GIOVANNI VERGA

MOLTO PIU’ DEL NATURALISMO

 

Verga è uno degli scrittori maggiormente letti nella scuola italiana, ma anche uno dei meno compresi o per lo meno un autore del quale ci si è accontentati della facciata. Secondo il costume comunista che ha dominato la critica italiana fino a ieri, la letteratura va ricondotta al messaggio che invia, per cui novelle e romanzi di Verga interpretano bene il grido di dolore del popolo, quello da cui ci si aspetta la Rivoluzione. Che poi la rivoluzione dovesse vedere come protagonista il proletariato urbano, quello delle fabbriche, che Marx aveva studiato a fondo, e che i personaggi di Verga ne fossero lontani migliaia di chilometri tutto ciò non preoccupava. Ci aveva pensato il comunista Gramsci, animatore dell’occupazione armata delle fabbriche e fondatore del Partito Comunista d’Italia, vittima del fascismo e intellettuale raffinato, a revisionare i dogmi del Maestro, introducendo il concetto di nazional-popolare: alla rivoluzione serviva molto di più trovare i punti di contatto tra il “popolo” e la storia nazionale che non rincorrere un proletariato che chissà quando sarebbe apparso.

Moralismo, linfa vitale della lotta politica ancora ai nostri giorni.

Chi non si è commosso per le condizioni di Rosso Malpelo, della Lupa, di Mazzarò, dei contadini di Libertà e per le disgrazie della famiglia, ben poco proletaria, dei Malavoglia? La confusione indotta da questo atteggiamento ideologico ha portato a non vedere le differenze tra gli “umili” manzoniani e i “vinti” verghiani, accomunati in una critica generica ai ricchi e ai potenti, che, nel contesto storico dello studio, diventava automaticamente, per una alterata proprietà transitiva, una critica alla società capitalistica. E’ questo ancora oggi il punto d’approdo e a nulla vale che Manzoni fosse un cattolico che esaltava la società borghese e che Verga fosse un conservatore, lontanissimo da afflati socialisti.

In realtà non mi interessa una polemica sui contenuti e sulle prospettive aperte dalle opere dei due autori, perché l’obbiettivo di questo blog è quello di cercare nelle pagine di alcuni scrittori un’apertura all’universo della complessità che permetta di valorizzarne la lettura oggi in un mondo così diverso da quello degli scrittori. Solo a partire da Leopardi e soprattutto grazie alla poesia moderna vediamo come la letteratura sia stata capace di anticipare il pensiero complesso, ma ciò non toglie che anche altri autori possano proiettarci verso nuovi orizzonti.

Spesso si accomunano gli scritti di Verga ai romanzi di Zola e ai canoni del naturalismo francese, ma tale accostamento ha senso solo se vogliamo mettere in evidenza l’esigenza realista che appare dichiarata da entrambi. Se andiamo un po' più in profondità allora ci accorgiamo delle distanze che permettono di valorizzare l’opera dello scrittore siciliano, senza nulla togliere all’impegno politico e civile del francese (pur di origini italiane) che raggiunse l’acme nel celebre Affaire Dreyfus con il noto “J’accuse!”.

In un’epoca in cui il confronto politico era estremamente polarizzato e in cui la cultura dava per scontato che il progresso dell’umanità sarebbe stato inevitabile grazie alle lotte del proletariato e che esso si sarebbe materializzato nelle forme di una società socialista, ebbene in quell’epoca non era difficile dare vesti scientifiche a ciò che invece era semplice ideologia. Il Naturalismo francese partiva da un presupposto che, con Hyppolite Taine, riteneva facile ricostruire lo sviluppo della società attraverso tre regole, anzi tre leggi. Come la pressione dei gas è inversamente proporzionale al loro volume, alla stessa stregua si riteneva spiegare le caratteristiche di una società attraverso lo studio di tre fattori considerati decisivi: la razza, l’ambiente e il momento storico. Non sfuggiva certamente che nel primo caso si operava con numeri, oggettivi per loro natura, e nel secondo invece con riflessioni, per loro natura molto soggettive, ma ciò era considerato come qualcosa di secondario e comunque non decisivo. Di queste approssimazioni e analogie la cultura Otto-Novecentesca è ricca e hanno permesso di considerare il marxismo una scienza e di collegarla al trionfo del totalitarismo comunista come pure presupposti darwiniani hanno sostenuto e permesso lo sterminio di ebrei.

Ciò non vuol dire che i romanzi di Zola non vadano letti, me ne guardo bene, ma voglio solo mettere in evidenza che l’impianto teorico che li sorregge tende a vanificare quanto sviluppato a livello narrativo.

Nel Naturalismo l’ideologia usa il romanzo per descrivere la realtà.

In Verga è la realtà che si serve del romanzo per fornirci di conoscenza e permetterci di crescere.

Torniamo al discorso relativo ai personaggi verghiani così come ce ne parla lo stesso autore nella Prefazione a I Malavoglia; non è un caso che lo scrittore avesse pensato a un insieme di opere collegate tra loro e a cui aveva dato il nome di “Ciclo dei vinti”. Vinti dunque non sono né gli umili né i poveri, ma tutte le categorie ai diversi gradini della scala sociale. Certo noi leggiamo solo le prime due opere, I Malavoglia e Mastro don Gesualdo, che si collocano ai livelli inferiori; ci rimangono alcune pagine che hanno come protagonista una nobildonna (La Duchessa di Leyra), mentre degli ultimi romanzi non è rimasto che il progetto e si riferisco addirittura a un Onorevole (L’onorevole Scipioni) e a quello che era il top (L’uomo di lusso).

Verga ebbe modo di portare a termine solo i due terzi di quanto programmato non per inclinazione sentimentale verso i più deboli, ma perché si accorse che mano a mano che saliva nella scala sociale i personaggi si facevano più complessi e dunque molto difficili da rappresentare nell’insieme e nel movimento: la realtà infatti non è riconducibile a fotogrammi, ma ha una predisposizione globale che non si presenta mai statica.

Semplicità della famiglia Malavoglia e dei personaggi che la accompagnano vuol dire facilità di rappresentazione. Non è un caso che il lessico ricorre spesso al dialetto, che molte riflessioni o intenzioni procedono attraverso dei proverbi e che i personaggi che vivono sono chiamati come usava (e usa ancora oggi) in certi paesi con un soprannome.

Nelle novelle accade lo stesso come sappiamo di Rosso Malpelo ( Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riescire un fior di birbone…il babbo di Malpelo aveva fatto la morte del sorcio…perciò appunto lo chiamavano mastro Misciu Bestia, ed era l'asino da basto di tutta la cava.) e del suo amico Ranocchio (Per un raffinamento di malignità sembrava aver preso a proteggere un povero ragazzetto, venuto a lavorare da poco tempo nella cava, il quale per una caduta da un ponte s'era lussato il femore, e non poteva far più il manovale. Il poveretto, quando portava il suo corbello di rena in spalla, arrancava in modo che gli avevano messo nome Ranocchio…Un operaio disse che quel ragazzo non ne avrebbe fatto osso duro a quel mestiere, e che per lavorare in una miniera, senza lasciarvi la pelle, bisognava nascervi.).

Già questa impostazione, necessaria per evitare letture ideologiche, ci dà conto di un approccio che, se non sconfina nella complessità, per lo meno ne rappresenta un presupposto e un avvicinamento, fornendo a noi, che ci accingiamo a leggere, strumenti meno folcloristici e di maniera (etnica o politica).

Verga non è Pirandello e non è Svevo e dunque non intendo fare di lui un precursore del pensiero complesso, cosa che non fu: aperto al mondo che stava cambiando sia per gli avvenimenti di politica internazionale sia per le trasformazioni tecnologiche si formò in modo tradizionale e si avvicinò, anche nelle prime opere che si vogliono scapigliate, al realismo di cui fu un portabandiera. Il positivismo e la sociologia erano i suoi punti di riferimento, non certo la filosofia tedesca e nordeuropea (da Schopenauer a Nietzsche a Kierkegaard), ma quei punti di partenza furono svolti in maniera molto personale, rispettando le proprie origini, i propri sentimenti e la propria cultura. Cercò sempre di rimanere aderente a tutto ciò che la realtà gli trasmetteva e, mentre i primi romanzi furono soprattutto una forzatura letteraria, seppur di un certo interesse, la cosiddetta produzione verista segna invece un significativo salto in avanti.

Verga capì qualcosa che lui formò e colorò alla sua maniera, ma che rimane qualcosa di importante e che fornisce un punto di riferimento ancora oggi. Verga capì, imparando dalla realtà, come si muove la società in un’epoca di transizione, prefigurando quello che da pochi decenni viene chiamata “autoorganizzazione”. Parliamo di questo concetto e poi vediamone le forme e i colori.

Verga lasciò parlare la realtà e le idee che esprime, rappresentando la cornice delle proprie opere, provengono dalla terra che gli era consustanziale; non ebbe bisogno di dotarsi di strumenti speciali e lenti d’ingrandimento nuove e originali, perché gli bastarono i cinque sensi e la ragione. Altri intellettuali avevano dato il loro contributo che rimase puramente teorico, come era stato per Vico e la sua teoria dei tre stadi, o per Comte con quella delle tre fasi. Non sto dicendo che il lavoro esclusivamente intellettuale non sia utile, sto solo riconoscendo il caso specifico di Verga che seppe cogliere e rappresentare i movimenti della realtà facendo guidare la sua mano dalla realtà stessa. Non fu il caso degli altri veristi (sia che lo fossero veramente sia che -come sosteneva Capuana - fossero solo dei bozzettisti regionali); non fu il caso dei naturalisti francesi e neppure dei romantici, per quanto grandi fossero. L’unico autore che, in qualche modo, cercò di mescolarsi al fango della realtà fu Balzac con la sua Comedie Humaine, ma lì più che il movimento si percepiscono ampi quadretti spaziali e temporali.

“Questo racconto è lo studio sincero e spassionato del come probabilmente devono nascere e svilupparsi nelle più umili condizioni, le prime irrequietudini pel benessere; e quale perturbazione debba arrecare in una famigliuola vissuta fino allora relativamente felice, la vaga bramosia dell'ignoto, l'accorgersi che non si sta bene, o che si potrebbe star meglio.

Il movente dell'attività umana che produce la fiumana del progresso è preso qui alle sue sorgenti, nelle proporzioni più modeste e materiali. Il meccanismo delle passioni che la determinano in quelle basse sfere è meno complicato, e potrà quindi osservarsi con maggior precisione. Basta lasciare al quadro le sue tinte schiette e tranquille, e il suo disegno semplice. Man mano che cotesta ricerca del meglio di cui l'uomo è travagliato cresce e si dilata, tende anche ad elevarsi, e segue il suo moto ascendente nelle classi sociali. Nei Malavoglia non è ancora che la lotta pei bisogni materiali. Soddisfatti questi, la ricerca diviene avidità di ricchezze, e si incarnerà in un tipo borghese, Mastro-don Gesualdo, incorniciato nel quadro ancora ristretto di una piccola città di provincia, ma del quale i colori cominceranno ad essere più vivaci, e il disegno a farsi più ampio e variato. Poi diventerà vanità aristocratica nella Duchessa di Leyra; e ambizione nell'Onorevole Scipioni, per arrivare all'Uomo di lusso, il quale riunisce tutte coteste bramosie, tutte coteste vanità, tutte coteste ambizioni, per comprenderle e soffrirne, se le sente nel sangue, e ne è consunto. A misura che la sfera dell'azione umana si allarga, il congegno delle passioni va complicandosi; i tipi si disegnano certamente meno originali, ma più curiosi, per la sottile influenza che esercita sui caratteri l'educazione, ed anche tutto quello che ci può essere di artificiale nella civiltà. Persino il linguaggio tende ad individualizzarsi, ad arricchirsi di tutte le mezze tinte dei mezzi sentimenti, di tutti gli artifici della parola onde dar rilievo all'idea, in un'epoca che impone come regola di buon gusto un eguale formalismo per mascherare un'uniformità di sentimenti e d'idee. ….

Il cammino fatale, incessante, spesso faticoso e febbrile che segue l'umanità per raggiungere la conquista del progresso, è grandioso nel suo risultato, visto nell'insieme, da lontano. Nella luce gloriosa che l'accompagna dileguansi le irrequietudini, le avidità, l'egoismo, tutte le passioni, tutti i vizi che si trasformano in virtù, tutte le debolezze che aiutano l'immane lavoro, tutte le contraddizioni, dal cui attrito sviluppasi la luce della verità. Il risultato umanitario copre quanto c'è di meschino negli interessi particolari che lo producono; li giustifica quasi come mezzi necessari a stimolare l'attività dell'individuo cooperante inconscio a beneficio di tutti. … Solo l'osservatore, travolto anch'esso dalla fiumana, guardandosi attorno, ha il diritto di interessarsi ai deboli che restano per via, ai fiacchi che si lasciano sorpassare dall'onda per finire più presto, ai vinti che levano le braccia disperate, e piegano il capo sotto il piede brutale dei sopravvegnenti, i vincitori d'oggi, affrettati anch'essi, avidi anch'essi d'arrivare, e che saranno sorpassati domani.

Malavoglia, Mastro-don Gesualdo, la Duchessa de Leyra, l'Onorevole Scipioni, l'Uomo di lusso sono altrettanti vinti che la corrente ha deposti sulla riva, dopo averli travolti e annegati, ciascuno colle stimate del suo peccato, che avrebbero dovuto essere lo sfolgorare della sua virtù. …Chi osserva questo spettacolo non ha il diritto di giudicarlo; è già molto se riesce a trarsi un istante fuori del campo della lotta per studiarla senza passione, e rendere la scena nettamente, coi colori adatti, tale da dare la rappresentazione della realtà com'è stata, o come avrebbe dovuto essere.” (19.1.1881)

 

Intanto la sincerità di cui parla Verga non è qualcosa di morale, ma il semplice uso dei sensi, pur con tutti i loro limiti, perché la terra e gli uomini possano mostrarsi e muoversi sulla carta come nella vita reale. Sincerità epistemologica, non morale. Verga ci fornisce da non professionista alcuni concetti che oggi sono diventati acquisiti e lo fa in anni in cui neppure Poincaré stava dubitando della fisica tradizionale e invece positivismo e marxismo dominavano per il semplicismo delle loro tesi, l’antropologia culturale muoveva i primi passi tra Inghilterra e Stati Uniti, la sociologia doveva aspettare il ‘900 per fornire solidi studi. Insomma, come accadrà in misura certo più consistente con la poesia moderna, anche Verga dà un suo contributo.

Nessuno schema precostituito, nessuna classificazione tra discipline, epoche e stadi filosofici, nessuna dialettica degli opposti tra schematiche società schiaviste, feudali, capitalistiche e fantasiose società comuniste.

Due elementi che sono sedimentati nel sapere collettivo e che trovano riscontro nell’osservazione purché lo studio sia sincero e spassionato.

Il primo riguarda la molla evolutiva: la lotta per i bisogni materiali, le irrequietudini per il benessere, la vaga bramosia dell'ignoto, l'accorgersi che non si sta bene, o che si potrebbe star meglio. Si tratta di una condizione che non è eguale e non può essere ricondotta a uno schema unitario, perché soddisfatti i bisogni materiali, la ricerca diviene avidità di ricchezze, vanità, ambizione, mentre il congegno delle passioni si complica, mettendo in gioco l’educazione, la cultura e tutti gli aspetti che sono il frutto elaborato e costruito dalla società, compreso il linguaggio che cessa di essere semplice vestito delle cose (nomina sunt consequentia rerum).

Il disegno, scrive Verga, si fa più ampio e variato; oggi diremmo complesso.

Il secondo riguarda il fatto che si tratta di momenti sociali non rigidi, ma aperti e ricchi di sostanza e prospettive; il pescatore e l’imprenditore non sono rinchiusi in uno schema, ma le loro caratteristiche e le loro azioni sono in continuo movimento, per tornare al punto di partenza, per realizzare modesti spostamenti, per giungere all’agognato obbiettivo, in una rete di percorsi che procedono in tutte le direzioni (materiali, fisiche, morali, ideologiche, religiose, sentimentali ecc.) e che non rinunciano né a tornare indietro né a proiettarsi nel futuro, precorrendo il sistema della spirale.

Insomma Verga ci dà un quadro di quella che oggi chiamiamo autorganizzazione, una spiegazione che dalla biologia è approdata a tutte le scienze, comprese quelle sociali: il cambiamento non opera per influenze esterne, ma si realizza dall’interno, seguendo un percorso che dal più semplice porta al complesso e al più complesso. Non è una scala gerarchica come lo era stata per Vico, Comte e Marx, ma un percorso che ci aiuta nella comprensione della complessità sociale.

Per quanto riguarda le forme e i colori, non c’è dubbio che la visione di Verga sia improntata al pessimismo con riferimento al destino individuale, ma il risultato è comunque qualcosa di positivo, il progresso, che il conservatore Verga riesce comunque a osservare. Non si tratta qui di esaltare Verga come un filosofo o un teorico delle scienze sociali, perché non lo è, ma come quello che oggi è diventato un punto importante nello studio delle società umane: la narrazione. Si è capito come leggi, considerate universali e assolute, abbiano cessato di aiutarci nella comprensione e costruzione della realtà. Lo si è capito nelle scienze naturali, a partire dagli sviluppi seguiti alla fisica quantistica; lo si è capito nelle scienze sociali, dove il determinismo e lo storicismo hanno fatto danni incalcolabili. Si è compreso che occorre percorrere strade completamente nuove, perché il reale si è rivelato molto più complesso di quello che si credeva e la scienza oggi si definisce non più per la sua capacità di predire il futuro grazie alla riduzione del reale a leggi universali e assolute, ma attraverso la narrazione e il confronto tra diverse narrazioni.

La narrazione, la cui importanza è stata recuperata soprattutto dalla psicologia alla fine dello scorso millennio, ha subìto a cavallo tra XX e XXI secolo un’accelerazione nelle discipline da sempre considerate scientifiche: non è solo l’interdisciplinarità a entrare in gioco, ma l’esigenza di procedere nella comprensione dei fenomeni in modo diverso da prima.

Se tradizionalmente la Scienza si definiva solo per la capacità di previsione attraverso la scoperta di leggi assolute, oggi si è compreso che la complessità del mondo comporta anche una complessità del conoscere, per cui non conta più la soluzione ma diventa determinante il problema, nel suo originario senso etimologico.

Pro-blema è “gettare avanti”, da pro-ballein: la scienza lascia il posto alle scienze e diventa decisivo lo studio in senso lato del “problema” non solo la verifica degli esperimenti. E così è importante la narrazione dei processi che sono stati realizzati e dei passi compiuti, comportando ciò non più lo scontro vero-falso tra due tesi, ma il confronto continuo tra processi, confronto reso possibile solo dalla narrazione.

La pretesa di ridurre la realtà a leggi universali ha improntato di sé la letteratura e la critica letteraria; per fortuna proprio in quegli anni c’è stata una risposta letteraria che, pur senza contrapporsi polemicamente, ha permesso la conoscenza e la creazione di realtà anticipando nel proprio campo molti dei temi caratteristici del pensiero complesso. Mentre certi artisti cercavano di forzare la realtà ai propri principi (la deriva massima si avrà con il realismo socialista) autori meno celebrati, come Verga, ci hanno fornito una lettura differente. Naturalmente, come ho scritto spesso, dipende da noi, lettori, se vogliamo far vivere questa lettura.

Concentrarci come spesso si è fatto sull’impostazione conservatrice dello scrittore, sul suo pessimismo, sulla descrizione di casi umani collocati ai livelli più bassi della scala sociale, interpretare i vinti come gli sfruttati ci ha impedito e fa sì che ci impedisca di cogliere quanto nelle sue opere può continuare a vivere in una situazione, come quella odierna, completamente cambiata.

Non è nelle mie intenzioni né nei propositi di queste pagine proporre una critica puntuale alla critica ufficiale; non si tratta né di un problema di spazio né di tempo, ma proprio non mi interessa. Devo però procedere a porre uno spunto che riconduce a un’ottica fortemente limitativa la lettura delle opere di Verga.

A questo proposito mi riferisco alla Prefazione con la quale il noto studioso dello scrittore, Romano Luperini, marxista, ha introdotto gli atti del Convegno Verga e noi, a cura di R. Castellana (Annali della Fondazione Verga, Catania 2017), tenutosi a Siena nel 2016 (https://www.laletteraturaenoi.it/index.php/interpretazione-e-noi/714-il-%C2%ABterzo-spazio%C2%BB-dei-vinti.html).

L’intervento rispecchia la differenza di senso che si intravede non tanto in Verga quanto nella letteratura stessa. Può darsi che abbia ragione Luperini quando definisce “il carattere sostanzialmente antiaccademico” del Convegno, e accettabile il suo proposito di “collocare lo scrittore siciliano nei nostri giorni e nel dibattito attuale”, ma probabilmente l’accademismo e il suo contrario ne circoscrivono la lettura, mentre l’attualizzazione richiede qualche approfondimento. Vedremo infatti come rendere attuale Verga significhi in quel caso un leggerlo esclusivamente in chiave politica, in un concetto tutto istituzionale del termine “politica”.

Si comincia con la capacità di alcuni critici “di riprendere in modi nuovi ipotesi interpretative del marxismo sociologico e dello strutturalismo e del formalismo degli anni sessanta del Novecento”, per arrivare all’affermazione, che la dice lunga, di come vengano lette in Mastro don Gesualdo “le descrizioni di ambiente alla luce del conflitto fra capitale simbolico e capitale economico”. I dubbi di Luperini su questo conflitto non mettono in discussione la chiave di lettura e sono tutti interni a quell’impostazione, più o meno marxista, che, comunque la si veda, conduce univocamente nel campo ristretto della politica istituzionale. Si chiede infatti il critico: “Siamo proprio sicuri che il conflitto fra capitale simbolico e capitale economico si risolva con la vittoria del primo sul secondo che sarebbe rivelata da un lato dalla morte e dalla sconfitta dell’arrampicatore e dall’altro dall’affare del duca di Leyra che grazie al matrimonio con Isabella può permettersi una vita di lusso e di sprechi? I dubbi di Gesualdo, osservatore impotente, ma critico, di quella vita di sperperi e di vuota cerimonialità, non sono anche quelli del lettore?”

Questa riflessione apre la porta alla critica della società borghese, perché troppo facile sarebbe sparare sull’universo vuoto dell’aristocrazia: “tutti sono dei vinti, travolti del progresso, sia gli arrampicatori sociali che puntano sul capitale economico sia, a maggior ragione, la aristocrazia cittadina. Inoltre mi pare problematico anche sostenere che Verga, mostrando la capacità di affermazione della nobiltà, e dunque del capitale simbolico, prefigurerebbe una condizione attuale.  Semmai Verga anticipa lucidamente la situazione cui stiamo assistendo in questi anni: l’azzeramento di ogni valore, non solo del mondo nobiliare e di quello patriarcale e contadino (già in crisi nei Malavoglia e in pieno disfacimento in Pane nero e poi nel Mastro) ma anche dell’individualismo borghese che pure nell’Ottocento sembrava celebrare il suo trionfo.”

Ecco dunque quella che viene chiamata attualizzazione, giustificata correttamente con il fatto che “qualsiasi operazione critica, lo voglia o no, anche la più programmaticamente neutrale, è sempre in qualche modo attualizzante” e l’attualizzazione si riduce, in vero molto modestamente, alla critica della società borghese e alla proiezione nel Sol dell’Avvenir. Prima di giungere alle sospirate conclusioni si introduce quello che, nella visione marxista, è il ruolo decisivo della massa popolare, decisivo nella trasformazione epocale della società. Citando Libertà e Quelli del colèra si fa notare come Verga non ricorra a mediazioni e riconosca le motivazioni sociali della rivolta che, senza condannare, “possono spiegarla anche se non giustificarla”. Ecco ancora l’uso di Verga in funzione antiborghese: “L’atteggiamento (di Verga) deriva infatti dal rifiuto di assumere l’ottica dei colonizzatori (piemontesi ma anche lombardi, …) e dunque anche  dei lettori borghesi a cui Verga si rivolge.” Luperini insiste: “Verga non è affatto più liberale di Villari, Franchetti e Sonnino (anzi, politicamente, dopo una prima fase di prossimità alle posizioni della Destra storica, divenne subito  un crispino illiberale e sostanzialmente antidemocratico).”  Non è l’uomo in discussione, ma la sua opera e questa diverge dall’uomo: “Nel suo decennio d’oro la forza della  scrittura verghiana è quella di un progetto letterario che finisce coll’essere anche un progetto  implicitamente politico, perché è un modo di vedere la società e di proporre una prospettiva.”

Poiché tutto è gia stato deciso e la storia, storicisticamente, non può che avere un unico sbocco, quello del Socialismo (o Comunismo) ecco che “I loro eroi (di Verga, ma anche di Zola, ndr), insomma… esprimono la stessa pericolosità sociale di un Rosso Malpelo o dei rivoltosi di Libertà; e come Rosso cercano uno spazio “altro” rispetto a quello del popolo rassegnato o dei potenti sopraffattori.” Gli strumenti sociali e le prospettive si chiariscono, infatti: “Nella sua opera Verga mostra l’arcaico e il primitivo, ne subisce, e ce ne suggerisce, il fascino e l’orrore …, ma ci mostra anche il moderno che incalza, il suo mito incantatore, le sue vittime  e il suo rovescio disumano e alienante. I suoi vinti sono sempre dei marginali, esuli dalla propria  classe sociale: … Vivono sulla frontiera fra mondi diversi senza appartenere a nessuno di essi… Sono, o diventano, dei reietti. Per questo sono pericolosi. E per questo, di fronte a loro, vacilla… la stessa autorità dello scrittore borghese.  Ci parlano di tutti gli esclusi e gli esuli che dalle periferie del mondo giungono nel nostro o che dal nostro si spingono altrove (e sono già, quest’ultimi, nostri figli). Alludono a una nuova cultura da costruire e a un rapporto sociale da reinventare a partire dall’azzeramento di ogni valore e dalle macerie della moderna civiltà occidentale e di quella arcaico-rurale del mondo contadino e patriarcale. A partire, dunque, dalla condizione di vinti. Fra l’ottica dei colonizzatori e dominatori e quella dei colonizzati e dominati rivendicano l’urgenza di un “terzo spazio”. Uno spazio in cui gli eredi  di «mastro-don» Gesualdo Motta e quelli del «povero pescatore» ‘Ntoni Malavoglia, gli esuli e i marginali dell’Occidente e quelli dell’Est e del Sud del mondo, possano incontrarsi e dialogare, senza identità precostituite da difendere, e incrociare linguaggi, costruire nuove comunità su nuovi valori. Un’utopia, si dirà. Ma forse qui sta l’attualità più vera, e nascosta, di Verga: nel prendere atto duramente di una distruzione (è il suo radicale pessimismo) e nel far intuire la possibilità di un nuovo fragile spazio fra le macerie in cui vinti ed esclusi possano trovare una voce ed esprimere i loro orizzonti di senso.

Il discorso è così concluso. E come viene concluso? Con la distruzione della civiltà occidentale, con l’unione di tutti i vinti di tutto il pianeta per un mondo nuovo. Un’utopia. Ignaro, almeno in apparenza, visto che il saggio è del 1997, di quante catastrofi e di quanti morti abbia causato L’ULTIMA UTOPIA, quella COMUNISTA, Luperini ripete il discorso che faceva nei primi anni ’70 del 1900. Libero di professare le proprie convinzioni, ma poco credibile in questa “appropriazione” dello scrittore siciliano.

Torniamo alla lettura di Verga.

Mi sono concentrato sul giudizio del più noto critico dello scrittore siciliano non per fare polemica (chi sono io in confronto a lui?), ma per sottolineare due modi diversi di avvicinarsi alla letteratura: il suo è divenuto prassi e costume nazionale, perché è stato diffuso nella scuola, e non importa chi sia lo studioso a cui i manuali fanno riferimento, perché la proposta va nella stessa direzione. La direzione che, quando coinvolge un pubblico ampio, quello dei non addetti ai lavori, si riduce a qualcosa di veramente striminzito. Negli anni ’70 del Novecento lo stesso Luperini parlava di Rivoluzione, poi ci si è accontentati del voto per i partiti di sinistra: la letteratura, ancora una volta, al servizio dell’ideologia politica. Il fine, parlare male della società, identificare la povertà come una colpa dei non poveri, invitare alla presa di coscienza contro il sistema (capitalistico o borghese), piano piano diventa il colore, la forma, il suono, cioè l’anima. Si chiama ideologia e ha permeato la società europea, italiana in modo particolare, degli ultimi decenni creando generazioni di giovani distanti anni luce dal pensiero complesso.

La proposta di Luperini è legittima; siamo nel campo dell’interpretazione e questa lascia molto spazio all’autonomia, anche se ciò significa ridurre un romanzo o delle novelle a una semplice parola d’ordine.

La mia proposta è radicalmente opposta: la letteratura ha sempre espresso la complessità della vita e del pensiero del genere umano, aprendo ai lettori sempre nuovi orizzonti, visitando sempre nuovi territori dell’animo umano, permettendo e sollecitando, dunque creando, persone più ricche, autonome, responsabili, in una parola più libere.

Il campo dell’interpretazione a livello scientifico si chiama ermeneutica e ha un punto essenziale di partenza: il testo. Mi chiedo: in quali parti del testo verghiano troviamo la condanna della civiltà occidentale, per giunta ridotta in macerie? in quali parti del testo verghiano troviamo l’invito all’utopia del nuovo spazio per vinti ed esclusi? Da nessuna parte.

Le condizioni di Rosso Malpelo e Ranocchio appartengono al passato, non solo in Sicilia; il fallimento di rivolte come in Libertà è stato ampiamente dimostrato dalla Storia; rimangono aspetti noti che appartengono all’uomo in quanto uomo ed è su questi che vale la pena insistere nella lettura di Verga.

Il cinismo, la maldicenza, l’ipocrisia, la paura, il senso di colpa, la vittima trasformata in carnefice, la pietà, l’arrivismo, e tanto altro trovano nei personaggi di Verga proprie dinamiche e uno spessore, non limitandosi l’autore a generiche descrizioni psicologiche. Ma Verga riesce ad andare oltre sviluppando comportamenti che ancora ci appartengono; per questo spostare il contorno sociale a centro della questione è un’operazione che impedisce proprio quell’attualizzazione di cui Luperini parla. Nessuno dei personaggi del mondo verghiano esiste oggi, nessuna realtà nazionale o sociale descritta da Verga è attuale, nessun comportamento è giustificabile con la collocazione sociale del personaggio. Alcune figure spiccano in modo particolare e sono quelle della Lupa e di Mazzarò; spiccano perché portano alla luce situazioni che allora apparivano estreme, e per questo sono state lette come retaggio “scapigliato” dello scrittore, ma che alla luce del mondo che ha schiuso finalmente la sua complessità cessano di apparire estreme e rientrano in quella “normalità” che non è né borghese né proletaria, ma semplicemente “umana”. Come altri personaggi, soprattutto femminili, ad esempio Nedda o la Carlotta di Gelosia, ma l’elenco sarebbe lungo e riporterebbe al punto di partenza: ossessioni e paure, volontà di potenza e sottomissione, aspirazioni e insoddisfazioni. Si tratta di un universo umano, una nebulosa di situazioni, talvolta semplicemente introdotte o accennate e spesso sviluppate, che permettono un contatto con la realtà umana. Un contatto provvisorio certo ma che, essendo privo di filtri ideologici, permette di scoperchiare il mondo portando alla luce qualcosa di più vero. Il bello di Verga è proprio questo suo atteggiamento che Capuana definì “verista”, quel “documento umano”, quel “fatto nudo e schietto” di cui parla ne “L’amante di Gramigna”. Ingenuamente era convinto, come molti, che la realtà fosse semplicemente da conoscere, che non ci fossero veli (come quello di Maja) a interporsi tra la realtà e la sua conoscenza, che bastasse il senso comune e il comune agire dei sensi. Ingenuamente. Perché poi avremmo scoperto che la realtà oggettiva non esiste, che esistono veli paratie intercapedini che non solo nascondono ma anche deformano. Sarà la grande lezione della letteratura moderna, in particolare della poesia. Verga non vi appartiene, ma proprio grazie alla sua ingenuità, a quella semplice e modesta pretesa, vi ha contribuito. Poco o tanto, ancora una volta, dipende dal lettore, cioè da noi.

 

 

 

 

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