Giacomo Leopardi

Nasce la poesia moderna, nasce l’IO moderno

 


Mi sono chiesto in questi mesi se avesse un senso ancora parlare di Leopardi. Un poeta come tanti fino a pochi anni fa è divenuto una star da qualche tempo a questa parte. Oltre alla quantità di critici che fanno il loro dovere, c’è stato anche un film, qualche biografia e, grazie a Facebook, anche alcuni gruppi dedicati al poeta di Recanati, in particolare uno, I Leopardiani, con ben 21.000 membri. Oltre a numerosi blog di poesia e gruppi sparsi nel worldwideweb.

Dunque forse avrei fatto meglio a dedicarmi a qualcosa d’altro o a qualcun altro, visto che decine di critici e migliaia di appassionati sono cifre che fanno tremare vene e polsi.

Alla fine ho deciso di proseguire nel mio intento non tanto perché non potevo fare una specie di manuale di letteratura senza parlare di Leopardi, ma soprattutto perché nella mia riflessione ed elaborazione il poeta occupa un posto di primo piano, soprattutto dal punto di vista del rapporto con la complessità.

Come riporta il titolo che ho dato a questo articolo, con Leopardi nasce la poesia moderna e nasce l’IO moderno. Non mi sembra poco. So bene che esistono secoli di gestazione e ne ho parlato sia nei precedenti capitoli sia nel precedente lavoro su I flussi della Storia, ma so bene anche che c’è sempre un punto di svolta, il famoso margine del caos che schiude l’uovo del nuovo nato, un uovo che nulla ha a che fare con il fenomeno della Rivoluzione, recitata nei diversi campi dell’umana stirpe.

Poiché, a differenza della vita, la pagina dipende dal tempo e dallo spazio, sono costretto a iniziare da un punto non perché sia il primo in ordine cronologico né perché sia il più importante, semplicemente perché la pagina non può prescindere dallo spazio e dal tempo. Lo faccio sapendo che in un sistema reticolare, e la letteratura è, come la vita, reticolare, la centralità, quello che chiamo hub, è decisa di volta in volta dall’osservatore.

 

Con Leopardi nasce la poesia moderna. In genere si riconduce a Baudelaire e al suo Manifesto “Corrispondenze” l’inizio di qualcosa che ha cambiato sia la letteratura sia la vita. Io penso però che il punto di svolta si debba attribuire a Leopardi con la poesia “L’infinito”. Tra poco vedremo il motivo. Ora occorre chiarire in che senso si debba parlare di poesia moderna, perché troppo spesso si è ridotto la portata del fenomeno e questo non solo in passato quando si definiva il così detto Decadentismo come Tardo Romanticismo. L’argomento verrà ripreso, approfondito e compreso meglio nei prossimi capitoli, qui basta rilevare che mentre la poesia tradizionale è di rappresentazione, quella moderna è di creazione. Non che una sia migliore o più bella dell’altra, ma neppure banalizzare la differenza.

Nella prima il poeta ha chiaro ciò che vuole comunicare, lo sviluppo delle idee o delle sensazioni o dei sentimenti, e cerca la forma a lui più adatta o che gli sembra migliore (bella, efficace o altro): per fare questo deve capitalizzare i suoi studi, le sue conoscenze ed esercitarsi in modo da migliorarsi e trovare un percorso in cui ritenga di dare il meglio. In questa attività la forma e il contenuto, pur restando legati, risultano separati, due universi che si parlano ma che hanno vita distinta.

Nella poesia di creazione invece il poeta inizia il suo scrivere essendo una persona e termina essendo cambiato. In questo caso la forma e il contenuto tendono a coincidere, perché le parole usate, le immagini, i suoni che il verso esprime danno immediatamente il senso di quel determinato componimento. E’ per questo motivo che la parafrasi, intesa come spiegazione esatta del componimento, perde di valore e allo stesso modo perdono di valore rima, ritmi, figure retoriche e tutti quegli aspetti che in genere studiamo a scuola sotto il nome di metrica e dintorni.

La poesia di rappresentazione non significa mancanza di creazione, come ho cercato di spiegare negli articoli precedenti, ma si caratterizza per intenti e realizzazioni diversi. L’infinito di Leopardi può essere considerato il punto di svolta, come ho già detto. Vediamo perché.

 

Un idillio, solo 15 versi, diciamo 165 sillabe: veramente poco in termini di peso. Ma oggi sappiamo dell'importanza del battito d'ali di una semplice farfalla. La poesia moderna, cioé l'arte moderna, che io prima facevo risalire ai "Fleurs du mal" di Baudelaire, aveva trovato il suo anticipatore, aveva prodotto il Numero Zero.

Ci sono alcuni elementi che fanno di questa poesia il punto iniziale di un processo i cui effetti sono ancora in gran parte da scoprire e che ha ricevuto un decisivo impulso dalle scienze dure negli ultimi anni.

La prima parola da mettere in evidenza é “mi fingo”del verso 7.

Fingere (v.pingere-fittile) nel senso etimologico di costruire-dare vita. Per la prima volta, forse a insaputa dello stesso grande poeta, la poesia (da poiein=fare) diventa strumento decisivo di costruzione-conoscenza-trasformazione: é dunque l`inizio di una grande stagione non ancora conclusa. La poesia esce dagli ambiti della rappresentazione, dell`immagine, della ricerca estetica e individua nella costruzione di se stessa, nella costruzione cioé delle parole che la informano (le danno forma), una condizione essenziale, ed esistenziale, dell`uomo moderno. Il poeta si siede e costruisce se stesso, trasformando sia il mondo circostante sia il suo essere: al termine della poesia egli é diventato un`altra persona. Colui che si siede é l`uomo Leopardi, colui che costruisce la realtá é il poeta Leopardi e lo strumento che permette tutto questo é la poesia, cioé la parola.

Insistere sugli aspetti naturalistici-la siepe,le fronde,il vento- o su quelli idealistici -nel pensier- per collocare i versi in una dimensione piú neutra che riconduca questa poesia tutta nell`ambito della tradizione, sottovaluta la novitá e i legami con quanto verrá successivamente prodotto. D`altra parte ho sempre pensato che un testo letterario, e la sua interpretazione, abbiano senso solo se riescono ad aprire porte e far filtrare anche un piccolo raggio di luce.

Chi é il soggetto di fingo? Leopardi é esplicito: io (verso 7). L`io storico e l`io poetico coincidono direttamente, concretamente, in un lasso di tempo talmente breve da impedire la separazione e strumentalizzazione di uno dei due aspetti. In generale uno dei due io ha sempre teso a sopraffare l`altro, qui invece il poeta recupera la sua condizione umana, finita, cioé storica, evidenziando il carattere complesso del suo essere: Leopardi uomo, Leopardi poeta, ogni parte giocando con l`altra, intrecciando segmenti, suggerendo frammenti, trasformando aspetti.

Questo io, uomo e poeta, soggetto e allo stesso tempo oggetto dell`indagine e della ricerca non é altro che la figura nuova di poeta che sta sorgendo e che, dopo Baudelaire, andrá diffondendosi caratterizzando il panorama della poesia moderna.

Si delinea quella figura speciale di individuo che la poesia andrá costruendo per tutto l`Ottocento e il Novecento e alla quale la moderna ricerca epistemologica attribuirá un significato decisivo.

É proprio la radicale reintegrazione del punto di vista dell`osservatore nelle sue proprie descrizioni, a diventare il criterio di riferimento per ogni processo di comunicazione e di costruzione delle conoscenze.” (Ceruti : Il vincolo e la possibilitá- pg.20)

Ció che la ricerca scientifica oggi, riflettendo su se stessa, esprime come l’ultimo approdo della modernitá, e quindi il nuovo punto di partenza (della società degli individui, o di come vogliamo chiamare ció che stiamo vivendo a partire dalla fine dello scorso millennio), ebbene tutto ció era giá presente nella poesia, non più godimento estetico ma fattore di produzione del reale.

Andiamo avanti.

Leopardi parla di Infinito. Infinito é il titolo dell`idillio, infinito é il silenzio. Non é facile, cronologicamente e concettualmente, al poeta trovare un linguaggio adeguato ad esprimere questo Infinito. Cosí abbiamo interminati spazi, sovrumani silenzi, profondissima quiete, mi sovvien l`eterno, questa immensitá: il tentativo di trovare altre parole per esprimere lo stesso concetto tradisce un`esigenza e una difficoltá.

L`esigenza di dare voce al processo di costruzione del reale e della conoscenza, senza cadere in vuote parole; la difficoltá di trovare l`espressione, il suono di quella voce.

Le soluzioni trovate, ancorché non pienamente soddisfacenti, dimostrano lo sforzo di Leopardi e la sua capacitá, rispetto alla sua cultura, alla sua precedente produzione e al dibattito contemporaneo, di andare oltre gli schemi  e le strutture conosciute.

L`interpretazione che Bigongiari dá del rapporto finito-infinito in Leopardi non é solo suggestiva, ma introduce un concetto, estremamente significativo, del processo conoscitivo. Il prefisso in- con valore negativo e allo stesso tempo ingressivo fornisce un`indicazione poietica: entrare nel finito per negare il finito, cioé quel finito.

Vedremo piú avanti gli esiti ; mi piace per ora riportare qui un breve passo tratto dal giá citato libro di Ceruti: “L`osservatore sa di portare sempre con sé  il ‘peccato originale’ della sua limitatezza. Ma l`immergersi in essa é l`unico strumento per raggiungere l`intersoggettivitá”.

 

Al verso 2 Leopardi introduce una parola che rappresenta una necessaria cerniera e un'occasione nel modo in cui il processo di costruzione-trasformazione é fatto: orizzonte. Sempre caro fu a Leopardi il colle e la siepe che gli sono vicini, siepe che limita lo sguardo nella sua ansia di andare oltre quegli elementi della natura: nasce cosí l' orizzonte, quella necessaria cerniera tra finito e infinito, tra questo e quello, tra qua e lá, tra prima e poi.

L'orizzonte come dato concreto e finito presente in ogni presente. L' orizzonte come dato infinito, come assente nel presente, ma che lo in-forma, tras-formandolo. Ri-de-finizione del finito che solo l'in-finito rende possibile.

L'immagine dell' orizzonte diventa dunque importante elemento per chi ritiene possibile il cambiamento e la conoscenza, reciproci e coesistenti, di sé, a partire da sé.

 

Un' altra parola, che troviamo nell' ultimo verso, merita una certa attenzione: naufragare, e il naufragar m' é dolce in questo mar. Il naufragio indica giá qualcosa che non puó essere sottovalutato e che prepara il poeta e il lettore ad una ricerca che non é ovvia né determinata.

Ció che Leopardi ha costruito nei versi precedenti trova ora una direzione, o, meglio, un' indicazione di direzione. Entrare nel finito, ci ha detto il poeta, ma che strada prendere? Il naufragar non ce lo dice, ma ci fornisce una premessa metodologica di grande importanza: non esiste una direzione privilegiata, non esiste un punto di osservazione fondamentale, non esistono passi necessari che prefigurano il futuro. É l'uomo, in carne e versi, che cerca-conosce-crea se stesso: il poeta, in un idillio, ha sottoposto se stesso a questo esperimento e ci ha offerto i risultati. Forse solo ora riusciamo a capirne la portata.

 

Ed ecco L’infinito dove in gioco non è più la Patria e il Mondo, ma il poeta in prima persona: in soli 15 versi emerge lui: Io, mi, mio. Un Io che non sogna impossibili battaglie, ma prende spunto dalla sua quotidiana concretezza: si siede davanti alla siepe e più in là c’è il colle. Ma non basta. Aveva creduto che il passaggio dal particolare all’universale avvenisse per le vie classiche della politica, ora scopre che è possibile un’altra strada: dall’Io storico all’infinito, passando per il reale colle e la reale siepe.

 

Il poeta moderno è quello che usa le parole, la poesia, per portare alla luce una realtà ignota, una sua verità, e che per questo egli non è più lo stesso al termine della poesia, perché le parole stese sul foglio sono il frutto dello scavo interiore. Il poeta moderno, proprio per queste caratteristiche, ha come oggetto d’indagine solo se stesso e se talvolta si trova a esporre riferimenti sociali, storici o comunque a lui esterni, questi sono sempre ricondotti in chiave lirica, cioè personale. Può usare rime, figure retoriche riprese dalla tradizione, ma non gli sono essenziali né necessarie: per questa ragione similitudini e metafore lasciano il posto all’analogia, un qualcosa che non è de-finito e che apre collegamenti che, pur partendo dal poeta, coinvolgono immediatamente il lettore.

Il testo tradizionale era chiuso: esso voleva dire soltanto quello che il poeta metteva per scritto. Il testo moderno è invece aperto e non è circoscrivibile a una de-finizione: la metafora è come un indovinello, ha una sola risposta, mentre l’analogia coinvolge tanti elementi, complessi, reticolari, ricorsivi.

Leopardi si trova a metà del guado: ogni sua poesia esprime qualcosa di preciso e definito, ma l’insieme delle sue opere costituiscono un percorso aperto che mostra come poesia dopo poesia il poeta sia riuscito a costruire un nuovo Leopardi.

 

Con Leopardi nasce la poesia moderna. Con Leopardi nasce anche l’IO moderno.

I due aspetti sono strettamente legati perché l’IO moderno ha permesso la liberazione della poesia moderna allo stesso tempo e nello stesso modo con cui la poesia moderna ha liberato l’IO moderno. Non si voglia banalizzare questa affermazione con il riferimento all’uovo e alla gallina, perché ragionare in termini complessi è cosa diversa dal ragionare in termini cronologici e di logica semplice; innanzitutto c’è il principio della ricorsività e poi la struttura lineare è sostituita da una struttura reticolare che ha difficoltà ad essere catturata. I due fenomeni si rincorrono e si intrecciano senza che si possa stabilire un momento zero e un preciso generatore. Dobbiamo avere, per ora, in questi tempi, la capacità di far coesistere due termini che si presentano legati e farli vivere (non solo esistere) nella nostra mente evitando l’abitudine a ricercare, come unica prova scientifica, la causa o le cause generatrici dell’effetto.

In questo Corso di Letteratura non deterministica, ho presentato Petrarca come il poeta grazie al quale “L’IO comincia a formarsi”; naturalmente non appare dal nulla e, oltre Agostino di Ippona e qualche classico, vanno ricordati i primi poeti (siciliani, toscani, umbri) e lo stesso Dante. Tra loro troviamo chi in misura minore e chi in misura maggiore ha portato acqua al mulino, acqua di cui si è servito Petrarca per stabilire un punto di non ritorno. Contemporaneamente avvenivano tante altre cose che aiutarono quel processo, come il mercato, i borghesi, i Parlamenti, scoperte, invenzioni e tanta cultura, contribuivano tutte a valorizzare in qualche modo l’individuo e ogni soffio di riconoscimento della persona tonificava i polmoni della libertà. Dopo Petrarca ho sottolineato il ruolo di Tasso e poi quello di Foscolo, mentre il fenomeno si allargava a livello planetario: la persona di cui parlava il Cristianesimo aveva trovato il riconoscimento nelle istituzioni mondane attraverso il ruolo dell’individuo, mentre il Romanticismo, soprattutto nordeuropeo, produceva esemplari ingenui di quell’individuo. Tutto serve perché lentamente prenda forma quello che chiamo l’IO moderno e che oggi, XXI secolo, è esploso come l’indiscusso protagonista della realtà.

Abbiamo visto istituzioni affermare forme di liberaldemocrazia, ma ciò non ha impedito l’avvento di regimi totalitari; abbiamo visto Chiese titubare e combattere questo individuo; abbiamo visto individui rinnegare la propria individualità e combatterla duramente in nome di patrie, ideologie, dei. In compenso la letteratura non ha mostrato debolezze, anzi ha fornito indicazioni anche al resto del mondo e, come vedremo, persino la scienza della complessità ne ha subito le suggestioni.

Poesia moderna ed IO moderno procedono strettamente ed è qui che dobbiamo analizzare il percorso di Leopardi, il primo ad aver fornito, poco importa se coscientemente o no, una specie di modello che era nell’aria e che, come i pollini degli alberi, si diffonderà ovunque.

Il Manifesto poetico della poesia moderna è unanimemente considerato Corrispondenze di Baudelaire; ho cercato di mostrare come L’infinito lo abbia preceduto, ma è giunto il momento di vedere tutta la produzione poetica di Leopardi alla luce di quanto proposto nell’idillio.

Molto si è detto del pessimismo leopardiano, notandone sensibilità e incongruenze, istintivi ragionamenti e meditate proposizioni; quasi tutti i lettori attenti di Leopardi non si sono fermati a questo suo atteggiamento “negativo”, giungendo anche a  evidenziarne l’antitesi: più il poeta parla in modo pessimistico e più spinge il lettore ad amare la vita. Va aggiunto che la produzione leopardiana è talmente vasta e di tale varietà che, ancora una volta, la pretesa di concentrarla in una specie di “teoria del tutto” risulta vana e priva di senso. Come spesso succede di fronte ai grandi poeti le singole interpretazioni sono senz’altro vere, ma hanno l’unico difetto di non riconoscere il tutto come qualcosa che va oltre la somma delle singole parti.

Sappiamo che le Canzoni sono apparse ad alcuni un grande momento di poesia civile, degna di Dante e di Foscolo, permettendo la formazione dell’appellativo “eroico”. Per molti è la filosofia l’elemento caratteristico della poesia leopardiana (e di questo si parla anche ne La montagna incantata di T. Mann anche se le tre misere citazioni il grande scrittore tedesco poteva risparmiarsele), una filosofia che ricorda molto Schopenhauer, il filosofo più amato dai grandi fisici della svolta quantistica del ‘900 come Schrödinger e Einstein.

Poesia e filosofia sono le due grandi cornici entro le quali stipare pensieri e versi del poeta e tendono sempre ad essere mantenute separate, tanto che ad esempio nella lettura dei Grandi Idilli si trascura volentieri e con estrema facilità la prima parte, quella naturalistica e pittorica, che per l’appunto giustifica etimologicamente il termine “idillio” (da eidon e video, dunque immagine). In genere l’approccio agli idilli si concentra sulla parte finale, intesa come sentenza, perché non si riesce a distaccarci dall’idea che la poesia è prima di tutto messaggio. Sembra così che i versi naturalistici (spesso la maggior parte) siano lì come decorazione e tutt’al più come generica e svagata similitudine: in questo modo si riporta Leopardi nell’alveo della tradizione mimetica, giungendo a oscillare tra componente romantica, quella che descrive la natura, e componente illuminista, quella direttamente filosofica. Questa separazione, che ha una sua indiscutibile base di verità, irrigidisce la costruzione del poeta, di cui si perdono i numerosi passaggi che esistono sia all’interno della poesia sia tra i diversi componimenti. Se prendiamo i Grandi Idilli, come La quiete dopo la tempesta o A Silvia o Il sabato del villaggio, la parte iniziale non è mai descrittiva ma è un dialogo tra sé e sé, non sempre compiuto come sarà invece ad esempio in Pascoli, ma un modo di guardare fuori per guardarsi dentro. Non deve meravigliare il fatto che il poeta si serva di parole, immagini e situazioni anche di una certa lunghezza, ma è necessario comprendere come queste descrizioni non sono altro che proiezioni ed espansioni di quello che ne L’infinito erano “la siepe” e “il colle”. Qui è la dolcezza del naufragare, mentre nei Grandi idilli è la dolcezza di un piacere che però alla lunga si rivela “vano”. Se privilegiamo il contenuto, e cioè la componente filosofica, ci sfugge la poesia, o meglio la poiesia e alla fine non ci rimane che scomporre e ricomporre la poesia leopardiana come un puzzle.

Tante sono le verità che i lettori, professionali e non, possono trovare, ma di cui abbiamo difficoltà a servirci, verità che rimangono lì, scolpite nella pietra o nella mente, per fare bella figura in una conversazione o per confermare-rinnegare significati acquisiti.

E’ vero, oltre a quanto detto sopra, anche individuare differenze tra un “Leopardi eroico” e un “Leopardi idillico”, ma di quale utilità è questa separazione? E’ vero anche che lo Zibaldone e i Pensieri sono sterminate pagine di riflessioni di vario genere che aiutano a capire cosa passasse per la testa del poeta e come queste perturbazioni della mente influenzassero versi e prose: lavoro filologico non inutile, ma poco produttivo.

E’ vero, probabilmente, che Leopardi fosse misogino, cosa per cui sarà condannato dal politicamente corretto e che confermerà le convinzioni così dette maschiliste.

E’ vero che fosse pessimista, in senso culturale, e cioè che l’uomo è destinato a soffrire, facendo sì che il pessimista vi si riconosca e l’ottimista forse si senta in dovere di sfuggirlo.

E’ vero che quel pessimismo abbia avuto una evoluzione passando da una visione negativa attribuibile alla storia a una più essenziale, quasi metafisica, riconducibile alla natura dell’uomo.

Potrei continuare con numerose altre informazioni, quelle che comunemente vengono passate nelle lezioni di Letteratura Italiana, ma credo che sia chiaro il senso del mio discorso.

La somma di tutte quelle informazioni non ci permette di dialogare con Leopardi, che è l’unico aspetto che possa dare un senso all’incontro e anche allo studio della letteratura. Sempre, con Paz, in nessun modo quelle verità possono far nascere il poeta che legge; questo, come spiegato più volte, significa rendere il lettore più ricco e complesso.

Non sto qui esaltando la mia verità come più vera di tutte le altre; non sto qui dicendo che solo io ho capito il poeta di Recanati. Sto, in maniera molto più semplice, cercando di proporre un metodo e di presentarlo attraverso l’incontro che ho avuto con Leopardi nel corso della mia esistenza.

Spesso ci si muove di fronte a un autore come se fossimo degli osservatori esterni, che ricercano una oggettività che di fatto non esiste. Così in genere si parla di fasi di un autore, come se l’ultima produzione fosse il punto di arrivo dello stesso e, se non proprio l’ultima, almeno quella che la critica ritiene come il punto più alto.

Alla luce dei nuovi elementi introdotti dalla complessità, non bisogna dimenticare il ruolo dell’osservatore che rientra pienamente nel fenomeno osservato; egualmente non bisogna dimenticare l’impossibilità di studiare un fenomeno in modo statico, perché questo ci obbliga a una riduzione dello stesso; ancora, che il tutto è maggiore della somma delle parti e che la relazione tra le parti è sempre reticolare e ricorsiva. In particolare la creazione, anche della conoscenza, avviene per continuità e rottura, a spirale, tornando indietro, metabolizzando e ripartendo.

Ho spiegato perché L’infinito di Leopardi rappresenta il punto di svolta nella formazione della poesia moderna: dalla siepe leopardiana ai limoni di Montale il passo è breve.

 

E’ giunto il momento di spiegare perché allo stesso tempo nasce l’IO moderno. La poesia di Leopardi non è “poesia della natura”, non è “poesia della ragione”, non è “poesia del piacere”, non è “poesia del pessimismo”: essa è “poesia di Leopardi”, cioè “creazione di Leopardi”, creazione dell’IO e questo IO è quello con cui ancora oggi siamo costretti a fare i conti.

Ci furono delle incertezze, all’inizio della sua attività, ma questo è normale, è la vita. Gli eventi che ci impegnano nella nostra adolescenza sono difficilmente spiegabili sul momento e sono gettati da qualche divinità come nel gioco dei dadi: non tutto è casuale ma i flussi potranno essere riconosciuti (almeno in parte) solo dopo. E così Leopardi cominciò a studiare e a scrivere, a studiare molto (i famosi sette anni di studio matto e disperatissimo) e a scrivere molto. Era il prodotto del Caso, del suo tempo, dei suoi luoghi, della sua famiglia, della sua indole, e anche di quell’IO che dalla sintesi di tutti questi elementi aveva cominciato a prendere forma.

Prendiamo i primi Canti, quelli che vengono chiamati Canzoni civili e hanno animato la lettura “eroica” del poeta.

In queste Canzoni Leopardi si concentra soprattutto sul destino dell’Italia, ridotta in condizioni tristissime, perché ha rinunciato alla gloria del passato e si è data interamente allo straniero che, in confronto, è un barbaro: “Oh venturose e care e benedette L'antiche età, che a morte Per la patria correan le genti a squadre” (All’Italia); “O scopritor famoso, Segui; risveglia i morti, Poi che dormono i vivi; arma le spente Lingue de' prischi eroi; tanto che in fine Questo secol di fango o vita agogni E sorga ad atti illustri, o si vergogni.” (Ad Angelo Mai); “In peggio Precipitano i tempi; e mal s'affida A putridi nepoti L'onor d'egregie menti e la suprema De' miseri vendetta.” (Bruto Minore).

Il tono è aulico, il linguaggio mostra una sicurezza e una forza notevoli, il tema ricorre in tutte queste poesie e risulta espresso in forme omogenee anche quando l’occasione appare molto più modesta e prosaica, come nelle poesie “Nelle nozze della sorella Paolina” e “A un vincitore del pallone”. E’ chiara l’influenza di Foscolo, soprattutto del poeta de I sepolcri, con la differenza che Leopardi scrive in età giovanile mentre Foscolo aveva scritto il Carme in età matura e questo farà lo scarto. Come ogni giovane, Leopardi si sente in dovere di rimediare ai mali del mondo dalla sua collocazione spazio-temporale e non può farlo senza sentirsi protagonista. Lo stesso aveva fatto Foscolo con il suo alter-ego Jacopo Ortis, costretto al suicidio; Leopardi fornisce chiare indicazioni, facendo riferimento al Foscolo de I sepolcri, ma rispetto a questo è parte del progetto.

Non è solo la poesia, la storia del mondo classico e soprattutto dei Greci, la cultura come fonte d’ispirazione; non è sufficiente la denuncia dei mali di quella parte di mondo che si chiama Italia, perché è necessario essere protagonista degli eventi che permetteranno il superamento di quei mali. Ed è così che Leopardi non si tira indietro:

Nessun pugna per te? non ti difende nessun de' tuoi? L'armi, qua l'armi: io solo Combatterò, procomberò sol io.” (All’Italia).

A me questi versi hanno sempre fatto sorridere, ma alla fine ho compreso, ripensando anche alla mia gioventù e alle generazioni che l’hanno preceduta o seguita, che è stato spesso un passaggio obbligato. Tra il 1818 e il 1822 Leopardi intreccia i primi Idilli con le ultime Canzoni civili e L’infinito viene subito dopo All’Italia: non è confusione artistica, almeno nel senso comune del termine, bensì elaborazione di un percorso che deve ancora concretizzarsi e soprattutto consolidarsi. La stesura de L’infinito ripulisce, anche se non completamente, il campo dalle velleità di un impegno che ne limiterebbe orizzonti e prospettive. Il 1822 è l’anno in cui lascia Recanati e si apre al mondo, conoscendo persone, luoghi, costumi e realizzando la stagione più interessante della sua attività poetica. Come dimenticare che quel famoso Cardinale a cui aveva dedicato una Canzone per aver riportato alla luce i libri di Cicerone “De Republica”, Angelo Mai, verrà successivamente chiamato con l’espressione poco nobile di “coglione”? L’incontro con il mondo, l’affetto per il Giordani, la cultura assimilata nella solitudine del “paterno ostello”, il continuo studio e soprattutto la continua riflessione lo porteranno in una direzione che segnerà un’epoca.

Riflessione, meditazione, scavo non sono termini che si riferiscono a un’indagine esclusivamente filosofica, ma qualcosa che, non rinunciando ad approfondire il pensiero di classici e moderni, privilegia il terreno della poesia. E’ così che possiamo entrare in contatto con Leopardi, perché la filosofia, come dimostrerà Heidegger, si perde o si insabbia se non viene rivitalizzata dalla poesia. E’ così che la poesia si fa poiesia e accanto alla poesia moderna nasce l’IO moderno.

Ho già fatto notare come L’infinito dica 50 anni prima di Baudelaire ciò che sarà il futuro della poesia (e non solo) e che il finito diventa il necessario punto di partenza per andare oltre, laddove l’infinito non è né Dio né un concetto astratto, ma introduce le possibilità dell’uomo. In questo senso possiamo comprenderlo meglio dopo esserci familiarizzati con il “Superuomo” di Nietzsche, ma soprattutto dopo aver fatto i conti con quanto elaborato dalla fisica quantistica: nessuna pretesa metafisica, partire dagli osservabili (Heisenberg), comprendere che il mondo non è oggettivo ma insieme di relazioni e che la conoscenza è un continuo acquisire le dinamiche di queste relazioni, in un processo che ha senso se supera i limiti e i confini di una realtà finita e oggettiva.

Leopardi non ha scoperto i quanti né dato vita alla fisica quantistica; non lo ha fatto nessuno dei poeti moderni di cui parlerò, ma tutti hanno anticipato aspetti importanti che la scienza sistematizzerà secondo i propri criteri e seguendo il proprio metodo. Certo Leopardi non è Baudelaire che saprà meglio collocare quella prospettiva, ma l’unico modo per dialogare col poeta di Recanati non è ricercarne le matrici culturali precedenti (classicismo, illuminismo, romanticismo), ma ritrovare nel suo sviluppo poetico quegli aspetti di oggi con cui ognuno di noi deve fare i conti. Questi aspetti non sono filosofici, ma poetici.

Non potendo analizzare tutti i così detti Grandi Idilli, parlerò di quello che mi pare riassuma il senso di questa nuova fase leopardiana, La quiete dopo la tempesta.

Questo Idillio va letto, come ho spiegato sopra, alla luce della costruzione del poeta, cioè dell’uomo Leopardi, in modo ricorsivo e a spirale, tornando indietro, metabolizzando e andando avanti. Del suo passato Leopardi non rinnega nulla, ma si fonda su quanto elaborato ne L’infinito e pone le basi per ulteriori sviluppi. La siepe e il colle sono il punto di partenza per l’IO che, seduto, cerca di entrare nell’infinito, entra dentro il finito (in- ingressivo) per negarlo (in- negativo). Questo metodo lo ritroviamo nell’idillio. L’immagine da cui il poeta parte è più elaborata rispetto a quella de L’infinito: un paese che ritorna all’attività dopo una forte pioggia insieme a tutti gli elementi naturali presenti, gli uccelli, la gallina, il fiume, il cielo e poi gli uomini che riprendono il lavoro, l’erbaiuol, la femminetta, l’artigiano, la famiglia (la servitù). Si tratta di una realtà molto materiale e dai confini precisi, una realtà finita. Leopardi non si ferma qui, ma questo è il suo punto di partenza, finito, dentro il quale entrare e per negarne i limiti: non è una similitudine, ma neppure una metafora, bensì ci troviamo nel terreno che caratterizzerà tutta la poesia moderna, l’analogia. La prima strofa è naturalistica, la seconda mantiene i piedi in quell’ambiente e allo stesso tempo se ne stacca. La terza strofa ha rotto i limiti e si è inoltrata in un terreno che non ha barriere.

Occorre subito una precisazione: mentre il carattere materiale ha dei confini (una scarpa è di cuoio e serve per essere calzata), solo la realtà spirituale non ha confini, fines, che ne limitano lo sviluppo. La terza strofa si muove in questa realtà e grazie ad essa si esprime. Non è importante che ne L’infinito Leopardi approdasse a “il naufragar m’è dolce in questo mare”, mentre qui la dolcezza (diletto) è “uscir di pena” e beatitudine è “la morte”.

E’ verità il suo pessimismo e ancora più verità il carattere cosmico del suo pessimismo. Come successe a Foscolo con il suo romanzo, per cui Ortis muore ma Foscolo vive, lo stesso avviene in questo caso dove Leopardi non ha bisogno di servirsi della mediazione di un personaggio inventato, perché il soggetto e l’oggetto dello scavo poietico è l’IO, cioè Leopardi stesso.

A questo punto quell’IO si trova a dover scegliere una delle due strade che gli si presentano davanti, morire o vivere, e sceglie la vita. Il suo pessimismo non scompare, mentre lo scavo raggiunge, grazie alla poesia, gli abissi più intimi della sua esistenza. La quiete dopo la tempesta non è l’unica poesia, nella quale cerca di fare i conti con la propria esperienza personale; A Silvia, Il sabato del villaggio, Il passero solitario, ma anche Le ricordanze e il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia sono poesie che portano avanti quel percorso, ormai avviato, di costruzione della propria persona. Esse attenuano la volontà di morte espressa così lucidamente ma anche così astrattamente sia nella Quiete dopo la tempesta sia nel discorso finale di Tristano nell’Operetta Morale “Dialogo tra Tristano e un amico”. Di fronte al proclama di questi due passi sta un tortuoso, apparentemente anodino, percorso nella realtà delle parole che costruiscono l’argine e rappresentano il vaccino a quella dichiarazione stentorea e impressionante. L’IO di Leopardi si costruisce in questa duplice veste e si manifesta nella composizione tra dinamiche storiche, familiari, personali come un IO che riesce a dare un senso alla propria vita e lo fa attraverso le parole, attraverso la poesia. La staticità non conviene a Leopardi; continua è la sua trasformazione evolutiva e i processi sono resi possibili da un terreno di coltura che lo stesso poeta ha provveduto a preparare.

E infatti a dispetto dei discorsi sul “meglio morire” non solo sceglie la vita, ma si innamora. Fanny Targioni Tozzetti, questo è il suo nome: sono cose che succedono, a tutti, prima o poi, e doveva succedere anche al nostro poeta. Si trattò di un amore non corrisposto, ma che seppe infondere in Leopardi un flusso vitale che neanche lui si sarebbe aspettato. Non rinunciò a comporre dialoghi e poesie pessimistiche, perché quello era quanto aveva sedimentato negli anni precedenti, ma questa energia vitale fece sì che Leopardi potesse fare un salto e arricchire la propria persona. Le poesie che si riferiscono al suo innamoramento sono note come “Il ciclo di Aspasia” e nella maggior parte proseguono quella visione pessimistica, “cosmica” come si suole dire, che non lo abbandonerà e che prende sempre più una forma ricca e profonda, articolata e complessa. C’è però, nel così detto Ciclo di Aspasia, una poesia che sembrerebbe uscire dallo schema scolastico e che viene dunque presentata come un’eccezione (che ovviamente confermerebbe la regola).

In termini complessi questo ragionamento non funziona. Le poesie del Ciclo esprimono diversi aspetti della riflessione del poeta, ora spingono sulla morte, ora sul vaneggiamento, ora sul vagheggiamento, ora sull’armonia e l’adorazione: ogni verso si serve della parola per percorrere un nuovo filamento di questo periodo. Una poesia però permette al poeta di fare quel salto e lo fa senza rinnegare tutto il resto ma collocandolo in una più adeguata relazione: sto parlando del Pensiero dominante. Senza Il pensiero dominante non sarebbe pensabile La ginestra, cioè il testamento umano e poetico di Leopardi.

Trovo Il pensiero dominante di una ricchezza tale che meriterebbe uno spazio autonomo: credo che poche siano le poesie (raccolta di parole) che riescono a entrare dentro l’amore con questa potenza di cui si sente il solco, ruvido certo e incrostato, ma profondo. Un solco che sembra una fonte, da cui prorompono parole che vengono proiettate in alto, sempre più in alto. Di certo questa poesia seppe dare un senso agli ultimi anni della sua vita: non l’amore per Aspasia, ma le parole che ne certificavano la grandezza. Non le parole della morte, grandi ma comuni, dei tre componimenti successivi.

L’amore fu e morì; le parole d’amore furono e restarono.

E’ qui che si capisce l’importanza della parola e il suo essere realtà. La morte di quell’amore senza lo scavo effettuato dalla poesia sarebbe stato uno dei tanti eventi della vita e, visto il terreno fortemente pessimistico in cui era vissuto Leopardi, avrebbe facilmente scatenato un ulteriore ripiegamento. Ma ciò non avviene e non avviene perché di quell’amore non rimane solo una triste e negativa conclusione, ma anche una sapiente distillazione che va oltre la persona dell’amata.

Se pensiamo a come oggi la maggior parte delle persone che parla d’amore si limita a dire ”ti amo” “amore mio” “ti amo per sempre” e aggiunge qualche riferimento naturale, come la rosa, o sensuale, come la passione, ebbene Leopardi è riuscito ad andare molto ma molto oltre. Quando il poeta scrive che l’amore  è l’elementosolo per cui talvolta, / non alla gente stolta, /al cor non vile /la vita della morte è più gentile” non è solo una generica dichiarazione, proprio perché sostanziata da tutti gli altri versi, e ha il pregio di dedicare la poesia all’amore e non alla donna amata, ma non perché non è stato contraccambiato bensì perché la donna amata appartiene alla dimensione materiale, che ha solo limiti e confini, mentre l’amore è la caratteristica spirituale, che va oltre il finito.

Qui di seguito alcuni tra i versi più importanti della poesia.

 

Dolcissimo, possente

dominator di mia profonda mente;

terribile, ma caro

dono del ciel;

 

Ratto d'intorno intorno al par del lampo

gli altri pensieri miei

tutti si dileguàr. Siccome torre

in solitario campo,

tu stai solo, gigante, in mezzo a lei.

 

quasi intender non posso

come d'altri desiri,

fuor ch'a te somiglianti, altri sospiri.

 

A quello onde tu movi,

quale affetto non cede?

anzi qual altro affetto

se non quell'uno intra i mortali ha sede?

 

Pregio non ha, non ha ragion la vita

se non per lui, per lui ch'all'uomo è tutto;

sola discolpa al fato,

che noi mortali in terra

pose a tanto patir senz'altro frutto;

solo per cui talvolta,

non alla gente stolta, al cor non vile

la vita della morte è più gentile.

 

Per còr le gioie tue, dolce pensiero,

provar gli umani affanni,

e sostener molt'anni

questa vita mortal, fu non indegno;

 

ch'a vivi segni dentro l'alma io sento

che in perpetuo signor dato mi sei.

 

Bella qual sogno,

angelica sembianza,

nella terrena stanza,

nell'alte vie dell'universo intero,

che chiedo io mai, che spero

altro che gli occhi tuoi veder più vago?

altro più dolce aver che il tuo pensiero?

 

Avendo scritto che l’amore  è l’elementosolo per cui talvolta, / non alla gente stolta, /al cor non vile /la vita della morte è più gentile.” Leopardi non solo ha scelto tra la vita e la morte, ma ha anche posto le premesse per il passaggio successivo, un passaggio che ne arricchirà la persona e gli permetterà di dare un senso, di grande spessore, alla sua esistenza.

Questo passaggio ha un nome: La ginestra.

La ginestra fu scritta cinque anni dopo Il pensiero dominante e ben poco prima del suo distacco terreno.

Didatticamente non è difficile parlare de La ginestra: dal pessimismo cosmico senza mediazioni al pessimismo cosmico addolcito dall’amore per una donna al pessimismo cosmico, non negato, ma riscattato dalla solidarietà.

Qui però voglio parlare di qualche parola-verso che per me ha il valore di creazione, nel senso già indicato ne L’infinito e nel senso che poco dopo prenderà la poesia, cosiddetta moderna.

Leopardi-Ginestra si coniuga in questo componimento con Leopardi-Dio: il creato e il creatore, l’esile fiore e l’infinito, con la coscienza che gli uomini preferirono il buio alla luce. Storicizzare i versi, ritrovarne le matrici filosofiche, esaltarne i grandiosi riferimenti letterari non ci aiuta a penetrare e farci penetrare. Se L’infinito individua la cornice della poesia moderna, La ginestra straborda ed eccede da tutti i lati: il filo conduttore è facile da seguire, la parafrasi non è difficile (nonostante la lunghezza dei periodi), i concetti non sono molto diversi da quelli che costituiscono la weltanschaung leopardiana. Eppure…eppure…dobbiamo avere la capacità di farci naufragare e di uscire dalla nave e dalla rotta che ci sono state offerte. Solo così dolce e poietico sarà il naufragar.

Sovente in queste rive,

Che, desolate, a bruno

Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,

Seggo la notte;

Il Vesuvio, la lava, i fiori, le formiche, le mele, il serpente, il poeta che siede ed osserva, oltre il colle e la siepe, e scopre il nulla eterno e irride alle magnifiche sorti e progressive, e vede lo stolto e il suo fetido orgoglio, e vede il dolore che scaturisce inevitabile e invita alla solidarietà nel dolore e sente la morte avvicinarsi e siede su quel terreno indurito e sa che la sua vita e la sua poesia hanno avuto un senso. Scolpisce i comandamenti su quella lava e prende le forme della ginestra, pronto a chinare il capo e lascia un testamento, che non sta solo nel sapere, ma anche nel sentire, nel costruire su basi solide e non può esservi costruzione sulla menzogna: questo vale per i popoli, gli stati, le civiltà, ma questo vale –soprattutto- per gli uomini. I singoli individui. E’ così che Leopardi-Ginestra azzera il tutto e riparte: ma è solo e la poesia, esplodendo, lancia semi dappertutto, che continuano a produrre la vita in cui siamo immersi.

 

Tuoi cespi solitari intorno spargi,

Odorata ginestra,

Contenta dei deserti.

……

e quasi

I danni altrui commiserando, al cielo

Di dolcissimo odor mandi un profumo,

Che il deserto consola.

……

E tu, lenta ginestra,

Che di selve odorate

Queste campagne dispogliate adorni,

 

In fondo Giovanni aveva già detto tutto: “e gli uomini preferirono il buio alla luce”, ma la poesia entra in profondità e ci fornisce i colori di quella sapienza antica. Ancora oggi gli uomini preferiscono il buio alla luce, ma non è più la luce religiosa, bensì la luce che dalla ginestra porta, attraverso tutta la poesia moderna, alla costruzione di tutti quei filamenti che compongono gli uomini di oggi. Ed ecco che la ginestra dialoga con i limoni e con il croco, nella grandezza della creazione che è grande perché non rinuncia alla sua fragilità.

Fare i conti con se stessi, oggi come allora.

 

Così fatti pensieri

Quando fien, come fur, palesi al volgo,

E quell'orror che primo

Contra l'empia natura

Strinse i mortali in social catena,

Fia ricondotto in parte

Da verace saper, l'onesto e il retto

Conversar cittadino,

E giustizia e pietade, altra radice

Avranno allor che non superbe fole,

Ove fondata probità del volgo

Così star suole in piede

Quale star può quel ch'ha in error la sede.

 

Quante parole, quante immagini, quanti pensieri: perché non avere la pazienza, e il coraggio, di entrare dentro ognuno di questi? Perché non cercare di scavare dentro di noi quanto di “magnanimo, astuto o folle, generoso ed alto, stolto, di nobil natura “ ci caratterizza?

La ginestra segna il limite di quello scavo che Bigongiari chiama “meditazione assisa”, in cui l’Io poetico ha bisogno di riscoprire la propria umanità. Da questo momento in poi sarà l’umanità, cioè l’insieme degli uomini nella loro individualità, che dovrà scoprire il proprio Io poetico. E’ ciò che avverrà con la poesia moderna e, in forme diverse, ciò che ci troviamo a dover costruire oggi, al tramonto della poesia moderna stessa.

 

Vorrei concludere con alcune riflessioni che, pur riprendendo quanto ex-plicato fin qui, ci aiutino nell’individuazione di quell’orizzonte di cui parla Leopardi facilitando il nostro cammino.

 

orizzonte

La parola “orizzonte” non è termine anodino o poetico nel senso che spesso si dà a questa parola coniugata tra l’elemento naturale e l’indefinito: si tratta di una parola “poietica” cioè una parola capace di trasformare e creare la nostra persona. Non è certo un caso, al di là di possibili e non certe letture, che quella parola assuma un valore centrale nella filosofia di Gadamer e negli snodi attuali della complessità.

Prendere insieme una visione è tipico dell’orizzonte. Eccoci dunque al concetto di orizzonte così come lo sviluppa H. G. Gadamer in Verità e metodo, concetto che, pur da un altro punto di vista, fornisce una prospettiva ancora più profonda a quanto sinora messo in evidenza.

Il filosofo tedesco parte dal concetto di situazione:

La coscienza della determinazione storica è anzitutto coscienza della situazione ermeneutica. La presa di coscienza di una situazione, però, è sempre un compito carico di una peculiare difficoltà. Il concetto di situazione implica infatti, come sua caratteristica essenziale, che essa non è qualcosa a cui ci si trovi di fronte e di cui si possa avere una conoscenza obbiettiva. La situazione è qualcosa dentro cui stiamo, nella quale ci troviamo già sempre ad essere, e la chiarificazione di essa è un compito che non si conclude mai. Ciò vale anche per la situazione ermeneutica, cioè per la situazione in cui ci troviamo nei confronti del dato storico trasmesso, e che abbiamo da comprendere. Anche la chiarificazione di questa situazione, cioè la riflessione sulla storia degli effetti (il titolo del paragrafo è Il principio della Wirkungsgeschichte,ndr), non è qualcosa che si possa concludere; tale inconcludibilità non è però un difetto della riflessione, ma è legata alla stessa essenza dell’essere storico che noi siamo.( Gadamer Hans Georg (1983), Verità e metodo, RCS, Milano: p. 352.)

 

Il concetto di situazione, il situarsi cioè, il trovarsi in un sito, risulta strettamente connesso con quello di orizzonte(Oρίζειν in greco vale proprio porre, segnare un limite.), dunque il porre confini; e questa relazione si presenta di particolare significato:

 

“Ogni presente finito ha dei confini. Il concetto di situazione si può definire proprio in base al fatto che la situazione rappresenta un punto di vista che limita le possibilità di visione. Al concetto di situazione è legato quindi essenzialmente quello di orizzonte. Orizzonte è quel cerchio che abbraccia e comprende tutto ciò che è visibile da un certo punto. Applicando il concetto al pensiero, noi siamo usi parlare di limitatezza di orizzonte, possibile allargamento di orizzonte, apertura di nuovi orizzonti, ecc. Il linguaggio filosofico, a partire da Nietzsche e Husserl, ha adoperato in particolare questo termine per indicare il fatto che il pensiero è legato alla sua determinatezza finita e per sottolineare la gradualità di ogni allargamento della prospettiva. Chi non ha un orizzonte è un uomo che non vede abbastanza lontano e perciò sopravvaluta ciò che gli sta più vicino. Avere un orizzonte significa, invece, non essere limitato a ciò che è più vicino, ma saper vedere al di là di questo. Chi ha un orizzonte sa valutare correttamente all’interno di esso il significato di ogni cosa secondo la prossimità o lontananza, secondo le dimensioni grandi o piccole.” ( Gadamer Hans Georg (1983), Verità e metodo, RCS, Milano: p. 353.)

 

La poesia di Leopardi si afferma come “qualcosa dentro cui stiamo”, qualcosa dentro cui il poeta decide di stare sempre e “la chiarificazione di essa è un compito che non si conclude mai”, qualcosa che il poeta sa di continuare e sa che non si concluderà mai. L’orizzonte di Leopardi non è quel termine naturale o metageografico che fu da Dante a Marino, ma la prospettiva con cui collocarsi nel mondo e guardarlo per andare oltre ciò che si presenta come contingente: “Avere un orizzonte significa, invece, non essere limitato a ciò che è più vicino, ma saper vedere al di là di questo.”

Gran parte delle acquisizioni epistemologiche contemporanee farà riferimento a questi concetti.

Non solo, ma c’è dell’altro.

“Ogni visione è parziale. Non esiste un modo di vedere la realtà che non dipenda dalla prospettiva. Non c’è un punto di vista assoluto, universale. I punti di vista tuttavia comunicano, i saperi sono in dialogo fra loro e con la realtà, nel dialogo si modificano, si arricchiscono, convergono, la nostra comprensione della realtà si approfondisce…Il nostro discorso sulla realtà è esso stesso parte della realtà. Di relazioni è fatto il nostro io, le nostre società, la nostra vita culturale, spirituale e politica.” (C. Rovelli: Helgoland, Adelphi 2020).

 

memoria

Un altro aspetto della poesia leopardiana va ricordato ed è il ruolo che la memoria assume nel suo processo evolutivo. Molti hanno parlato della poetica della memoria leopardiana e lo hanno fatto, correttamente, alla luce degli strumenti e dei filtri di carattere epistemologico in loro possesso. Solo da un paio di decenni le neuroscienze hanno fatto progressi precedentemente inimmaginabili e una delle scoperte più importanti riguarda proprio la memoria. Secondo gli sviluppi scientifici in questo campo la memoria non è più, come si credeva, un cassetto in cui riporre volti ed eventi, da tirar fuori, integri e forse impolverati, successivamente; la memoria è infatti qualcosa di vivo e in continuo movimento, viene protetta e allo stesso tempo si presenta sempre diversa sia per effetto del tempo sia per effetto di nuovi punti di vista e filtri di cui ci siamo dotati.

Già Sant’Agostino aveva considerato la memoria uno dei tre componenti che caratterizzano l’anima, ma solo alla fine del secolo scorso si è compreso il carattere evolutivo della stessa memoria grazie agli studi di Ramachadran, Schacter, Damasio e altri.

Un limite nella presentazione tradizionale della poetica della memoria leopardiana è ricondurla a una presa di posizione filosofica: la memoria come nostalgia e dunque come rimpianto e negazione del presente, per cui la giovinezza (dell’individuo e della storia) apre le porte alla speranza, mentre il mondo adulto rappresenta la presa di coscienza della realtà “reale”, completamente disincantata: “all’apparir del vero tu misera sparisti”. Sopra ho scritto che questa analisi è stata fatta correttamente, perché non si avevano altri strumenti, ma oggi possiamo rileggere in modo diverso l’evoluzione poetica leopardiana in termini di memoria. Se la memoria è soltanto una serie di foto in un cassetto è evidente che i riferimenti al passato hanno solo la funzione di rimpianto condito di nostalgia e malinconia, il tutto più o meno reso denso da una riflessione culturale. La giovinezza, Silvia, Nerina, il sabato diventano tutti momenti di un processo che porta alla presa di coscienza della naturale evoluzione della storia, individuale e collettiva: in un certo senso è ancora la visione rousseauiana dell’uomo che nasce buono, ma che la società rende cattivo. La giovinezza riempie di illusioni che poi si svelano per quello che sono realmente, e così le epoche antiche sono ricche di valori ed energia che ai moderni mancano.

Non manca a Leopardi questa interpretazione, ma a partire dagli Idilli la memoria cessa di essere un semplice aprire il cassetto ed è qui che le scoperte recenti delle neuroscienze ci aiutano a meglio dialogare con il poeta. La poesia moderna imporrà una sua versione della memoria molto prossima a quella della scienza della complessità e lo farà in maniera straordinaria con Pascoli, Montale, Proust: la poesia leopardiana, quasi cento anni prima, ne rappresenta i prodromi positivi e lo fa con gli strumenti personali e collettivi coerenti col contesto.

Non c’è rimpianto né malinconia né nostalgia, ma una presa di coscienza sempre più forte e formata che permette a Leopardi di arricchirsi, pur in un contesto di continuo peggioramento fisico.

E’ il ricordo del villaggio con la sua brulicante attività che permette a Leopardi di fare un salto nel suo porsi nel mondo: è la Natura responsabile dei mali del mondo, ma l’uomo può recuperare quell’energia che fu alla base di illusioni e che ora può trasformarsi in dignitoso vivere.

Nessun eroismo, ma solo (e non è poco) dignità.

E’ così che il ricordo dell’amore per Fanny Targioni Tozzetti va oltre l’episodio (non felice) senza ricorrere al sempre vigente rimpianto o alla sempre vigente rabbia. Quel ricordo diventa immortale inno al sentimento di amore, alla sua capacità di modellare in senso positivo la persona rendendola più ricca e profonda. Al contrario del comune (ancora oggi) vivere l’amore, per cui un fallimento porta le persone a non credere più nell’amore, Leopardi ha distillato la quintessenza della sua esperienza fallimentare e ha dichiarato il valore dell’amore: il pessimista cosmico ha toccato un territorio a cui ancora oggi quasi nessuno riesce ad avvicinarsi.

Non è solo la capacità di entrare dentro l’amore e portarne alla luce i tratti essenziali privati dei loro pregiudizi, ma la capacità di costruire la propria persona a partire da quei tratti; infatti è su quel presupposto che Leopardi riuscirà ne La ginestra a mettere in luce come la speranza non sia qualcosa di generico e vano. Pur nel quadro di una convinzione forte sulle caratteristiche della Natura, esiste qualcosa che fornisce un senso alla vita dell’essere umano e questo “qualcosa” è sul piano individuale “l’amore” e sul piano collettivo “la solidarietà”.

 

L’IO

Ciò che io trovo importante non è il “cosa”, cioè l’aver elaborato una teoria filosofica credibile e significativa, ma il “come”, il fatto cioè che queste acquisizioni siano il frutto di un percorso principalmente poetico. La ragione di Schopenhauer, seppur controtendenza, metterà in moto ulteriori connessioni importanti, permettendo il grande contributo filosofico di Nietzsche. Diversamente il percorso di Leopardi non si limita alla ragione, ma investe la persona nel suo complesso dove “il tutto è maggiore della somma delle parti” (ragione e sentimento): la ginestra, il fiore del deserto, che popola le aride pendici del Vesuvio, non è una semplice similitudine o una modesta metafora. La ginestra è il modo attraverso il quale il poeta può varcare i confini del finito e individuare nuovi orizzonti: Leopardi non inventa, non elabora, non invia messaggi, ma costruisce, costruisce un percorso che di volta in volta fa i conti con quanto vissuto in precedenza, per porre nuove basi. Lo fa nello stesso modo in cui si sviluppa la vita: a spirale, per continuità, in modo evolutivo, collocandosi sempre al margine del caos. Si tratta di un metodo che colloca Leopardi tra i grandi poeti moderni e ne fa un precursore della grande poesia moderna, quella che insieme alla scienza della complessità ha ribaltato i tradizionali punti di riferimento.

 

Se proviamo a leggere Leopardi alla luce di queste acquisizioni allora usciamo dal pantano in cui una critica tradizionalista lo ha collocato: né illuminista né romantico, né eroico né idillico, né classico né moderno (alla Staël), né pessimista né ottimista, né materialista né idealista. E così via. E neppure un po' e un po', e neanche qua così e là nel suo opposto, ma neanche una miscela delle posizioni contrapposte.

La poesia di Leopardi è il primo esempio completo di ricerca e costruzione della propria persona, attraverso lo strumento stesso del poetare, fornendo un modello di come cominci a delinearsi la forma dell’IO moderno e allo stesso tempo della poesia moderna.

Seguire il percorso poetico leopardiano attraverso l’evoluzione della sua poesia permette di entrare dentro una realtà dell’uomo ben più profonda rispetto agli episodi di cui siamo a conoscenza e che lo riguardano, come pure rispetto alle sue riflessioni, interessanti ma astratte, presenti sia nello Zibaldone sia nei Pensieri.

C’è una costante in quel percorso evolutivo e questa costante, pur essendo presente in altri poeti come Petrarca, Tasso e Foscolo, solo qui sviluppa tutto il suo potenziale. Questa costante è per l’appunto l’IO.

“io solo combatterò, procomberò sol io” (All’Italia, vv.37-38).

“Ecco voglioso anch’io ad onorar nostra dolente madre” (Sopra il monumento di Dante, vv.69-70).

“Io son distrutto né schermo alcuno ho dal dolor” (Ad Angelo Mai, vv.34-35).

“Tornami a mente il dì che la battaglia d’amor sentii la prima volta” (Il primo amore, vv.1-2).

“Vive quel foco ancor, vive l’affetto, spira nel pensier mio la bella imago, da cui, se non celeste, altro diletto giammai non ebbi, e sol di lei m’appago” (Il primo amore, vv.100-103).

 

L’IO leopardiano occupa sempre di più la scena, diventando centrale a partire dagli Idilli.

“Ahi pentirommi e spesso, ma sconsolato, volgerommi indietro” (Il passero solitario, vv.58-59).

Ne L’infinito l’IO rappresenta il tessuto connettivo della poesia; ne ho già parlato e non occorre ripetersi. Ed è da questo momento che ogni idillio diventa lo scavo del poeta nella propria anima: La sera del dì di festa, Alla luna, Il sogno, La vita solitaria dove ritroviamo il Leopardi seduto di cui parla Bigongiari (Talor m’assido in solitaria parte, v.23), Il Risorgimento, A Silvia, La quiete dopo la tempesta. La stessa presenza dominante dell’IO poetico la ritroviamo nelle poesie del Ciclo di Aspasia e infine nella Ginestra, vero e proprio testamento.

Naturalmente questo IO non si impone fin da subito, ma è sempre presente anche in quelle poesie che più sono rivolte al mondo esterno; esso poi occupa la scena da protagonista e, seppure Leopardi non sia solo questo (basta pensare alle Operette Morali), è in tutti quei versi che vale la pena seguire il suo percorso, soffermarsi sulle immagini e le analogie, cercare di dialogare con quell’anima tormentata (ogni anima vivente è necessariamente tormentata) e finire col naufragare in quel mare.

La poesia diventa poiesia e costruzione della persona.

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