelle più svariate
direzioni che ne hanno fatto ora un romantico ora un decadente ora un
parnassiano ora un modernista ora un antipositivista o semplicemente un ribelle
o un pervertito, un dandy e un esteta o un amante dell’esotismo.
L’uomo è stato condannato praticamente subito dal momento che la sua vita
sregolata corrompeva i valori della società borghese, mentre i partiti
impegnati lo consideravano un reazionario. Il poeta ha avuto invece una vita
più facile, anche se si è dovuto aspettare il 1939 perché venissero pubblicate
tutte le sue opere e il 1949 perché gli venisse revocata la condanna per
oscenità. Lo stesso discorso vale anche per Rimbaud di cui ci si ricorda con
malcelata soddisfazione la sua tempestosa relazione affettiva con l’altro poeta
maledetto Paul Verlaine e la morte a soli 37 anni. Oggi Baudelaire è ricordato
soprattutto per le caratteristiche formali dei suoi versi: belle parole, parole
intense, immagini grandiose, termini molto ricercati, mentre Rimbaud rimane
come il poeta che in pochissimi anni di attività ha saputo sviluppare la
propria immaginazione portandola in terreni nuovi e misteriosi.
Oggi il panorama ha subito una radicale trasformazione e i “poeti
maledetti” non sono solo accettati e riconosciuti, ma non mancano più nei
manuali di letteratura e nelle lezioni dei docenti anche quelli più compassati.
Tutto bene?
Purtroppo no, perché si procede proponendo le solite poesie e presentandole
in ordine sparso. Così L’albatro diventa la n. 1, per mostrare come il
poeta si senta distante dalla massa; vengono poi Spleen IV, per il suo
lato distruttivo, e altre poesie dalle belle immagini; per Rimbaud invece si
parte con Vocali perché attribuire un colore ad ogni vocale è capace di
suscitare stupore (e dunque attenzione) nei giovanissimi studenti, talvolta si
allarga il discorso a Il battello ebbro, più o meno per gli stessi
motivi. Corrispondenze, quando non viene dimenticata, è invece collocata
nel mucchio indistinto, mentre La lettera del veggente difficilmente
trova spazio.
La teoria dell’organizzazione sviluppatasi negli
ultimi anni all’interno della scienza della complessità mostra come l’organizzazione
(in qualsiasi campo) non sia qualcosa di secondario o indifferente. Il tipo di
organizzazione di cui ho appena parlato risponde a un’esigenza sostanzialmente
estetica della letteratura; io ritengo invece che la letteratura, facendo parte
della realtà, la subisce e la crea.
Ogni poesia è parte di una rete di relazioni che compongono l’insieme
dell’opera. Per quanto riguarda Baudelaire l’hub da cui si diramano gli altri
testi è Corrispondenze, mentre per Rimbaud è Lettera del veggente.
Vediamo perché e come altre poesie si interconnettono con questi due hub.
Da Corrispondenze si dipartono i flussi che portano a Il viaggio,
a Spleen IV e soprattutto a Inno
alla bellezza, mentre dalla Lettera del veggente si va oltre Rimbaud
stabilendo un filo diretto con Il porto sepolto di Ungaretti: da tutti
questi hub si riparte per nuovi collegamenti che, come vedremo, vanno oltre la
letteratura e coinvolgono ad esempio anche la filosofia e poi la Scienza. I
collegamenti non vanno, come spesso si dice, in un’unica direzione (la classica
definizione di “influenza”), ma si muovono in modo ricorsivo; non è importante
stabilire il progenitore, anche se ad esempio per Ungaretti, data la differenza
cronologica, è evidente che il poeta italiano si è ispirato a quello francese.
Non è importante perché ci priva di una visione complessa che deve invece essere
capace (o almeno tentare) di avere una visione d’insieme: è questo un modo di
allontanarsi dal determinismo che ci porterebbe a identificare un percorso,
storicamente necessario, che va in una ben precisa direzione. Ogni fenomeno
storico, e dunque anche la letteratura, si muove per flussi ed è dietro a
questi che dobbiamo muoverci.
Corrispondenze è l’hub da cui intendo partire
perché ci fornisce un nuovo modo di concepire la poesia, basato su un concetto
di realtà completamente nuovo: spudoratamente Baudelaire rifiuta la visione
cartesiana della realtà che è alla base di ogni genere di manifestazione,
artistica e non, e sulla rottura dell’equilibrio cartesiano si pone come
uomo-poeta che sa di essere un creatore, di realtà, non semplicemente di
poesia.
Corrispondenze
È
un tempio la Natura ove viventi pilastri a volte confuse parole mandano fuori; la attraversa
l'uomo tra foreste di simboli dagli occhi familiari. I profumi e i colori e i suoni si rispondono come echi lunghi. che di lontano si confondono in unità profonda e tenebrosa, vasta come la notte ed il
chiarore. |
Esistono profumi freschi come carni di bimbo, dolci come gli
oboi, e verdi come praterie; e degli
altri corrotti, ricchi e trionfanti, che
hanno l'espansione propria alle infinite cose, come l'incenso, l'ambra, il muschio, il benzoino, e cantano dei sensi e dell'anima i lunghi rapimenti.
|
La prima parte della poesia è senz’altro quella decisiva, mentre nella
seconda domina soprattutto l’elemento esemplificativo e la dimensione della
sinestesia, che non è altro che una forma di analogia che Baudelaire chiama
Corrispondenze. Qui di seguito una veloce parafrasi, tanto per cominciare a
orientarsi: “La natura è un tempio costituito da pilastri viventi, i quali a
volte emettono parole confuse; l’uomo
attraversa la Natura muovendosi in mezzo a foreste, che ci sembrano familiari
ma che in realtà sono simboli. Qui sensazioni (come profumi, colori, suoni) si
parlano e si rispondono come se ci fosse l’eco: questo parlarsi e rispondere,
questi echi in lontananza si con-fondono,
cioè si fondono insieme, in un insieme unitario, profondo e tenebroso, vasto
come il buio della notte e il chiarore.”
Non va sottovalutata –come spesso si tende a
fare- l’immagine della Natura-Tempio perché essa vuole suggerirci che l’uomo e
il suo essere naturale, cioè finito e limitato, hanno la possibilità di andare
oltre questi limiti e questa finitezza. In questo senso l’essere tempio ci
suggerisce il carattere sacro del vivere e della parola: la parola è sacra e
dunque chi la usa, nel tempio, a volte, riesce a svelare il divino che è nella
natura e nell’uomo. “Nel tempio e a volte” si riferisce a condizione umana che
però non a tutti appartiene. Quella parola non è parola comune.
Essa è poesia. Essa è la poesia.
In questa immagine del tempio è già segnata una
parte importante della poesia moderna che ritroveremo dichiarata e meglio
esemplificata nell’Ermetismo, dove il poeta funge da sacerdote, che sa
decifrare le risposte che il dio Ermete Trismegisto dà alle domande degli
uomini.
Se non dobbiamo sottovalutare questa immagine è
vero però che il nodo strategico di tutta la poesia sta nel dichiarare che
l’uomo attraversa foreste che ci sono familiari ma che in realtà sono simboli.
Gli elementi che compongono la Natura siamo
abituati a pensarli in modo oggettivo, cioè come cose separate le une dalle
altre e che occupano, grazie alla loro oggettività, sempre e ovunque uno stesso
punto in quello che potremmo chiamare il territorio della realtà.
Baudelaire ci rivela invece che questi elementi,
queste cose, entrano in contatto, si chiamano e si rispondono reciprocamente, e
così si fondono insieme.
L'inizio ci ha posto di fronte alla Natura, cioè alle cose agli uomini a
noi, e il rapporto evidenziato è di tipo conoscitivo; cerchiamo le parole
adeguate per descrivere e descriverci ed esse si presentano confuse, non
comprensibili. Crediamo di sapere cosa abbiamo davanti e tutto ci sembra
familiare, ma dobbiamo prendere atto che si tratta di simboli.
Il poeta ha individuato un elemento decisivo per cercare di arricchire
la nostra conoscenza, trasformando le nostre capacitá percettive e quindi
operative, permettendoci relazioni sempre piú ampie. Possiamo far emergere
aspetti (colori, odori, suoni...) che si con-fondono, cioè che si fondono
insieme e l'unitá che si stabilisce è profonda e tenebrosa, ma la notte puó
essere chiarezza. Ció che risulta importante è l'avviare questo processo in cui
i vari elementi si rispondono l'uno con l'altro. Si fondono e si rispondono,
cioè si cercano e si perdono l'uno nell'altro e allo stesso tempo rimangono
distinti.
Se dunque la realtà non è oggettiva e le cose, gli elementi con cui
entriamo in contatto non sono sempre lì dove siamo abituati a trovarli o dove
ci è stato detto (“Bisogna essere accademico - più morto di un fossile- per
perfezionare un vocabolario di qualsiasi lingua”- da Lettera del veggente
di Rimbaud), allora viviamo in una realtà mobile, continuamente mobile, e la
confusione appare dominare.
Una realtà in continuo movimento richiede nuovi strumenti e la confusione
può diventare con-fusione.
Il primo strumento di cui dobbiamo dotarci, i nuovi
filtri e le nuove lenti, devono necessariamente essere le corrispondenze,
ovvero l’analogia. Questo strumento ci permette di spostarci in continuazione e
di s-coprire, ri-velare aspetti che troviamo nelle profondità, oltre la superficie.
Paragonare questo strumento a un traduttore linguistico o a un misuratore di
equivalenze è solo approssimazione e non è sostanzialmente valido, perché essi
presuppongono due realtà, linguistiche o numerali, completamente autonome.
Questi esempi sono più adatti per la metafora e ad essa si incastrano
perfettamente. E’ per questo motivo che li cito: l’analogia non è la metafora.
Se crolla il carattere oggettivo della realtà non significa che questa
divenga soggettiva: semplicemente la realtà cessa di essere oggettiva.
Perché questo processo si compia e si chiarisca è necessario cancellare i
confini (fines) di quella realtà oggettiva che ci ha accompagnato per secoli:
erano quei confini che, attraverso il carattere finito della realtà, ci
permettevano di ritrovare sempre e comunque i suoi elementi costitutivi,
allargando l’esplorazione di nuovi spazi del territorio e la continua
delimitazione (limes=finis) degli stessi.
Ecco perché nella poesia l'insieme e il singolo si pongono come
articolazione di un processo che non rimane circoscritto a un dato
preesistente, ma che sa espandersi verso l'infinito. Ecco perché il topos
dell’infinito risulta così intenso e intensamente esplorato dalla letteratura
poietica. Ecco perché Leopardi aveva detto che dobbiamo entrare nel finito per
creare l’infinito: dentro la siepe oltre la siepe, dentro le foreste oltre le
foreste, dentro l’aratro oltre l’aratro, dentro i limoni oltre i limoni, dentro
l’uomo oltre l’uomo.
L’analogia dunque è lo strumento conoscitivo per eccellenza perché essa
permette quelle connessioni che sono necessarie ad aprire nuovi orizzonti.
L’espansione alle infinite cose non è qualcosa di sognante e astratto, ma al
contrario un limite-non limite che garantisce il processo genetico, di
auto-organizzazione.
La realtà non è semplicemente da scoprire, ma essa si conosce costruendola
e si costruisce conoscendola, attraverso un processo ricorsivo di cui la poesia
è artefice. Solo attraverso questo orizzonte (leopardiano e gadameriano allo
stesso tempo) la letteratura si fa poietica e anticipa quanto poi verrà
proposto dalla scienza della complessità.
Corrispondenze: un anticipo
La tesi che sostengo attraverso queste pagine è che la poesia moderna ha
anticipato acquisizioni fondamentali della scienza della complessità, ponendo
le basi -a pieno titolo- della Nuova Alleanza.
Partiamo da una riflessione che M. Ceruti nel libro Il vincolo e la
possibilità (Ed. Feltrinelli) fa rispetto a quanto oggi rivelato in termini
di conoscenza :
"La conoscenza si
costituisce in un gioco continuo di rimandi e di costruzioni di punti di vista
e di universi del discorso...L'unitá non é sintesi, é complementaritá
(concorrenza, cooperazione, antagonismo)" nel capitolo dal titolo
"L'osservatore é il sistema. Autonomia e cambiamento" (pg.97 e 96).
L’analisi di Ceruti non parla della poesia ma degli approdi che la scienza
è andata realizzando negli ultimi decenni e che hanno profondamente intaccato i
vecchi paradigmi, a tal punto che oggi possiamo, con una certa tranquillità,
parlare di Scienza della Complessità.
Il linguaggio di Ceruti sembrerebbe a prima vista una semplice variante del
linguaggio baudelairiano, se non fosse che esso esprime la sintesi della più
recente ricerca scientifica.
In questo senso l’analisi che le neuroscienze hanno sviluppato chiarisce
meglio il senso di tutto questo.
Prendiamo ad esempio il libro di Edelman “Seconda natura”(Ed. Cortina).
“Il rientro è la segnalazione
incessante da una certa regione cerebrale (o mappa) a un’altra e poi di nuovo
alla prima lungo fibre massicciamente parallele (assoni) che sappiamo essere
onnipresenti nei cervelli superiori. Le vie di segnalazione rientranti cambiano
costantemente di pari passo con il pensiero” (pg. 25).
Il cervello dunque funziona in modo analogico e quando la poesia moderna si
costruisce in termini analogici essa non fa altro che riprodurre una funzione
essenziale del cervello superiore. Più comprensibili dell’analogia sono la
similitudine e la metafora, espressioni logiche e razionali, ma semplici del
pensiero. Così come questi strumenti poetici vengono superati dall’analogia,
anche il riduzionismo risulta inadeguato ad esprimere le funzioni essenziali del
nostro cervello.
“A un certo punto
dell’evoluzione dei primati superiori, si è sviluppato un nuovo insieme di vie
reciproche, che ha realizzato connessioni rientranti fra mappe concettuali del
cervello e aree capaci di riferimento simbolico o semantico.……Gli stati
coscienti sono unitari, ma cambiano periodicamente nel corso del tempo. Hanno
una vasta gamma di contenuti e un ampio accesso…e non esauriscono tutti gli
aspetti dei domini a cui si riferiscono. Soprattutto implicano sensazioni
soggettive” (Edelman, pag. 35-36).
La prima parte del brano rivendica (come altrove nel libro) il carattere
evolutivo della coscienza evidenziandone l’approdo nella dimensione complessa
del cervello e nella formazione di aree capaci di riferimento simbolico.
Questo vuol dire che la nascita della poesia moderna esprime il superamento
di approcci primitivi quali li ritroviamo nella poesia di rappresentazione. Ciò
non vuol dire che il cervello superiore nasce con la poesia moderna, ma
che questa esprime per la prima volta in forme ampie, diffuse,
riconosciute le caratteristiche essenziali del cervello superiore. Come si
legge nel testo di Stoppard, Arcadia, “le montagne non sono triangoli”,
affermazione ovvia fin dall’età della pietra ma che assume solo da poco il suo
valore proprio in termini di coscienza e conoscenza. Un discorso simile si può
fare riferendoci a una canzone di Gaber che, parlando di Giotto e del suo cielo
azzurro, ricorda che bastava guardare in alto. Dunque tutto ciò non esprime la
stupidità dei nostri antenati, ma quali siano i tempi e i percorsi necessari
affinché qualsiasi trasformazione fisico-tecnica si traduca in acquisizione
culturale. In questo senso il XIX e il XX secolo sono pronti ad accettare una
visione complessa e in questo nuovo porsi la letteratura ha saputo mostrarsi
più pronta.
Nella seconda parte del brano mi sembrano significativi tre punti.
Innanzitutto (1) il carattere variabile e (2) in espansione della
coscienza, come stati specifici, propri del cervello. Infine (3) l’implicazione
soggettiva.
Dal punto di vista letterario queste acquisizioni erano già state vissute
nell’essenza stessa della poesia moderna che si presenta per la prima volta
nella sua soggettività intima e soprattutto nella sua dimensione creativa che
solo una prospettiva di espansione rende possibile. L’Io in espansione che la
letteratura sa esprimere dimostra la più completa espressione delle qualità
fondamentali del cervello.
“…il cervello selettivo deve necessariamente funzionare in presenza di
vincoli imposti dai sistemi di valore, vale a dire quelle strutture cerebrali
ereditate per via evolutiva che determinano l’importanza, la punizione e la
ricompensa. Come si è già discusso, i sistemi di valore consistono soprattutto
di reti neurali ascendenti diffuse……Il valore non è una categoria; la
categorizzazione si deve realizzare attraverso il comportamento del singolo
individuo. Il collegamento tra questi concetti e i problemi legati all’emozione
e ai suoi effetti sulla conoscenza è più o meno diretto. …Di contro, nell’epistemologia
basata sul cervello il meccanismo proposto dalla teoria della selezione dei
gruppi neuronali per la coscienza è universale: si applica a tutte le risposte
discriminative, che coinvolgano la percezione, la rappresentazione per
immagini, la memoria, la sensazione o l’emozione, o persino il calcolo
matematico. In molti casi, c’è un’interazione tra questi processi. L’attività
cerebrale non si può considerare… come un processo di calcolo simile a quello
delle macchine, distaccato, senza alcuna emozione” (Edelman,
pag. 55-56).
Questo brano mette in risalto alcune caratteristiche elaborate dalla poesia
moderna: il processo che porta alla coscienza coinvolge aspetti che vanno ben
al di là della semplice capacità logica. In tal senso la poesia ha saputo
mostrare con cento anni di anticipo questa capacità che oggi sappiamo essere
caratteristica dell’attività cerebrale, stabilendo una interazione continua tra
percezioni, immagini, memoria, sensazioni, emozioni ed anche ragionamenti
logici. Questa interazione l'abbiamo vista bene espressa nella poesia di
Baudelaire che le dà il nome di corrispondenze.
L’attività cerebrale, dice Edelman, non è priva di emozioni. Già Pascal
aveva parlato di ragioni del cuore (Pensieri, II/423), ma è con la poesia
moderna che il carattere emotivo della ragione e quello razionale delle
emozioni diventano forma sempre più accettata e riconosciuta, attraverso
l’esperienza di percorsi sempre più ampi, ricchi, profondi che ne certificano
la dimensione scientifica. Questo aspetto sarà presente nella totalità della
letteratura poietica e troverà una maggiore puntualizzazione (di cui parleremo
più tardi) nel concetto pirandelliano di Sentimento del contrario, punto
centrale del suo manifesto poetico L’umorismo.
La rete
Corrispondenze è l’hub che ci aiuta meglio a ripercorrere il senso della
poesia di Baudelaire, perché ci permette di dis-velare la rete delle parole che
compongono le altre poesie. Io mi muoverò solo su tre perché hanno un impatto
maggiore. Naturalmente queste mie riflessioni non pretendono di essere
oggettive, ma solo suggestive, nel senso di suggerire.
La prima connessione porta a Inno
alla bellezza. A prima vista una poesia non particolarmente poetica, con un
certo maledettismo dato da “Satana, Inferno, delitto, morti, orrore, massacro,
tomba” mescolati a dichiarazioni estasiate sulla Bellezza. Potremmo passare
oltre, se non fosse che rimane da capire chi e come produce quei fiori che
danno il titolo alla raccolta; va scoperto anche quale percorso dobbiamo intraprendere per andare oltre il dolore in cui spesso ci troviamo
immersi. Per poter procedere occorre però muoversi in modo non accademico. Per
poterci servire di questi versi bisogna operare una trasformazione proprio
della parola chiave, Bellezza. La Bellezza di cui qui parla Baudelaire non
corrisponde a quella estetica e non può corrispondervi per le cose dette nella
poesia. Dunque Bellezza va tradotta con Felicità. Ecco dunque che Inno
alla bellezza ci svela il cammino, ci indica l’orizzonte, ci apre la
strada: certo capiterà che l’Angoscia pianti nel nostro cranio la sua nera bandiera,
ma possiamo uscirne e intraprendere un nuovo cammino. Vediamo come.
Primo punto: la Felicità è sganciata dalla Morale, non è dipendente
né dal Bene né dal Male. Non si tratta di un invito al crimine, al di là di
cosa si pensi della natura umana e della sua evoluzione; non si tratta di
legittimare ciò che la società considera “male”. Non è né maledettismo né satanismo
né la volontà di sconvolgere i borghesi; non è cioè un’attitudine estetica
quella di Baudelaire, ma creativa. L’attitudine che il poeta ritrova in sé per
creare felicità.
Secondo
punto: essa apre le porte di “un infinito che amo e che non ho mai conosciuto.”
Torna nuovamente in primo piano il tema dell’infinito che si chiarisce ancora
meglio: la realtà non è oggettiva e dunque l’azione dell’uomo non deve avere
confini e deve avere davanti a sé un orizzonte che non ne predetermini i
movimenti. Se questa è la prospettiva di chi vuole essere artefice della
propria esistenza l’infinito deve essere amato, cioè valorizzato e ricercato, e
sapendo che in quel percorso incontrerò molte cose che non ho mai conosciuto,
che non mi sono familiari.
Terzo punto: essa rende
l’universo meno disgustoso e le ore meno pesanti. Non esiste il Sol
dell’Avvenire disseminato di morti, dolore e sofferenze; non ha senso il dolore
quotidiano in nome di un Paradiso futuro. Se voglio proseguire nella mia
costruzione e perseguire un cammino di felicità devo fare in modo che le mie
scelte rendano la mia esistenza almeno sopportabile nell’immediato. La catena
evolutiva ha bisogno di tutti i suoi anelli e ne ha bisogno perché la creazione
sia anche costruzione, della Bellezza, cioè della Felicità.
Il Male è una costante dell’esistenza umana, negarlo non ha senso, occorre
saperlo gestire e fare i conti con esso: solo così da questo male possono
nascere fiori che non siano fantasie, illusioni, sogni, mere chimere del
pensiero.
Al di là del bene e del male, scriverà Nietzsche qualche
decennio dopo. Non esistono indicazioni operative
né manuali d’istruzione per essere felici: esiste solo un orizzonte che
illumini il nostro cammino e questo orizzonte deve saper riconoscere le
caratteristiche che hanno conformato l’uomo nel corso dei millenni. Le
caratteristiche evidenziate da Baudelaire forniscono punti di orientamento importanti
che si intrecciano con la complessità dell’essere umano.
Gesti e azioni devono rendere meno pesanti i momenti che ci troviamo a vivere
e allo stesso tempo devono avere la capacità di aprire nuove porte, di proiettarci
verso l’infinito, di farci apprezzare ciò che si presenta come nuovo: come
ricorderà nell’ultimo verso de Il viaggio, “Nel fondo dell’Ignoto per
trovare del nuovo”. Si tratta di un invito a fare continuamente i conti con
se stessi, ad essere in-satis-fatti, curiosi, perché il movimento è il
senso della vita; non rinunciare alle possibilità che si aprono davanti a noi,
ma senza dimenticare chi siamo e da dove veniamo.
La rete sta dipanandosi lentamente e da Corrispondenze e Inno
alla bellezza siamo entrati in contatto sia con Il viaggio sia con Spleen
IV.
Dentro la poesia oltre la poesia.
Le poesie di Baudelaire trovano nei suoi lettori molteplici approcci, che parlano
più del lettore che del poeta. Il maledettismo è un’attitudine eroica difficile
da superare ed è pari solo al vittimismo, con cui forma l’intero guscio. E così
la potenza di parole come quelle che troviamo in Spleen IV con la
bandiera piantata sul cranio non possono non colpire, facendo sì che molti vi si
immedesimino. Altre sono le poesie o le strofe in cui il poeta dà voce al suo
dolore, alla sua sofferenza, alla sua tristezza, alla sua delusione: il tempo
viene chiamato reziario, l’umida prigione, la speranza è come un pipistrello,
infami ragni tessono sui nostri cervelli, il cuore che come un tamburo smorzato
batte le sue marce funebri, la donna vile schiavo orgoglioso e stupido, l’uomo
tiranno ingordo vizioso duro….
Si tratta di espressioni e di immagini forti, che troviamo in
continuazione, che esprimono momenti vissuti dal poeta e che lasciano senza
speranza; ognuno di noi li ha vissuti, ma solo lui è stato capace di dare a quelli
una voce. Da qui l’illusione di un certo pessimismo che accompagnerà tutta la
poesia moderna, da Pascoli a Ungaretti a Montale a Pavese. Quando si leggono
versi come quelli sopra richiamati, singoli, riuniti in strofe o addirittura racchiusi
in una poesia, sembra impossibile trovare una via d’uscita.
Ma questa difficoltà è solo una possibilità. Ne esiste un’altra che è meno
potente, meno energica, meno impressiva, ma che esiste: questa non si chiude nel
dolore, ma dal dolore prende spunto per andare oltre, per presupporre un oltre.
Rimanendo nella dimensione estetica non saremo mai in grado di cogliere e
apprezzare questa possibilità. Occorre fare quel salto che il poeta ci ha
richiesto e passare alla configurazione poietica e non scambiare per semplici
dichiarazioni quanto il poeta, nel turbine e nella complessità della sua esistenza,
ci offre. Insomma i fiori che possono nascere dal male.
Ripeto quanto ho scritto poco sopra che stabilisce un altro collegamento:
Il Male è una costante dell’esistenza umana, negarlo non ha senso, occorre
saperlo gestire e fare i conti con esso: solo così da questo male possono
nascere fiori che non siano fantasie, illusioni, sogni, mere chimere del
pensiero.
La poesia Il viaggio è molto più lunga, ma soprattutto è di una
densità tale che sviluppa il senso della poesia e dell’esistenza umana
attraverso un gran numero di analogie. Non ne farò il riassunto e neppure ne
seguirò in modo lineare le strofe. Naturalmente dobbiamo riuscire ad andare
oltre le parole senza però farne dichiarazioni o messaggi né tantomeno teorie,
dando per scontato che il viaggio occupa diversi campi della vita umana.
Entriamo nelle parole, costruiamo un discorso, soffermiamoci sulle immagini,
torniamo alle parole, leggiamole usando i filtri delle altre poesie, cerchiamo
corrispondenze, anche di singole parole, dietro le quali è presente un mondo;
dotati di questo nuovo carico rimettiamoci in viaggio, in un percorso che si fa
sempre più denso e che cessa di appartenere a Baudelaire per diventare il
nostro percorso.
Un mattino partiamo, il cervello in fiamme,
il cuore gonfio di rancori e desideri amari,
e andiamo, al ritmo delle onde, cullando
il nostro infinito sull'infinito dei mari (strofa 2)
La dolcezza del naufragio diventa il
cullare di un infinito che non è fuori di noi ma che ci appartiene: dalla
siepe-colle all’infinito è ora diventato dalla complessità del nostro essere
all’infinito. Noi non siamo infinito e il mare non è infinito, certo, ma solo
in una visione oggettiva e deterministica; oltre questa i filamenti che si
dipartono da noi sono infiniti e “…
hanno l'espansione propria alle infinite
cose“.
Ma i veri viaggiatori sono solo
quelli che partono per partire;
cuori leggeri, s'allontanano come
palloni,
al loro destino mai cercano di
sfuggire,
e, senza sapere perché, sempre
dicono: Andiamo! (strofa 5)
E’ la fedeltà al proprio destino,
che non ha nulla di fatalistico, che spinge al viaggio, perché la vita ci
chiede di partire e ci ordina di andare e “il partire solo per partire” indica
l’esigenza di rottura, il rifiuto di fermarsi in un punto e lì morire: occorre superarsi,
andare oltre, scavare e scoprire. Essere übermensch: oltreuomo. E infatti
nell’esigenza di rinnovamento che questo partire esprime è già gran parte del
mutevole percorso che il destino ci ha riservato: “cullando questo nostro
infinito sul finito dei mari”.
Prima di Allegria e dopo L’infinito di Leopardi la poesia
squarcia il senso della realtà: l’infinito non è il non finito, ma è in
(dentro) finitum, cioè qualcosa che possiamo cogliere (qui cullare)
entrando dentro il finito, come avviene per Leopardi con la siepe e il colle.
L’intuizione leopardiana trova conferma e si rafforza in questi versi e
nell’insieme delle poesie di Baudelaire.
I loro desideri hanno la forma delle nuvole,
e, come un coscritto sogna il cannone,
sognano voluttà vaste, ignote, mutevoli
di cui lo spirito umano non conosce il nome! (strofa 6)
La ricerca della felicità, declinata in piaceri, richiede che questi non
“posino né pesino”, siano in continua trasformazione (la palla, la trottola, la
Curiosità della strofa successiva), siano vasti e ignoti: a tutto ciò dovremo
dare un nome ricordando che la parola ha cessato di essere un vestito delle
cose.
Destino singolare in cui la meta si sposta;
se non è in alcun luogo, può essere dappertutto; (vv. 29-30)
La meta si sposta perché la realtà non è oggettiva e la ricerca diventa
immediatamente costruzione.
Vogliamo navigare senza vapore e senza vele!
Per distrarci dal tedio delle nostre prigioni,
fate scorrere sui nostri spiriti, tesi come tele,
i vostri ricordi incorniciati d'orizzonti. (strofa 14)
La realtà è una prigione e vogliamo allontanarcene, ma il viaggio non ha
bisogno per forza di essere materiale e ciò che conta sono gli orizzonti che
inondano i nostri spiriti.
- Il godimento dà al desiderio
più forza.
Desiderio, vecchio albero che
il piacere concima,
mentre s'ingrossa e
s'indurisce la tua scorza,
verso il sole si tendono i
rami della tua cima!
Crescerai sempre, grande
albero più vivace
del cipresso? (strofa
19-20)
E’
in questi versi forse la parte più piena di senso di tutta la poesia,
stabilendo una connessione ancora una volta con il pensiero di Nietzsche che
quattro decenni dopo insisterà con l’invito di Zarathustra a non interrompere
il legame con le nostre radici (“restate attaccati alla terra”). E’
ridondante e inutile riferire questo legame a quello che per Heisenberg e una
consistente componente di fisici contemporanei ritengo essere il punto di
partenza e di riferimento della ricerca, cioè “gli osservabili”? Non credo.
Rimane comunque il senso della strofa: dal desiderio al piacere in una crescita
continua, dalla terra al Sole in una crescita che è allo stesso tempo grandezza
e forza?
Radici,
tronco, rami, cielo. Restare attaccati alla terra, slanciandosi però verso il
sole.
Partire? restare? Se puoi
restare, resta;
parti, se devi. C'è chi corre,
e chi si rintana
per ingannare quel nemico che
vigila funesto,
il Tempo! Qualcuno, ahimè!
corre senza sosta,
come l'Ebreo errante e come l'apostolo,
al quale non basta treno o
naviglio,
per fuggire l'infame reziario;
e chi invece
sa ucciderlo senza uscire dal
nascondiglio.
Queste due strofe mostrano in
modo lucido come Baudelaire ancora una volta esalti l’importanza dell’infinito
e dell’orizzonte: non esiste un manuale, non esiste un insieme di istruzioni e
di tecniche da seguire nel viaggio della vita. Al contrario di quella modernità
che pretende di imporre il movimento come soluzione, Baudelaire riconosce,
prima di tutto a se stesso, che puoi anche stare fermo, anzi rimanere immobile,
perché ciò che conta non sono i passi immediati e vicini, ma la prospettiva,
l’orizzonte che apre all’infinito.
"O Morte, vecchio
capitano, è tempo! Su l'ancora!
Ci tedia questa terra, o
Morte! Verso l'alto, a piene vele!
Se nero come inchiostro è il
mare e il cielo
sono colmi di raggi i nostri
cuori, e tu lo sai!
Su, versaci il veleno perché
ci riconforti!
E tanto brucia nel cervello il
suo fuoco,
che vogliamo tuffarci
nell'abisso, Inferno o Cielo, cosa importa?
discendere l'Ignoto nel
trovarvi nel fondo, infine, il nuovo.
La conclusione è il viaggio a
spirale in elementi già affrontati e sviluppati, ma espressi con maggiore forza
e convinzione: non è il Bene o il Male il faro della nostra rotta e il viaggio
ha senso solo se accetta di entrare negli abissi, perché solo lì è il nuovo. Ma
il riferimento alla Morte è l’invito a se stessi a saper rompere con
l’abitudine che è sposa della noia, perché “i veri viaggiatori sono solo
quelli che partono per partire”.
Per
chi ama il riassunto e la dimensione narrativa eccolo qua.
La realtà non è oggettiva, definita; in essa la collocazione di ogni
elemento è decisa dall’Io che prende forma, costruisce se stesso costruendo la
realtà. La realtà è dolore e sofferenza, ma in essa è possibile incamminarsi
per la strada della felicità: non dobbiamo rimanere dipendenti e ancorati a
pregiudizi morali, dobbiamo scegliere ciò che ci rende la vita meno pesante e
ci apre le porte dell’infinito. L’infinito è la proiezione dell’Io che rimane
attaccato alla terra e rappresenta un orizzonte piuttosto che un punto fisico.
Come aveva anticipato Leopardi più di trenta anni prima.
Ecco in sette righe riassunto quanto Baudelaire ha avuto bisogno di
esprimere in una vita. E io ho avuto bisogno di venti anni per poter entrare in
questo universo. Perché il punto è questo. Il riassunto e la dimensione
narrativa non sono sufficienti per poter procedere a una
formazione-conformazione-trasformazione dell’Io. Perché questo si possa
realizzare solo la poesia, con le sue parole e le sue immagini, è in grado di
avviare il processo. Ma la poesia da sola non è sufficiente, occorre fare in
modo che quelle poesie, quei versi, le loro singole parole entrino dentro di
noi, cioè dentro la nostra storia, si confrontino con essa, discutano,
litighino, si facciano reciproca violenza, si abbandonino e si reincontrino.
Non basta il riassuntino di sette righe, non basta leggere le poesie, non basta
apprezzare queste mie pagine.
RIMBAUD
Rimbaud è il poeta maledetto per eccellenza, giovane ribelle,
anticonformista, privo di ogni remora anche linguistica, rimase adolescente per
quei pochi anni di vita che convissero con lui. Estremizzava ogni cosa e i suoi
contatti con la nuova cultura furono soprattutto il maestro Izambard e l’altro
poeta maledetto Paul Verlaine, mentre, pur vicino ai Parnassiani, non si sa
nulla del suo rapporto con Baudelaire. A dispetto di ciò i due poeti sono
strettamente legati più di quanto si pensi, eppure la stagione poetica di
Rimbaud termina con i suoi 20 anni, mentre la sua vita si concluse in Africa
impegnato in numerosi lavori tra l’Egitto, Aden, l’Abissinia e la Somalia.
In genere non sono molte le poesie del poeta che si conoscono e si leggono
soprattutto nelle scuole, perché c’è un testo che le riduce al silenzio, senza
negarne valore e suggestioni: questo testo è noto come “Lettera del veggente”.
Le poesie presenti in Una stagione all’inferno o in Illuminazioni come
pure altre poesie sparse (ad esempio Il battello ebbro) sono
straordinarie solo se le leggiamo alla luce della Lettera del veggente,
perché così assumono il senso che Rimbaud intendeva proporre. Per molti il
poeta avrebbe invece rinnegato il suo “proclama poetico” attraverso l’ultima
poesia di Una stagione all’Inferno, Adieu; a me risulta difficile
confermare questa interpretazione che comunque non avrebbe alcun peso nelle
parole del poeta. In Adieu troviamo invece la convinzione di tornare
alla terra, per l’esigenza di dare alle sue parole la vita che a loro si
addice: “Io, Io che mi sono detto mago o angelo, dispensato da ogni morale,
io sono reso alla terra, con un dovere da cercare, e la rugosa realtà da
stringere!...Posso comunque dire che la vittoria è mia…”. Il brano termina
così: “…e mi sarà possibile possedere la verità nell’anima e nel corpo”.
Rimbaud ha 19 anni e sogna di fare il passo successivo, ma non gli riuscirà,
come non riuscirà ai poeti che lo seguiranno: rimane però il compito principale
che spetta oggi alla parola-anima e alla vita-corpo.
Sappiamo quale è il compito per il poeta di oggi e ce lo hanno ricordato
sia Montale sia Octavio Paz e il veggente lo aveva visto più di 100 anni fa. Il
veggente, per l’appunto. La sua lettera (o lettere) è (sono) del 1871 e Rimbaud
aveva appena 17 anni: una è indirizzata a Georges Izambard, suo professore di
letteratura, e l’altra a Paul Demeny, poeta ed editore.
Riporto qui di seguito i passi principali.
Io è un altro. [...] Se i vecchi imbecilli non avessero trovato dell'Io che
il significato falso, non avremmo da spazzar via questi milioni di scheletri
che, da tempo infinito, hanno accatastato i prodotti del loro guercio
intelletto, proclamandosene fieramente gli autori!
[...]
Il primo studio dell'uomo che voglia
essere poeta è la sua propria conoscenza, intera; egli cerca la sua anima,
l'indaga, la tenta, l'impara. Appena la sa, deve coltivarla; la cosa sembra
semplice: in ogni cervello si compie uno sviluppo naturale; tanti egoisti si
proclamano autori; ce ne sono molti altri che si attribuiscono il proprio
progresso intellettuale! - Ma si tratta di fare l'anima mostruosa: come i
comprabambini, insomma! Immagini un uomo che si pianti verruche sul viso e le
coltivi.
Io dico che bisogna esser veggente, farsi veggente.
Il Poeta si fa veggente mediante un lungo, immenso e ragionato disordine di
tutti i sensi. Tutte le forme d'amore, di sofferenza, di pazzia; egli cerca se
stesso, esaurisce in sé tutti i veleni, per non conservarne che la
quintessenza. Ineffabile tortura nella quale ha bisogno di tutta la fede, di
tutta la forza sovrumana, nella quale diventa il grande infermo, il grande
criminale, il grande maledetto, - e il sommo Sapiente! - Egli giunge infatti
all'ignoto! Poiché ha coltivato la sua anima, già ricca, più di qualsiasi
altro! Egli giunge all'ignoto, e quand'anche, smarrito, finisse col perdere
l'intelligenza delle proprie visioni, le avrà pur viste! Che crepi nel suo
balzo attraverso le cose inaudite e innominabili: verranno altri orribili
lavoratori; cominceranno dagli orizzonti sui quali l'altro si è abbattuto!
[...]
Dunque il poeta è veramente un ladro di fuoco.
Ha l'incarico dell'umanità, degli animali addirittura; dovrà far sentire,
palpare, ascoltare le sue invenzioni; se ciò che riporta di laggiù ha forma,
egli dà forma; se è informe, egli dà l'informe, Trovare una lingua; - Del
resto, dato che ogni parola è idea, verrà il tempo di un linguaggio universale!
[...]
Questa lingua sarà dell'anima per l'anima, riassumerà tutto: profumi, suoni,
colori; pensiero che uncina il pensiero e che tira. Il poeta definirebbe la
quantità di ignoto che nel suo tempo si desta nell'anima universale: egli
darebbe di più - della formula del suo pensiero, della notazione della sua marcia
verso il Progresso! Enormità che si fa norma, assorbita da tutti, egli sarebbe
veramente un moltiplicatore di progresso!
Quest'avvenire sarà materialista, come lei vede; - Sempre piene di Numeri e
di Armonia, queste poesie saranno fatte per restare.
[...]
Cominciamo con la frase, l’Io è un altro, frase
che è presente in entrambe le lettere; essa sintetizza sul piano personale e
soggettivo la complessità e la molteplicità che sempre più animeranno la vita
della poesia moderna, sull’onda della scoperta schopenaueriana e in anticipo su
sviluppi che portano il nome di Nietzsche e Freud. La complessità dell’Io non è
più riconducibile agli schemi che avevano fatto la fortuna di Cartesio
rimanendo inalterati per secoli; oltre alla filosofia, sarà la letteratura a
fornire un’ampia rassegna di situazioni articolate che mostrano non tanto la
fragilità dell’Io, ma proprio la sua molteplicità: due nomi tanto per non
fermarsi, quello di Pirandello e quello di Pessoa. Già in Baudelaire questa
caratteristica era sottintesa dal momento che non riconosceva il carattere
oggettivo della realtà e che poesie come Spleen IV convivevano con altre
come Inno alla bellezza. E’ però solo con Rimbaud che questa convinzione
esce fuori dal sottosuolo, si dichiara, si mostra e piano piano si afferma.
Come non ricordare l’interrogativo di Nietzsche che si chiedeva quale IO fosse
quello che affermava “Io voglio”?
E’ di particolare interesse, anche ai fini del
presente progetto, mettere in evidenza che ciò che Rimbaud scopre attraverso lo
scavo ha a che vedere con aspetti che appartengono alla scienza della
complessità, come la concezione elaborata dal biologo Varela attraverso i suoi
studi sul carattere dell’Io.
Varela scopre la vacuità dell’Io, il sé come
persona virtuale. (…riportare i brani…). L’Io è un altro proprio perché esso
non esiste, come entità a se stante, come res e struttura che rimane tale oltre
il tempo che passa. Al contrario l’IO si costruisce e dunque nella sua
composizione-formazione-strutturazione agiscono molteplici fattori non sempre
facilmente rintracciabili (fu questo anche il senso originario de Il
preambolo ne La coscienza di Zeno). “I nuovi modi di comportarsi
e le transizioni o punteggiature tra essi corrispondono a mini-breakdown dei
quali facciamo costantemente esperienza. Qualche volta i breakdown diventano
macroscopici, come nel caso di uno shock improvviso o di un pericolo che si
manifesta inaspettatamente” (F. Varela: Know-how per l’etica, Laterza-
pg.12)
“Il primo studio dell'uomo che voglia essere poeta
è la sua propria conoscenza, intera; egli cerca la sua anima, l'indaga, la
tenta, l'impara.”
Anche qui siamo già fuori della dimensione
cartesiana; la conoscenza dell’uomo passa attraverso lo sforzo di entrare in
contatto con la propria anima. Essa non può essere qualcosa di oggettivo, ma al
contrario richiede un lavoro che coinvolge tanti aspetti della persona. Innanzitutto
l’osservatore è parte del sistema, e questa è acquisizione
epistemologica che ormai è diventato paradigma della scienza della complessità
(a partire da Heisenberg e la fisica quantistica), ma in generale conoscere è
allo stesso tempo modificare e senza questa trasformazione non c’è conoscenza.
E’ quanto viene espresso in un importante saggio di
due biologi che ritroveremo ancora più avanti. Qui mi limito a una frase
introduttiva che ci permette di avere un primo approccio all’argomento :
“Esporremo un’interpretazione che
non concepisce il conoscere come una rappresentazione del mondo là fuori, bensì
come permanente produzione di un mondo attraverso il processo stesso del
vivere” (H. Maturana-F. Varela, L’albero della conoscenza, Ed. Garzanti).
Per conoscere, dice Rimbaud “bisogna esser
veggente, farsi veggente.”
E questo è possibile “mediante un lungo, immenso
e ragionato sregolamento di tutti i sensi. Tutte le forme d'amore, di
sofferenza, di pazzia; egli cerca se stesso, esaurisce in sé tutti i veleni,
per non conservarne che la quintessenza.” Attraverso questa
indagine-ricerca-trasformazione “egli diventa il sommo Sapiente! e così egli
giunge infatti all'ignoto!”
Ci sono due hub centrali e determinanti in
questa frase.
Il processo di conoscenza della realtà e di
se stessi, un se stessi non identico e immutabile, avviene nel modo opposto a
quello proposto da Cartesio. Il filosofo-scienziato francese immaginava
l’esistenza di un mondo oggettivo (res extensa) su cui il soggetto
osservatore-conoscitore (res cogitans) esercitava la sua funzione di svelamento
e appropriazione. Per Rimbaud non è sufficiente un processo mentale, perché,
come abbiamo visto, l’osservatore è parte del sistema e dunque interagisce in
continuazione con tutti gli altri elementi che compongono il sistema. Non può
rinunciare alla ragione, così come si è costituita nel corso dei secoli, ma
essa deve intervenire su un’azione sregolata, cioè senza regole, perché solo
così potrà portare alla luce aspetti nascosti e collocati in profondità. Tutti
“i veleni” deve egli provare perché possa procedere a una distillazione
che permetta alla fine di rimanere con quei pochi e piccoli elementi che
arricchiscono la sostanza dell’essere umano. Il concetto di quintessenza è
estremamente significativo perché illustra il processo che porta alla creazione
di superbi profumi a partire da modeste piante, tutt’altro che divine.
L’altro hub,
strettamente collegato a questo, riguarda proprio l’ignoto.
L’ignoto è innanzitutto
riconducibile all’espressione leopardiana-baudelairiana di infinito, ma mentre
questa assume un valore più filosofico quella (ignoto) ha un immediato valore
epistemologico. Ha cioè a che vedere con la conoscenza: ciò che non è noto e
che diventa conosciuto. Quindi ancora una volta ciò che possiamo conoscere non
è qualcosa di finito, de-finito, ma al contrario esso esprime qualcosa che non
è qui e non è ora. Ignoto, non noto, non è qualcosa che non conosciamo per
mancanza di strumenti; esso è invece tale perché non è qui e dunque rappresenta
il futuro in termini temporali e le possibilità in termini logici. Ancora una
volta dunque la conoscenza si lega ricorsivamente alla creazione della realtà.
Un ultimo elemento nella Lettera del veggente
sottolinea l’orizzonte verso il quale opera la ricerca poetica: “Questa
lingua sarà dell'anima per l'anima, riassumerà tutto: profumi, suoni, colori;
pensiero che uncina il pensiero e che tira… Enormità che si fa norma”, frase che anticipa il percorso della conoscenza
così come emerge dall’espressione decisiva dei processi lontani
dall’equilibrio, quella cioè di margine del caos. Il percorso della conoscenza è un
viaggio verso l’infinito e non una camminata, anche molto ardua, in un
territorio dai confini segnati. Ciò che oggi ci appare normale, cioè norma,
regola, modello (l’etimologia di norma rinvia alla conoscenza) verrà
necessariamente sostituito da qualcosa che si presenta, molto o poco, diverso,
fuori dalla norma, ex-norma, enormità. E lentamente tale e-normità diventerà
norma, finché una nuova ricerca porterà alla scoperta, nella nebulosa
dell’ignoto, di elementi che si allontaneranno dalla norma per diventare col
tempo essi stessi norma. La scienza, e la cultura in generale, hanno mostrato quanto
quello evocato dal poeta francese fosse giusto e necessario: e la complessità è
il momento che ne ha mostrato gli strumenti adeguati.
E’ la fine dei valori assoluti, la morte di Dio, di
cui filosofi e poeti ci forniranno da allora una quantità significativa di
manifestazioni e potranno farlo non in base al metodo deduttivo, ma attraverso
gli stessi strumenti preconizzati da Rimbaud: vita e parole, regole e
sregolatezza, anima e corpo.
Ciò che spesso non si coglie delle parole di Rimbaud
è il loro valore epistemologico, di una conoscenza che permette di creare
realtà. Va bene servirsi di tutto ciò che attiene all’estetica per riflettere
su una letteratura di rappresentazione, espressione di una società elitaria, ma
quegli strumenti servono a poco per un tipo di letteratura che si esprime in
modo diverso in una società sempre più di massa.
Le frasi di Rimbaud, lette con i vecchi strumenti,
appaiono oniriche e fuori luogo, tutt’al più riconducibili a manifestazioni
dell’inconscio, che ancora non ha fatto la sua apparizione, e dunque possono
essere accettate solo grazie alla mediazione esterna di un nuovo sapere, non
più economico e politico, ma psicanalitico.
Quelle parole create ed esposte perché altri se ne
cibino (ricordiamoci sempre l’etimologia della parola “cultura”) tornano
indietro e vengono nuovamente rinchiuse dentro la persona che le ha prodotte.
Quelle parole invece hanno un valore creativo che prescinde dalla
bellezza, ma entra nel campo dello spessore e della profondità, riportando la
poesia al suo valore etimologico di “fare”, “creare”, “produrre”, da POIEIN.
Sembra poco, ma in realtà si tratta di un salto
epocale. Siamo talmente abituati da cinque secoli di visione cartesiana che
ci risulta difficile contestare quei paradigmi, per cui le parole sono solo
vestiti delle cose e la forma è separata dal contenuto. Certamente nel
passaggio dal meno al più complesso quei paradigmi mantengono la loro verità,
ma risultano non essere più sufficienti a farci dialogare con il mondo di cui
facciamo parte.
Rimbaud e Baudelaire hanno fornito un orizzonte al
nostro vivere e al nostro parlare; quell’orizzonte germogliava nel terreno
della poesia e da esso sono nati tutti i grandi scritti di fine ‘800 e di tutto
il ‘900. Nel momento in cui coinvolgono il vivere e la società si allarga a
includere tutti i suoi membri, il terreno si allarga a tutti i campi e a tutte
le persone. I semi non riguardano più la sola poesia, ma quell’elemento che di
essa è l’anima, cioè la parola. Non è un caso che la parola sia diventata lo
strumento maggiormente usato da tutti, al bar come su Internet o al lavoro:
purtroppo si guarda alla parola sempre in modo de-finitivo e non in-finitivo,
come il vocabolario ce la propone e come invece Rimbaud ci invita a rifuggire.
Ci si ferma al primo strato e lo si prende come qualcosa di assoluto e intorno
a questo ci formiamo e ci conformiamo: le parole hanno bisogno invece di
attenzioni, di cure, di carezze, di approfondimenti. Solo allora diventeranno
poesia. Anzi POIESIA.
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