Giacomo Leopardi |
Nasce la poesia moderna, nasce
l’IO moderno |
Mi sono chiesto in questi mesi se avesse un senso ancora parlare di Leopardi. Un poeta come tanti fino a pochi anni fa è divenuto una star da qualche tempo a questa parte. Oltre alla quantità di critici che fanno il loro dovere, c’è stato anche un film, qualche biografia e, grazie a Facebook, anche alcuni gruppi dedicati al poeta di Recanati, in particolare uno, I Leopardiani, con ben 21.000 membri. Oltre a numerosi blog di poesia e gruppi sparsi nel worldwideweb.
Dunque forse
avrei fatto meglio a dedicarmi a qualcosa d’altro o a qualcun altro, visto che decine
di critici e migliaia di appassionati sono cifre che fanno tremare vene e
polsi.
Alla fine ho
deciso di proseguire nel mio intento non tanto perché non potevo fare una
specie di manuale di letteratura senza parlare di Leopardi, ma soprattutto
perché nella mia riflessione ed elaborazione il poeta occupa un posto di primo
piano, soprattutto dal punto di vista del rapporto con la complessità.
Come riporta
il titolo che ho dato a questo articolo, con Leopardi nasce la poesia
moderna e nasce l’IO moderno. Non mi sembra poco. So bene che esistono
secoli di gestazione e ne ho parlato sia nei precedenti capitoli sia nel
precedente lavoro su I flussi della Storia, ma so bene anche che c’è
sempre un punto di svolta, il famoso margine del caos che schiude l’uovo del
nuovo nato, un uovo che nulla ha a che fare con il fenomeno della Rivoluzione, recitata
nei diversi campi dell’umana stirpe.
Poiché, a
differenza della vita, la pagina dipende dal tempo e dallo spazio, sono
costretto a iniziare da un punto non perché sia il primo in ordine cronologico
né perché sia il più importante, semplicemente perché la pagina non può
prescindere dallo spazio e dal tempo. Lo faccio sapendo che in un sistema
reticolare, e la letteratura è, come la vita, reticolare, la centralità, quello
che chiamo hub, è decisa di volta in volta dall’osservatore.
Con Leopardi
nasce la poesia moderna. In genere si
riconduce a Baudelaire e al suo Manifesto “Corrispondenze” l’inizio di
qualcosa che ha cambiato sia la letteratura sia la vita. Io penso però che il
punto di svolta si debba attribuire a Leopardi con la poesia “L’infinito”.
Tra poco vedremo il motivo. Ora occorre chiarire in che senso si debba parlare
di poesia moderna, perché troppo spesso si è ridotto la portata del fenomeno e
questo non solo in passato quando si definiva il così detto Decadentismo come
Tardo Romanticismo. L’argomento verrà ripreso, approfondito e compreso meglio
nei prossimi capitoli, qui basta rilevare che mentre la poesia tradizionale è
di rappresentazione, quella moderna è di creazione. Non che una sia migliore o
più bella dell’altra, ma neppure banalizzare la differenza.
Nella prima
il poeta ha chiaro ciò che vuole comunicare, lo sviluppo delle idee o delle sensazioni
o dei sentimenti, e cerca la forma a lui più adatta o che gli sembra migliore
(bella, efficace o altro): per fare questo deve capitalizzare i suoi studi, le
sue conoscenze ed esercitarsi in modo da migliorarsi e trovare un percorso in
cui ritenga di dare il meglio. In questa attività la forma e il contenuto, pur
restando legati, risultano separati, due universi che si parlano ma che hanno
vita distinta.
Nella poesia
di creazione invece il poeta inizia il suo scrivere essendo una persona e
termina essendo cambiato. In questo caso la forma e il contenuto tendono a
coincidere, perché le parole usate, le immagini, i suoni che il verso esprime
danno immediatamente il senso di quel determinato componimento. E’ per questo
motivo che la parafrasi, intesa come spiegazione esatta del componimento, perde
di valore e allo stesso modo perdono di valore rima, ritmi, figure retoriche e
tutti quegli aspetti che in genere studiamo a scuola sotto il nome di metrica e
dintorni.
La poesia di
rappresentazione non significa mancanza di creazione, come ho cercato di
spiegare negli articoli precedenti, ma si caratterizza per intenti e
realizzazioni diversi. L’infinito di Leopardi può essere considerato il
punto di svolta, come ho già detto. Vediamo perché.
Un idillio, solo 15 versi, diciamo 165
sillabe: veramente poco in termini di peso. Ma oggi sappiamo dell'importanza
del battito d'ali di una semplice farfalla. La poesia moderna, cioé l'arte
moderna, che io prima facevo risalire ai "Fleurs du mal" di
Baudelaire, aveva trovato il suo anticipatore, aveva prodotto il Numero Zero.
Ci sono alcuni elementi che fanno di questa
poesia il punto iniziale di un processo i cui effetti sono ancora in gran parte
da scoprire e che ha ricevuto un decisivo impulso dalle scienze dure negli
ultimi anni.
La prima parola da mettere in evidenza é “mi
fingo”del verso 7.
Fingere (v.pingere-fittile) nel senso
etimologico di costruire-dare vita. Per la prima volta, forse a insaputa dello
stesso grande poeta, la poesia (da poiein=fare) diventa strumento decisivo di
costruzione-conoscenza-trasformazione: é dunque l`inizio di una grande stagione
non ancora conclusa. La poesia esce dagli ambiti della rappresentazione,
dell`immagine, della ricerca estetica e individua nella costruzione di se
stessa, nella costruzione cioé delle parole che la informano (le danno forma),
una condizione essenziale, ed esistenziale, dell`uomo moderno. Il poeta si
siede e costruisce se stesso, trasformando sia il mondo circostante sia il suo
essere: al termine della poesia egli é diventato un`altra persona. Colui che si
siede é l`uomo Leopardi, colui che costruisce la realtá é il poeta Leopardi e
lo strumento che permette tutto questo é la poesia, cioé la parola.
Insistere sugli aspetti naturalistici-la
siepe,le fronde,il vento- o su quelli idealistici -nel pensier- per collocare i
versi in una dimensione piú neutra che riconduca questa poesia tutta
nell`ambito della tradizione, sottovaluta la novitá e i legami con quanto verrá
successivamente prodotto. D`altra parte ho sempre pensato che un testo
letterario, e la sua interpretazione, abbiano senso solo se riescono ad aprire
porte e far filtrare anche un piccolo raggio di luce.
Chi
é il soggetto di fingo? Leopardi é esplicito: io (verso 7). L`io storico e l`io
poetico coincidono direttamente, concretamente, in un lasso di tempo talmente
breve da impedire la separazione e strumentalizzazione di uno dei due aspetti.
In generale uno dei due io ha sempre teso a sopraffare l`altro, qui invece il
poeta recupera la sua condizione umana, finita, cioé storica, evidenziando il
carattere complesso del suo essere: Leopardi uomo, Leopardi poeta, ogni parte
giocando con l`altra, intrecciando segmenti, suggerendo frammenti, trasformando
aspetti.
Questo io, uomo e poeta, soggetto e allo
stesso tempo oggetto dell`indagine e della ricerca non é altro che la figura
nuova di poeta che sta sorgendo e che, dopo Baudelaire, andrá diffondendosi
caratterizzando il panorama della poesia moderna.
Si delinea quella figura speciale di
individuo che la poesia andrá costruendo per tutto l`Ottocento e il Novecento e
alla quale la moderna ricerca epistemologica attribuirá un significato
decisivo.
“É
proprio la radicale reintegrazione del punto di vista dell`osservatore nelle
sue proprie descrizioni, a diventare il criterio di riferimento per ogni
processo di comunicazione e di costruzione delle conoscenze.” (Ceruti :
Il vincolo e la possibilitá- pg.20)
Ció che la ricerca scientifica oggi,
riflettendo su se stessa, esprime come l’ultimo approdo della modernitá, e
quindi il nuovo punto di partenza (della società degli individui, o di come
vogliamo chiamare ció che stiamo vivendo a partire dalla fine dello scorso
millennio), ebbene tutto ció era giá presente nella poesia, non più godimento
estetico ma fattore di produzione del reale.
Andiamo avanti.
Leopardi parla di Infinito. Infinito é il
titolo dell`idillio, infinito é il silenzio. Non é facile, cronologicamente e
concettualmente, al poeta trovare un linguaggio adeguato ad esprimere questo
Infinito. Cosí abbiamo interminati spazi, sovrumani silenzi, profondissima
quiete, mi sovvien l`eterno, questa immensitá: il tentativo di trovare
altre parole per esprimere lo stesso concetto tradisce un`esigenza e una
difficoltá.
L`esigenza di dare voce al processo di
costruzione del reale e della conoscenza, senza cadere in vuote parole; la
difficoltá di trovare l`espressione, il suono di quella voce.
Le soluzioni trovate, ancorché non pienamente
soddisfacenti, dimostrano lo sforzo di Leopardi e la sua capacitá, rispetto
alla sua cultura, alla sua precedente produzione e al dibattito contemporaneo,
di andare oltre gli schemi e le
strutture conosciute.
L`interpretazione
che Bigongiari dá del rapporto finito-infinito in Leopardi non é solo
suggestiva, ma introduce un concetto, estremamente significativo, del processo
conoscitivo. Il prefisso in-
con valore negativo e allo stesso tempo ingressivo fornisce un`indicazione
poietica: entrare nel finito per negare il finito, cioé quel finito.
Vedremo piú avanti gli esiti ; mi piace
per ora riportare qui un breve passo tratto dal giá citato libro di Ceruti: “L`osservatore
sa di portare sempre con sé il ‘peccato originale’
della sua limitatezza. Ma l`immergersi in essa é l`unico strumento per
raggiungere l`intersoggettivitá”.
Al verso 2 Leopardi introduce una parola che
rappresenta una necessaria cerniera e un'occasione nel modo in cui il processo
di costruzione-trasformazione é fatto: orizzonte. Sempre caro fu a
Leopardi il colle e la siepe che gli sono vicini, siepe che limita lo sguardo
nella sua ansia di andare oltre quegli elementi della natura: nasce cosí l'
orizzonte, quella necessaria cerniera tra finito e infinito, tra questo e
quello, tra qua e lá, tra prima e poi.
L'orizzonte come dato concreto e finito
presente in ogni presente. L' orizzonte come dato infinito, come assente nel
presente, ma che lo in-forma, tras-formandolo. Ri-de-finizione del finito che
solo l'in-finito rende possibile.
L'immagine dell' orizzonte diventa dunque
importante elemento per chi ritiene possibile il cambiamento e la conoscenza,
reciproci e coesistenti, di sé, a partire da sé.
Un' altra parola, che troviamo nell' ultimo
verso, merita una certa attenzione: naufragare, e il naufragar m' é
dolce in questo mar. Il naufragio indica giá qualcosa che non puó essere
sottovalutato e che prepara il poeta e il lettore ad una ricerca che non é
ovvia né determinata.
Ció
che Leopardi ha costruito nei versi precedenti trova ora una direzione, o,
meglio, un' indicazione di direzione. Entrare nel finito, ci ha detto il poeta,
ma che strada prendere? Il naufragar non ce lo dice, ma ci fornisce una
premessa metodologica di grande importanza: non esiste una direzione
privilegiata, non esiste un punto di osservazione fondamentale, non esistono
passi necessari che prefigurano il futuro. É l'uomo, in carne e versi, che
cerca-conosce-crea se stesso: il poeta, in un idillio, ha sottoposto se stesso
a questo esperimento e ci ha offerto i risultati. Forse solo ora riusciamo a
capirne la portata.
Ed ecco L’infinito dove in gioco non è più la
Patria e il Mondo, ma il poeta in prima persona: in soli 15 versi emerge lui: Io,
mi, mio. Un Io che non sogna impossibili battaglie, ma prende spunto dalla
sua quotidiana concretezza: si siede davanti alla siepe e più in là c’è il
colle. Ma non basta. Aveva creduto che il passaggio dal particolare
all’universale avvenisse per le vie classiche della politica, ora scopre che è
possibile un’altra strada: dall’Io storico all’infinito, passando per il reale colle
e la reale siepe.
Il
poeta moderno è quello che usa le parole, la poesia, per portare alla luce una
realtà ignota, una sua verità, e che per questo egli non è più lo stesso al
termine della poesia, perché le parole stese sul foglio sono il frutto dello
scavo interiore. Il poeta moderno, proprio per queste caratteristiche, ha come
oggetto d’indagine solo se stesso e se talvolta si trova a esporre riferimenti
sociali, storici o comunque a lui esterni, questi sono sempre ricondotti in
chiave lirica, cioè personale. Può usare rime, figure retoriche riprese dalla
tradizione, ma non gli sono essenziali né necessarie: per questa ragione
similitudini e metafore lasciano il posto all’analogia, un qualcosa che non è
de-finito e che apre collegamenti che, pur partendo dal poeta, coinvolgono
immediatamente il lettore.
Il
testo tradizionale era chiuso: esso voleva dire soltanto quello che il poeta
metteva per scritto. Il testo moderno è invece aperto e non è circoscrivibile a
una de-finizione: la metafora è come un indovinello, ha una sola risposta,
mentre l’analogia coinvolge tanti elementi, complessi, reticolari, ricorsivi.
Leopardi
si trova a metà del guado: ogni sua poesia esprime qualcosa di preciso e
definito, ma l’insieme delle sue opere costituiscono un percorso aperto che
mostra come poesia dopo poesia il poeta sia riuscito a costruire un nuovo
Leopardi.
Con Leopardi nasce la poesia moderna. Con
Leopardi nasce anche l’IO moderno.
I due aspetti sono strettamente legati perché
l’IO moderno ha permesso la liberazione della poesia moderna allo stesso tempo
e nello stesso modo con cui la poesia moderna ha liberato l’IO moderno. Non si
voglia banalizzare questa affermazione con il riferimento all’uovo e alla
gallina, perché ragionare in termini complessi è cosa diversa dal ragionare in
termini cronologici e di logica semplice; innanzitutto c’è il principio della
ricorsività e poi la struttura lineare è sostituita da una struttura reticolare
che ha difficoltà ad essere catturata. I due fenomeni si rincorrono e si
intrecciano senza che si possa stabilire un momento zero e un preciso
generatore. Dobbiamo avere, per ora, in questi tempi, la capacità di far
coesistere due termini che si presentano legati e farli vivere (non solo
esistere) nella nostra mente evitando l’abitudine a ricercare, come unica prova
scientifica, la causa o le cause generatrici dell’effetto.
In questo Corso di Letteratura non
deterministica, ho presentato Petrarca come il poeta grazie al quale “L’IO
comincia a formarsi”; naturalmente non appare dal nulla e, oltre Agostino di
Ippona e qualche classico, vanno ricordati i primi poeti (siciliani, toscani,
umbri) e lo stesso Dante. Tra loro troviamo chi in misura minore e chi in
misura maggiore ha portato acqua al mulino, acqua di cui si è servito Petrarca
per stabilire un punto di non ritorno. Contemporaneamente avvenivano tante
altre cose che aiutarono quel processo, come il mercato, i borghesi, i
Parlamenti, scoperte, invenzioni e tanta cultura, contribuivano tutte a
valorizzare in qualche modo l’individuo e ogni soffio di riconoscimento della
persona tonificava i polmoni della libertà. Dopo Petrarca ho sottolineato il
ruolo di Tasso e poi quello di Foscolo, mentre il fenomeno si allargava a
livello planetario: la persona di cui parlava il Cristianesimo aveva trovato il
riconoscimento nelle istituzioni mondane attraverso il ruolo dell’individuo,
mentre il Romanticismo, soprattutto nordeuropeo, produceva esemplari ingenui di
quell’individuo. Tutto serve perché lentamente prenda forma quello che chiamo
l’IO moderno e che oggi, XXI secolo, è esploso come l’indiscusso protagonista
della realtà.
Abbiamo visto istituzioni affermare forme di
liberaldemocrazia, ma ciò non ha impedito l’avvento di regimi totalitari;
abbiamo visto Chiese titubare e combattere questo individuo; abbiamo visto
individui rinnegare la propria individualità e combatterla duramente in nome di
patrie, ideologie, dei. In compenso la letteratura non ha mostrato debolezze,
anzi ha fornito indicazioni anche al resto del mondo e, come vedremo, persino
la scienza della complessità ne ha subito le suggestioni.
Poesia moderna ed IO moderno procedono
strettamente ed è qui che dobbiamo analizzare il percorso di Leopardi, il primo
ad aver fornito, poco importa se coscientemente o no, una specie di modello che
era nell’aria e che, come i pollini degli alberi, si diffonderà ovunque.
Il Manifesto poetico della poesia moderna è
unanimemente considerato Corrispondenze di Baudelaire; ho cercato di
mostrare come L’infinito lo abbia preceduto, ma è giunto il momento di
vedere tutta la produzione poetica di Leopardi alla luce di quanto proposto
nell’idillio.
Molto si è detto del pessimismo leopardiano,
notandone sensibilità e incongruenze, istintivi ragionamenti e meditate
proposizioni; quasi tutti i lettori attenti di Leopardi non si sono fermati a
questo suo atteggiamento “negativo”, giungendo anche a evidenziarne l’antitesi: più il poeta parla
in modo pessimistico e più spinge il lettore ad amare la vita. Va aggiunto che
la produzione leopardiana è talmente vasta e di tale varietà che, ancora una
volta, la pretesa di concentrarla in una specie di “teoria del tutto” risulta
vana e priva di senso. Come spesso succede di fronte ai grandi poeti le singole
interpretazioni sono senz’altro vere, ma hanno l’unico difetto di non riconoscere
il tutto come qualcosa che va oltre la somma delle singole parti.
Sappiamo che le Canzoni sono apparse ad alcuni
un grande momento di poesia civile, degna di Dante e di Foscolo, permettendo la
formazione dell’appellativo “eroico”. Per molti è la filosofia
l’elemento caratteristico della poesia leopardiana (e di questo si parla anche
ne La montagna incantata di T. Mann anche se le tre misere citazioni il
grande scrittore tedesco poteva risparmiarsele), una filosofia che ricorda
molto Schopenhauer, il filosofo più amato dai grandi fisici della svolta
quantistica del ‘900 come Schrödinger e Einstein.
Poesia e filosofia sono le due grandi cornici
entro le quali stipare pensieri e versi del poeta e tendono sempre ad essere
mantenute separate, tanto che ad esempio nella lettura dei Grandi Idilli si
trascura volentieri e con estrema facilità la prima parte, quella naturalistica
e pittorica, che per l’appunto giustifica etimologicamente il termine “idillio”
(da eidon e video, dunque immagine). In genere l’approccio agli idilli si
concentra sulla parte finale, intesa come sentenza, perché non si riesce a
distaccarci dall’idea che la poesia è prima di tutto messaggio. Sembra così che
i versi naturalistici (spesso la maggior parte) siano lì come decorazione e
tutt’al più come generica e svagata similitudine: in questo modo si riporta
Leopardi nell’alveo della tradizione mimetica, giungendo a oscillare tra
componente romantica, quella che descrive la natura, e componente illuminista,
quella direttamente filosofica. Questa separazione, che ha una sua
indiscutibile base di verità, irrigidisce la costruzione del poeta, di cui si
perdono i numerosi passaggi che esistono sia all’interno della poesia sia tra i
diversi componimenti. Se prendiamo i Grandi Idilli, come La quiete dopo la
tempesta o A Silvia o Il sabato del villaggio, la parte
iniziale non è mai descrittiva ma è un dialogo tra sé e sé, non sempre compiuto
come sarà invece ad esempio in Pascoli, ma un modo di guardare fuori per
guardarsi dentro. Non deve meravigliare il fatto che il poeta si serva di
parole, immagini e situazioni anche di una certa lunghezza, ma è necessario
comprendere come queste descrizioni non sono altro che proiezioni ed espansioni
di quello che ne L’infinito erano “la siepe” e “il colle”. Qui è la
dolcezza del naufragare, mentre nei Grandi idilli è la dolcezza di un piacere
che però alla lunga si rivela “vano”. Se privilegiamo il contenuto, e cioè la
componente filosofica, ci sfugge la poesia, o meglio la poiesia e alla fine non
ci rimane che scomporre e ricomporre la poesia leopardiana come un puzzle.
Tante sono le verità che i lettori,
professionali e non, possono trovare, ma di cui abbiamo difficoltà a servirci,
verità che rimangono lì, scolpite nella pietra o nella mente, per fare bella
figura in una conversazione o per confermare-rinnegare significati acquisiti.
E’ vero, oltre a quanto detto sopra, anche
individuare differenze tra un “Leopardi eroico” e un “Leopardi idillico”, ma di
quale utilità è questa separazione? E’ vero anche che lo Zibaldone e i Pensieri
sono sterminate pagine di riflessioni di vario genere che aiutano a capire
cosa passasse per la testa del poeta e come queste perturbazioni della mente influenzassero
versi e prose: lavoro filologico non inutile, ma poco produttivo.
E’ vero, probabilmente, che Leopardi fosse
misogino, cosa per cui sarà condannato dal politicamente corretto e che
confermerà le convinzioni così dette maschiliste.
E’ vero che fosse pessimista, in senso
culturale, e cioè che l’uomo è destinato a soffrire, facendo sì che il
pessimista vi si riconosca e l’ottimista forse si senta in dovere di sfuggirlo.
E’ vero che quel pessimismo abbia avuto una
evoluzione passando da una visione negativa attribuibile alla storia a una più
essenziale, quasi metafisica, riconducibile alla natura dell’uomo.
Potrei
continuare con numerose altre informazioni, quelle che comunemente vengono passate
nelle lezioni di Letteratura Italiana, ma credo che sia chiaro il senso del mio
discorso.
La
somma di tutte quelle informazioni non ci permette di dialogare con Leopardi,
che è l’unico aspetto che possa dare un senso all’incontro e anche allo studio
della letteratura. Sempre, con Paz, in nessun modo quelle verità possono far
nascere il poeta che legge; questo, come spiegato più volte, significa rendere
il lettore più ricco e complesso.
Non
sto qui esaltando la mia verità come più vera di tutte le altre; non sto qui dicendo
che solo io ho capito il poeta di Recanati. Sto, in maniera molto più semplice,
cercando di proporre un metodo e di presentarlo attraverso l’incontro che ho
avuto con Leopardi nel corso della mia esistenza.
Spesso
ci si muove di fronte a un autore come se fossimo degli osservatori esterni,
che ricercano una oggettività che di fatto non esiste. Così in genere si parla
di fasi di un autore, come se l’ultima produzione fosse il punto di arrivo
dello stesso e, se non proprio l’ultima, almeno quella che la critica ritiene
come il punto più alto.
Alla
luce dei nuovi elementi introdotti dalla complessità, non bisogna
dimenticare il ruolo dell’osservatore che rientra pienamente nel fenomeno
osservato; egualmente non bisogna dimenticare l’impossibilità di studiare un
fenomeno in modo statico, perché questo ci obbliga a una riduzione dello
stesso; ancora, che il tutto è maggiore della somma delle parti e che la
relazione tra le parti è sempre reticolare e ricorsiva. In particolare la
creazione, anche della conoscenza, avviene per continuità e rottura, a spirale,
tornando indietro, metabolizzando e ripartendo.
Ho
spiegato perché L’infinito di Leopardi rappresenta il punto di svolta nella
formazione della poesia moderna: dalla siepe leopardiana ai limoni di Montale il
passo è breve.
E’
giunto il momento di spiegare perché allo stesso tempo nasce l’IO moderno.
La poesia di Leopardi non è “poesia della natura”, non è “poesia della
ragione”, non è “poesia del piacere”, non è “poesia del pessimismo”: essa è
“poesia di Leopardi”, cioè “creazione di Leopardi”, creazione dell’IO e questo
IO è quello con cui ancora oggi siamo costretti a fare i conti.
Ci
furono delle incertezze, all’inizio della sua attività, ma questo è normale, è
la vita. Gli eventi che ci impegnano nella nostra adolescenza sono
difficilmente spiegabili sul momento e sono gettati da qualche divinità come
nel gioco dei dadi: non tutto è casuale ma i flussi potranno essere
riconosciuti (almeno in parte) solo dopo. E così Leopardi cominciò a studiare e
a scrivere, a studiare molto (i famosi sette anni di studio matto e
disperatissimo) e a scrivere molto. Era il prodotto del Caso, del suo tempo,
dei suoi luoghi, della sua famiglia, della sua indole, e anche di quell’IO che
dalla sintesi di tutti questi elementi aveva cominciato a prendere forma.
Prendiamo
i primi Canti, quelli che vengono chiamati Canzoni civili e hanno animato la
lettura “eroica” del poeta.
In
queste Canzoni Leopardi si concentra soprattutto sul destino dell’Italia,
ridotta in condizioni tristissime, perché ha rinunciato alla gloria del passato
e si è data interamente allo straniero che, in confronto, è un barbaro: “Oh
venturose e care e benedette L'antiche età, che a morte Per la patria correan
le genti a squadre” (All’Italia); “O scopritor famoso, Segui; risveglia
i morti, Poi che dormono i vivi; arma le spente Lingue de' prischi eroi; tanto
che in fine Questo secol di fango o vita agogni E sorga ad atti illustri, o si
vergogni.” (Ad Angelo Mai); “In
peggio Precipitano i tempi; e mal s'affida A putridi nepoti L'onor d'egregie
menti e la suprema De' miseri vendetta.” (Bruto Minore).
Il
tono è aulico, il linguaggio mostra una sicurezza e una forza notevoli, il tema
ricorre in tutte queste poesie e risulta espresso in forme omogenee anche
quando l’occasione
appare molto più modesta e prosaica, come nelle poesie “Nelle nozze della
sorella Paolina” e “A un vincitore del pallone”. E’ chiara
l’influenza di Foscolo, soprattutto del
poeta de I sepolcri, con la differenza che Leopardi scrive in età
giovanile mentre Foscolo aveva scritto il Carme in età matura e questo farà lo
scarto. Come ogni giovane, Leopardi si sente in dovere di rimediare ai mali del
mondo dalla sua collocazione spazio-temporale e non può farlo senza sentirsi
protagonista. Lo stesso aveva fatto Foscolo con il suo alter-ego Jacopo Ortis,
costretto al suicidio; Leopardi fornisce chiare indicazioni, facendo riferimento
al Foscolo de I sepolcri, ma rispetto a questo è parte del progetto.
Non
è solo la poesia, la storia del mondo classico e soprattutto dei Greci, la
cultura come fonte d’ispirazione; non è sufficiente la denuncia dei mali di
quella parte di mondo che si chiama Italia, perché è necessario essere
protagonista degli eventi che permetteranno il superamento di quei mali. Ed è
così che Leopardi non si tira indietro:
“Nessun
pugna per te? non ti difende nessun de' tuoi? L'armi, qua l'armi: io solo
Combatterò, procomberò sol io.” (All’Italia).
A me questi versi hanno sempre fatto
sorridere, ma alla fine ho compreso, ripensando anche alla mia gioventù e alle
generazioni che l’hanno preceduta o seguita, che è stato spesso un passaggio
obbligato. Tra il 1818 e il 1822 Leopardi intreccia i primi Idilli con le
ultime Canzoni civili e L’infinito viene subito dopo All’Italia:
non è confusione artistica, almeno nel senso comune del termine, bensì
elaborazione di un percorso che deve ancora concretizzarsi e soprattutto
consolidarsi. La stesura de L’infinito ripulisce, anche se non
completamente, il campo dalle velleità di un impegno che ne limiterebbe
orizzonti e prospettive. Il 1822 è l’anno in cui lascia Recanati e si apre al
mondo, conoscendo persone, luoghi, costumi e realizzando la stagione più
interessante della sua attività poetica. Come dimenticare che quel famoso
Cardinale a cui aveva dedicato una Canzone per aver riportato alla luce i libri
di Cicerone “De Republica”, Angelo Mai, verrà successivamente chiamato
con l’espressione poco nobile di “coglione”? L’incontro con il mondo, l’affetto
per il Giordani, la cultura assimilata nella solitudine del “paterno ostello”, il
continuo studio e soprattutto la continua riflessione lo porteranno in una
direzione che segnerà un’epoca.
Riflessione, meditazione, scavo non sono
termini che si riferiscono a un’indagine esclusivamente filosofica, ma qualcosa
che, non rinunciando ad approfondire il pensiero di classici e moderni,
privilegia il terreno della poesia. E’ così che possiamo entrare in contatto
con Leopardi, perché la filosofia, come dimostrerà Heidegger, si perde o si
insabbia se non viene rivitalizzata dalla poesia. E’ così che la poesia si fa
poiesia e accanto alla poesia moderna nasce l’IO moderno.
Ho già fatto notare come L’infinito dica
50 anni prima di Baudelaire ciò che sarà il futuro della poesia (e non solo) e
che il finito diventa il necessario punto di partenza per andare oltre, laddove
l’infinito non è né Dio né un concetto astratto, ma introduce le possibilità
dell’uomo. In questo senso possiamo comprenderlo meglio dopo esserci
familiarizzati con il “Superuomo” di Nietzsche, ma soprattutto dopo aver fatto
i conti con quanto elaborato dalla fisica quantistica: nessuna pretesa
metafisica, partire dagli osservabili (Heisenberg), comprendere che il mondo
non è oggettivo ma insieme di relazioni e che la conoscenza è un continuo
acquisire le dinamiche di queste relazioni, in un processo che ha senso se
supera i limiti e i confini di una realtà finita e oggettiva.
Leopardi non ha scoperto i quanti né dato
vita alla fisica quantistica; non lo ha fatto nessuno dei poeti moderni di cui
parlerò, ma tutti hanno anticipato aspetti importanti che la scienza
sistematizzerà secondo i propri criteri e seguendo il proprio metodo. Certo
Leopardi non è Baudelaire che saprà meglio collocare quella prospettiva, ma
l’unico modo per dialogare col poeta di Recanati non è ricercarne le matrici
culturali precedenti (classicismo, illuminismo, romanticismo), ma ritrovare nel
suo sviluppo poetico quegli aspetti di oggi con cui ognuno di noi deve fare i
conti. Questi aspetti non sono filosofici, ma poetici.
Non potendo analizzare tutti i così detti
Grandi Idilli, parlerò di quello che mi pare riassuma il senso di questa nuova
fase leopardiana, La quiete dopo la tempesta.
Questo Idillio va letto, come ho spiegato
sopra, alla luce della costruzione del poeta, cioè dell’uomo Leopardi, in modo
ricorsivo e a spirale, tornando indietro, metabolizzando e andando avanti. Del
suo passato Leopardi non rinnega nulla, ma si fonda su quanto elaborato ne L’infinito
e pone le basi per ulteriori sviluppi. La siepe e il colle sono il punto di
partenza per l’IO che, seduto, cerca di entrare nell’infinito, entra dentro il
finito (in- ingressivo) per negarlo (in- negativo). Questo metodo lo ritroviamo
nell’idillio. L’immagine da cui il poeta parte è più elaborata rispetto a
quella de L’infinito: un paese che ritorna all’attività dopo una forte
pioggia insieme a tutti gli elementi naturali presenti, gli uccelli, la
gallina, il fiume, il cielo e poi gli uomini che riprendono il lavoro,
l’erbaiuol, la femminetta, l’artigiano, la famiglia (la servitù). Si tratta di
una realtà molto materiale e dai confini precisi, una realtà finita. Leopardi
non si ferma qui, ma questo è il suo punto di partenza, finito, dentro il quale
entrare e per negarne i limiti: non è una similitudine, ma neppure una
metafora, bensì ci troviamo nel terreno che caratterizzerà tutta la poesia
moderna, l’analogia. La prima strofa è naturalistica, la seconda mantiene i
piedi in quell’ambiente e allo stesso tempo se ne stacca. La terza strofa ha
rotto i limiti e si è inoltrata in un terreno che non ha barriere.
Occorre subito una precisazione: mentre il
carattere materiale ha dei confini (una scarpa è di cuoio e serve per essere
calzata), solo la realtà spirituale non ha confini, fines, che ne limitano lo
sviluppo. La terza strofa si muove in questa realtà e grazie ad essa si
esprime. Non è importante che ne L’infinito Leopardi approdasse a “il
naufragar m’è dolce in questo mare”, mentre qui la dolcezza (diletto) è “uscir
di pena” e beatitudine è “la morte”.
E’ verità il suo pessimismo e ancora più
verità il carattere cosmico del suo pessimismo. Come successe a Foscolo con il
suo romanzo, per cui Ortis muore ma Foscolo vive, lo stesso avviene in questo
caso dove Leopardi non ha bisogno di servirsi della mediazione di un
personaggio inventato, perché il soggetto e l’oggetto dello scavo poietico è
l’IO, cioè Leopardi stesso.
A questo punto quell’IO si trova a dover
scegliere una delle due strade che gli si presentano davanti, morire o vivere, e
sceglie la vita. Il suo pessimismo non scompare, mentre lo scavo raggiunge,
grazie alla poesia, gli abissi più intimi della sua esistenza. La quiete
dopo la tempesta non è l’unica poesia, nella quale cerca di fare i conti
con la propria esperienza personale; A Silvia, Il sabato del villaggio, Il
passero solitario, ma anche Le ricordanze e il Canto notturno di
un pastore errante dell’Asia sono poesie che portano avanti quel percorso,
ormai avviato, di costruzione della propria persona. Esse attenuano la volontà
di morte espressa così lucidamente ma anche così astrattamente sia nella Quiete
dopo la tempesta sia nel discorso finale di Tristano nell’Operetta Morale “Dialogo
tra Tristano e un amico”. Di fronte al proclama di questi due passi sta un
tortuoso, apparentemente anodino, percorso nella realtà delle parole che
costruiscono l’argine e rappresentano il vaccino a quella dichiarazione
stentorea e impressionante. L’IO di Leopardi si costruisce in questa duplice veste
e si manifesta nella composizione tra dinamiche storiche, familiari, personali
come un IO che riesce a dare un senso alla propria vita e lo fa attraverso le
parole, attraverso la poesia. La staticità non conviene a Leopardi; continua è
la sua trasformazione evolutiva e i processi sono resi possibili da un terreno
di coltura che lo stesso poeta ha provveduto a preparare.
E infatti a dispetto dei discorsi sul “meglio
morire” non solo sceglie la vita, ma si innamora. Fanny Targioni Tozzetti,
questo è il suo nome: sono cose che succedono, a tutti, prima o poi, e doveva
succedere anche al nostro poeta. Si trattò di un amore non corrisposto, ma che
seppe infondere in Leopardi un flusso vitale che neanche lui si sarebbe
aspettato. Non rinunciò a comporre dialoghi e poesie pessimistiche, perché
quello era quanto aveva sedimentato negli anni precedenti, ma questa energia
vitale fece sì che Leopardi potesse fare un salto e arricchire la propria
persona. Le poesie che si riferiscono al suo innamoramento sono note come “Il
ciclo di Aspasia” e nella maggior parte proseguono quella visione pessimistica,
“cosmica” come si suole dire, che non lo abbandonerà e che prende sempre più
una forma ricca e profonda, articolata e complessa. C’è però, nel così detto
Ciclo di Aspasia, una poesia che sembrerebbe uscire dallo schema scolastico e
che viene dunque presentata come un’eccezione (che ovviamente confermerebbe la
regola).
In termini complessi questo ragionamento non
funziona. Le poesie del Ciclo esprimono diversi aspetti della riflessione del
poeta, ora spingono sulla morte, ora sul vaneggiamento, ora sul vagheggiamento,
ora sull’armonia e l’adorazione: ogni verso si serve della parola per
percorrere un nuovo filamento di questo periodo. Una poesia però permette al
poeta di fare quel salto e lo fa senza rinnegare tutto il resto ma collocandolo
in una più adeguata relazione: sto parlando del Pensiero dominante.
Senza Il pensiero dominante non sarebbe pensabile La ginestra,
cioè il testamento umano e poetico di Leopardi.
Trovo Il pensiero
dominante di una ricchezza tale che meriterebbe uno spazio autonomo: credo
che poche siano le poesie (raccolta di parole) che riescono a entrare dentro
l’amore con questa potenza di cui si sente il solco, ruvido certo e incrostato,
ma profondo. Un solco che sembra una fonte, da cui prorompono parole che
vengono proiettate in alto, sempre più in alto. Di certo questa poesia seppe
dare un senso agli ultimi anni della sua vita: non l’amore per Aspasia, ma le
parole che ne certificavano la grandezza. Non le parole della morte, grandi ma
comuni, dei tre componimenti successivi.
L’amore fu e
morì; le parole d’amore furono e restarono.
E’ qui che si
capisce l’importanza della parola e il suo essere realtà. La morte di
quell’amore senza lo scavo effettuato dalla poesia sarebbe stato uno dei tanti
eventi della vita e, visto il terreno fortemente pessimistico in cui era
vissuto Leopardi, avrebbe facilmente scatenato un ulteriore ripiegamento. Ma
ciò non avviene e non avviene perché di quell’amore non rimane solo una triste
e negativa conclusione, ma anche una sapiente distillazione che va oltre la
persona dell’amata.
Se
pensiamo a come oggi la maggior parte delle persone che parla d’amore si limita
a dire ”ti amo” “amore mio” “ti amo per sempre” e aggiunge qualche riferimento
naturale, come la rosa, o sensuale, come la passione, ebbene Leopardi è
riuscito ad andare molto ma molto oltre. Quando il poeta scrive che
l’amore è l’elemento “solo per cui
talvolta, / non alla gente stolta, /al cor non vile /la vita della morte è più
gentile” non è solo una generica
dichiarazione, proprio perché sostanziata da tutti gli altri versi, e ha il
pregio di dedicare la poesia all’amore e non alla donna amata, ma non perché
non è stato contraccambiato bensì perché la donna amata appartiene alla
dimensione materiale, che ha solo limiti e confini, mentre l’amore è la
caratteristica spirituale, che va oltre il finito.
Qui di
seguito alcuni tra i versi più importanti della poesia.
Dolcissimo,
possente
dominator di
mia profonda mente;
terribile,
ma caro
dono del
ciel;
Ratto
d'intorno intorno al par del lampo
gli altri
pensieri miei
tutti si
dileguàr. Siccome torre
in solitario
campo,
tu stai
solo, gigante, in mezzo a lei.
quasi
intender non posso
come d'altri
desiri,
fuor ch'a te
somiglianti, altri sospiri.
A quello
onde tu movi,
quale
affetto non cede?
anzi qual
altro affetto
se non
quell'uno intra i mortali ha sede?
Pregio non
ha, non ha ragion la vita
se non per
lui, per lui ch'all'uomo è tutto;
sola
discolpa al fato,
che noi
mortali in terra
pose a tanto
patir senz'altro frutto;
solo per cui
talvolta,
non alla
gente stolta, al cor non vile
la vita
della morte è più gentile.
Per còr le
gioie tue, dolce pensiero,
provar gli
umani affanni,
e sostener
molt'anni
questa vita
mortal, fu non indegno;
ch'a vivi
segni dentro l'alma io sento
che in
perpetuo signor dato mi sei.
Bella qual
sogno,
angelica
sembianza,
nella
terrena stanza,
nell'alte
vie dell'universo intero,
che chiedo
io mai, che spero
altro che
gli occhi tuoi veder più vago?
altro più
dolce aver che il tuo pensiero?
Avendo scritto che l’amore è l’elemento “solo per cui talvolta, / non alla gente
stolta, /al cor non vile /la vita della morte è più gentile.” Leopardi non solo ha scelto tra la vita e
la morte, ma ha anche posto le premesse per il passaggio successivo, un
passaggio che ne arricchirà la persona e gli permetterà di dare un senso, di
grande spessore, alla sua esistenza.
Questo passaggio ha un nome: La ginestra.
La ginestra fu scritta cinque anni dopo Il pensiero dominante e ben poco prima
del suo distacco terreno.
Didatticamente non è difficile parlare de La
ginestra: dal pessimismo cosmico senza mediazioni al pessimismo cosmico
addolcito dall’amore per una donna al pessimismo cosmico, non negato, ma
riscattato dalla solidarietà.
Qui però voglio parlare di qualche parola-verso
che per me ha il valore di creazione, nel senso già indicato ne L’infinito
e nel senso che poco dopo prenderà la poesia, cosiddetta moderna.
Leopardi-Ginestra si coniuga in questo
componimento con Leopardi-Dio: il creato e il creatore, l’esile fiore e
l’infinito, con la coscienza che gli uomini preferirono il buio alla luce.
Storicizzare i versi, ritrovarne le matrici filosofiche, esaltarne i grandiosi
riferimenti letterari non ci aiuta a penetrare e farci penetrare. Se L’infinito
individua la cornice della poesia moderna, La ginestra straborda ed
eccede da tutti i lati: il filo conduttore è facile da seguire, la parafrasi
non è difficile (nonostante la lunghezza dei periodi), i concetti non sono
molto diversi da quelli che costituiscono la weltanschaung leopardiana.
Eppure…eppure…dobbiamo avere la capacità di farci naufragare e di uscire dalla
nave e dalla rotta che ci sono state offerte. Solo così dolce e poietico sarà
il naufragar.
Sovente in queste rive,
Che, desolate, a bruno
Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
Seggo la
notte;
Il Vesuvio, la lava, i fiori, le formiche, le
mele, il serpente, il poeta che siede ed osserva, oltre il colle e la siepe, e
scopre il nulla eterno e irride alle magnifiche sorti e progressive, e vede lo stolto
e il suo fetido orgoglio, e vede il dolore che scaturisce inevitabile e invita
alla solidarietà nel dolore e sente la morte avvicinarsi e siede su quel
terreno indurito e sa che la sua vita e la sua poesia hanno avuto un senso.
Scolpisce i comandamenti su quella lava e prende le forme della ginestra,
pronto a chinare il capo e lascia un testamento, che non sta solo nel sapere,
ma anche nel sentire, nel costruire su basi solide e non può esservi
costruzione sulla menzogna: questo vale per i popoli, gli stati, le civiltà, ma
questo vale –soprattutto- per gli uomini. I singoli individui. E’ così che
Leopardi-Ginestra azzera il tutto e riparte: ma è solo e la poesia, esplodendo,
lancia semi dappertutto, che continuano a produrre la vita in cui siamo immersi.
Tuoi cespi solitari intorno spargi,
Odorata ginestra,
Contenta dei
deserti.
……
e quasi
I danni altrui commiserando, al cielo
Di dolcissimo odor mandi un profumo,
Che il
deserto consola.
……
E tu, lenta ginestra,
Che di selve odorate
Queste campagne dispogliate adorni,
In fondo Giovanni aveva già detto tutto: “e
gli uomini preferirono il buio alla luce”, ma la poesia entra in profondità
e ci fornisce i colori di quella sapienza antica. Ancora oggi gli uomini
preferiscono il buio alla luce, ma non è più la luce religiosa, bensì la luce
che dalla ginestra porta, attraverso tutta la poesia moderna, alla costruzione
di tutti quei filamenti che compongono gli uomini di oggi. Ed ecco che la
ginestra dialoga con i limoni e con il croco, nella grandezza della creazione
che è grande perché non rinuncia alla sua fragilità.
Fare i conti con se stessi, oggi come allora.
Così fatti pensieri
Quando fien, come fur, palesi al volgo,
E quell'orror che primo
Contra l'empia natura
Strinse i mortali in social catena,
Fia ricondotto in parte
Da verace
saper, l'onesto e il retto
Conversar cittadino,
E giustizia
e pietade, altra radice
Avranno allor che non superbe fole,
Ove fondata
probità del volgo
Così star suole in piede
Quale star può quel ch'ha in error la sede.
Quante
parole, quante immagini, quanti pensieri: perché non avere la pazienza, e il
coraggio, di entrare dentro ognuno di questi? Perché non cercare di scavare
dentro di noi quanto di “magnanimo, astuto o folle, generoso ed alto, stolto, di
nobil natura “ ci caratterizza?
La ginestra
segna il limite di quello scavo che Bigongiari
chiama “meditazione assisa”, in cui l’Io poetico ha bisogno di riscoprire la
propria umanità. Da questo momento in poi sarà l’umanità, cioè l’insieme degli
uomini nella loro individualità, che dovrà scoprire il proprio Io poetico. E’
ciò che avverrà con la poesia moderna e, in forme diverse, ciò che ci troviamo
a dover costruire oggi, al tramonto della poesia moderna stessa.
Vorrei
concludere con alcune riflessioni che, pur riprendendo quanto ex-plicato fin
qui, ci aiutino nell’individuazione di quell’orizzonte di cui parla Leopardi
facilitando il nostro cammino.
orizzonte
La parola
“orizzonte” non è termine anodino o poetico nel senso che spesso si dà a questa
parola coniugata tra l’elemento naturale e l’indefinito: si tratta di una
parola “poietica” cioè una parola capace di trasformare e creare la nostra
persona. Non è certo un caso, al di là di possibili e non certe letture, che
quella parola assuma un valore centrale nella filosofia di Gadamer e negli
snodi attuali della complessità.
Prendere
insieme una visione è tipico dell’orizzonte. Eccoci dunque al concetto di
orizzonte così come lo sviluppa H. G. Gadamer in Verità e metodo,
concetto che, pur da un altro punto di vista, fornisce una prospettiva ancora
più profonda a quanto sinora messo in evidenza.
Il filosofo tedesco parte dal concetto di
situazione:
“La coscienza della determinazione storica
è anzitutto coscienza della situazione ermeneutica. La presa di coscienza di
una situazione, però, è sempre un compito carico di una peculiare difficoltà.
Il concetto di situazione implica infatti, come sua caratteristica essenziale,
che essa non è qualcosa a cui ci si trovi di fronte e di cui si possa avere una
conoscenza obbiettiva. La situazione è qualcosa dentro cui stiamo, nella quale
ci troviamo già sempre ad essere, e la chiarificazione di essa è un compito che
non si conclude mai. Ciò vale anche per la situazione ermeneutica, cioè per la
situazione in cui ci troviamo nei confronti del dato storico trasmesso, e che
abbiamo da comprendere. Anche la chiarificazione di questa situazione, cioè la
riflessione sulla storia degli effetti (il titolo del paragrafo è Il
principio della Wirkungsgeschichte,ndr), non è qualcosa che si possa
concludere; tale inconcludibilità non è però un difetto della riflessione, ma è
legata alla stessa essenza dell’essere storico che noi siamo.( Gadamer Hans
Georg (1983), Verità e metodo, RCS,
Milano: p. 352.)
Il concetto
di situazione, il situarsi cioè, il trovarsi in un sito, risulta strettamente
connesso con quello di orizzonte(Oρίζειν in greco vale proprio porre, segnare un limite.), dunque il porre confini; e questa relazione si presenta
di particolare significato:
“Ogni presente finito ha dei confini. Il
concetto di situazione si può definire proprio in base al fatto che la
situazione rappresenta un punto di vista che limita le possibilità di visione.
Al concetto di situazione è legato quindi essenzialmente quello di orizzonte.
Orizzonte è quel cerchio che abbraccia e comprende tutto ciò che è visibile da
un certo punto. Applicando il concetto al pensiero, noi siamo usi parlare di
limitatezza di orizzonte, possibile allargamento di orizzonte, apertura di
nuovi orizzonti, ecc. Il linguaggio filosofico, a partire da Nietzsche e
Husserl, ha adoperato in particolare questo termine per indicare il fatto che
il pensiero è legato alla sua determinatezza finita e per sottolineare la
gradualità di ogni allargamento della prospettiva. Chi non ha un orizzonte è un
uomo che non vede abbastanza lontano e perciò sopravvaluta ciò che gli sta più
vicino. Avere un orizzonte significa, invece, non essere limitato a ciò che è
più vicino, ma saper vedere al di là di questo. Chi ha un orizzonte sa valutare
correttamente all’interno di esso il significato di ogni cosa secondo la
prossimità o lontananza, secondo le dimensioni grandi o piccole.” ( Gadamer Hans
Georg (1983), Verità e metodo, RCS,
Milano: p. 353.)
La poesia di Leopardi si afferma come “qualcosa dentro
cui stiamo”, qualcosa dentro cui il poeta decide di stare sempre e “la
chiarificazione di essa è un compito che non si conclude mai”, qualcosa che
il poeta sa di continuare e sa che non si concluderà mai. L’orizzonte di
Leopardi non è quel termine naturale o metageografico che fu da Dante a Marino,
ma la prospettiva con cui collocarsi nel mondo e guardarlo per andare oltre ciò
che si presenta come contingente: “Avere un orizzonte significa, invece, non
essere limitato a ciò che è più vicino, ma saper vedere al di là di questo.”
Gran parte delle acquisizioni epistemologiche
contemporanee farà riferimento a questi concetti.
Non solo, ma c’è dell’altro.
“Ogni visione è parziale. Non esiste un modo di vedere la
realtà che non dipenda dalla prospettiva. Non c’è un punto di vista assoluto,
universale. I punti di vista tuttavia comunicano, i saperi sono in dialogo fra
loro e con la realtà, nel dialogo si modificano, si arricchiscono, convergono,
la nostra comprensione della realtà si approfondisce…Il nostro discorso sulla
realtà è esso stesso parte della realtà. Di relazioni è fatto il nostro io, le
nostre società, la nostra vita culturale, spirituale e politica.” (C. Rovelli: Helgoland, Adelphi 2020).
memoria
Un altro aspetto della poesia leopardiana va ricordato ed
è il ruolo che la memoria assume nel suo processo evolutivo. Molti hanno
parlato della poetica della memoria leopardiana e lo hanno fatto,
correttamente, alla luce degli strumenti e dei filtri di carattere
epistemologico in loro possesso. Solo da un paio di decenni le neuroscienze hanno
fatto progressi precedentemente inimmaginabili e una delle scoperte più
importanti riguarda proprio la memoria. Secondo gli sviluppi scientifici in
questo campo la memoria non è più, come si credeva, un cassetto in cui riporre
volti ed eventi, da tirar fuori, integri e forse impolverati, successivamente;
la memoria è infatti qualcosa di vivo e in continuo movimento, viene protetta e
allo stesso tempo si presenta sempre diversa sia per effetto del tempo sia per
effetto di nuovi punti di vista e filtri di cui ci siamo dotati.
Già Sant’Agostino aveva considerato la memoria uno dei
tre componenti che caratterizzano l’anima, ma solo alla fine del secolo scorso
si è compreso il carattere evolutivo della stessa memoria grazie agli studi di
Ramachadran, Schacter, Damasio e altri.
Un limite nella presentazione tradizionale della poetica
della memoria leopardiana è ricondurla a una presa di posizione filosofica: la
memoria come nostalgia e dunque come rimpianto e negazione del presente, per
cui la giovinezza (dell’individuo e della storia) apre le porte alla speranza,
mentre il mondo adulto rappresenta la presa di coscienza della realtà “reale”,
completamente disincantata: “all’apparir del vero tu misera sparisti”.
Sopra ho scritto che questa analisi è stata fatta correttamente, perché non si
avevano altri strumenti, ma oggi possiamo rileggere in modo diverso l’evoluzione
poetica leopardiana in termini di memoria. Se la memoria è soltanto una serie
di foto in un cassetto è evidente che i riferimenti al passato hanno solo la
funzione di rimpianto condito di nostalgia e malinconia, il tutto più o meno
reso denso da una riflessione culturale. La giovinezza, Silvia, Nerina, il sabato
diventano tutti momenti di un processo che porta alla presa di coscienza della
naturale evoluzione della storia, individuale e collettiva: in un certo senso è
ancora la visione rousseauiana dell’uomo che nasce buono, ma che la società
rende cattivo. La giovinezza riempie di illusioni che poi si svelano per quello
che sono realmente, e così le epoche antiche sono ricche di valori ed energia
che ai moderni mancano.
Non manca a Leopardi questa interpretazione, ma a partire
dagli Idilli la memoria cessa di essere un semplice aprire il cassetto ed è qui
che le scoperte recenti delle neuroscienze ci aiutano a meglio dialogare con il
poeta. La poesia moderna imporrà una sua versione della memoria molto prossima
a quella della scienza della complessità e lo farà in maniera straordinaria con
Pascoli, Montale, Proust: la poesia leopardiana, quasi cento anni prima, ne
rappresenta i prodromi positivi e lo fa con gli strumenti personali e
collettivi coerenti col contesto.
Non c’è rimpianto né malinconia né nostalgia, ma una
presa di coscienza sempre più forte e formata che permette a Leopardi di
arricchirsi, pur in un contesto di continuo peggioramento fisico.
E’ il ricordo del villaggio con la sua brulicante
attività che permette a Leopardi di fare un salto nel suo porsi nel mondo: è la
Natura responsabile dei mali del mondo, ma l’uomo può recuperare quell’energia
che fu alla base di illusioni e che ora può trasformarsi in dignitoso vivere.
Nessun eroismo, ma solo (e non è poco) dignità.
E’ così che il ricordo dell’amore per Fanny Targioni
Tozzetti va oltre l’episodio (non felice) senza ricorrere al sempre vigente
rimpianto o alla sempre vigente rabbia. Quel ricordo diventa immortale inno al
sentimento di amore, alla sua capacità di modellare in senso positivo la persona
rendendola più ricca e profonda. Al contrario del comune (ancora oggi) vivere
l’amore, per cui un fallimento porta le persone a non credere più nell’amore,
Leopardi ha distillato la quintessenza della sua esperienza fallimentare e ha
dichiarato il valore dell’amore: il pessimista cosmico ha toccato un territorio
a cui ancora oggi quasi nessuno riesce ad avvicinarsi.
Non è solo la capacità di entrare dentro l’amore e
portarne alla luce i tratti essenziali privati dei loro pregiudizi, ma la
capacità di costruire la propria persona a partire da quei tratti; infatti è su
quel presupposto che Leopardi riuscirà ne La ginestra a mettere in luce
come la speranza non sia qualcosa di generico e vano. Pur nel quadro di una
convinzione forte sulle caratteristiche della Natura, esiste qualcosa che
fornisce un senso alla vita dell’essere umano e questo “qualcosa” è sul piano
individuale “l’amore” e sul piano collettivo “la solidarietà”.
L’IO
Ciò che io trovo importante non è il “cosa”, cioè l’aver
elaborato una teoria filosofica credibile e significativa, ma il “come”, il
fatto cioè che queste acquisizioni siano il frutto di un percorso
principalmente poetico. La ragione di Schopenhauer, seppur controtendenza,
metterà in moto ulteriori connessioni importanti, permettendo il grande
contributo filosofico di Nietzsche. Diversamente il percorso di Leopardi non si
limita alla ragione, ma investe la persona nel suo complesso dove “il
tutto è maggiore della somma delle parti” (ragione e sentimento): la ginestra,
il fiore del deserto, che popola le aride pendici del Vesuvio, non è una
semplice similitudine o una modesta metafora. La ginestra è il modo attraverso
il quale il poeta può varcare i confini del finito e individuare nuovi
orizzonti: Leopardi non inventa, non elabora, non invia messaggi, ma
costruisce, costruisce un percorso che di volta in volta fa i conti con quanto
vissuto in precedenza, per porre nuove basi. Lo fa nello stesso modo in cui si
sviluppa la vita: a spirale, per continuità, in modo evolutivo, collocandosi
sempre al margine del caos. Si tratta di un metodo che colloca Leopardi tra i
grandi poeti moderni e ne fa un precursore della grande poesia moderna, quella
che insieme alla scienza della complessità ha ribaltato i tradizionali punti di
riferimento.
Se proviamo a leggere Leopardi alla luce di queste
acquisizioni allora usciamo dal pantano in cui una critica tradizionalista lo
ha collocato: né illuminista né romantico, né eroico né idillico, né classico
né moderno (alla Staël), né pessimista né ottimista, né materialista né
idealista. E così via. E neppure un po' e un po', e neanche qua così e là nel
suo opposto, ma neanche una miscela delle posizioni contrapposte.
La poesia di Leopardi è il primo esempio completo di
ricerca e costruzione della propria persona, attraverso lo strumento stesso del
poetare, fornendo un modello di come cominci a delinearsi la forma dell’IO
moderno e allo stesso tempo della poesia moderna.
Seguire il percorso poetico leopardiano attraverso
l’evoluzione della sua poesia permette di entrare dentro una realtà dell’uomo
ben più profonda rispetto agli episodi di cui siamo a conoscenza e che lo
riguardano, come pure rispetto alle sue riflessioni, interessanti ma astratte,
presenti sia nello Zibaldone sia nei Pensieri.
C’è una costante in quel percorso evolutivo e questa
costante, pur essendo presente in altri poeti come Petrarca, Tasso e Foscolo,
solo qui sviluppa tutto il suo potenziale. Questa costante è per l’appunto
l’IO.
“io solo combatterò, procomberò sol io” (All’Italia,
vv.37-38).
“Ecco voglioso anch’io ad onorar nostra dolente madre” (Sopra
il monumento di Dante, vv.69-70).
“Io son distrutto né schermo alcuno ho dal dolor” (Ad
Angelo Mai, vv.34-35).
“Tornami a mente il dì che la battaglia d’amor sentii la
prima volta” (Il primo amore, vv.1-2).
“Vive quel foco ancor, vive l’affetto, spira nel pensier
mio la bella imago, da cui, se non celeste, altro diletto giammai non ebbi, e
sol di lei m’appago” (Il primo amore, vv.100-103).
L’IO leopardiano occupa
sempre di più la scena, diventando centrale a partire dagli Idilli.
“Ahi pentirommi e spesso, ma sconsolato, volgerommi
indietro” (Il passero solitario, vv.58-59).
Ne L’infinito l’IO rappresenta il tessuto
connettivo della poesia; ne ho già parlato e non occorre ripetersi. Ed è da
questo momento che ogni idillio diventa lo scavo del poeta nella propria anima:
La sera del dì di festa, Alla luna, Il sogno, La vita solitaria dove
ritroviamo il Leopardi seduto di cui parla Bigongiari (Talor m’assido in
solitaria parte, v.23), Il Risorgimento, A Silvia, La quiete dopo la
tempesta. La stessa presenza dominante dell’IO poetico la ritroviamo nelle
poesie del Ciclo di Aspasia e infine nella Ginestra, vero e
proprio testamento.
Naturalmente questo IO non si impone fin da subito, ma è
sempre presente anche in quelle poesie che più sono rivolte al mondo esterno;
esso poi occupa la scena da protagonista e, seppure Leopardi non sia solo
questo (basta pensare alle Operette Morali), è in tutti quei versi che
vale la pena seguire il suo percorso, soffermarsi sulle immagini e le analogie,
cercare di dialogare con quell’anima tormentata (ogni anima vivente è
necessariamente tormentata) e finire col naufragare in quel mare.
La poesia diventa poiesia e costruzione della persona.
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