Alessandro Manzoni |
Oltre l’inno alla religione |
Quanti
italiani hanno imparato o migliorato la lingua grazie alla lettura de I
promessi sposi nelle scuole? Molti. E questo fu l’intento dei primi governi
del Regno, dopo l’Unità, che sarebbero contenti della loro scelta. Ancora oggi
in molte scuole, soprattutto nei Licei, si continua la lettura del romanzo
manzoniano, non più certo per motivi linguistici, ma per la riconosciuta
importanza letteraria. In molte scuole, senz’altro la maggioranza, invece ci si
è liberati di questa incombenza, considerata un vero e proprio fardello e si è
preferito orientarsi verso romanzi di attualità, a dimostrazione che la classe
docente ha perso di vista il senso di ciò che è classico: in fondo perché dare
loro torto se persino Papa Francesco si interessa più ai problemi sociali che
al senso della Fede? Sono rimasti, al di fuori dei Licei, solo i professori di
Comunione e Liberazione, molto più numerosi di quanto si creda, ma lo fanno per
motivi ideologici: quale libro meglio de I promessi sposi può illustrare
i meriti della religione cattolica?
Quando ci si
allontana dalle radici culturali che in qualche modo la classicità cerca di
interpretare si finisce preda dell’ideologia che oscilla tra il rifiuto della
religione (forte dopo il ’68), l’esaltazione della stessa (vedi i movimenti
cattolici) e l’illusione che il presente non abbia radici.
A dispetto
del comune senso dominante, Manzoni rimane lì imperterrito a guardarci e
continua a parlarci impedendo che venga dimenticato. C’è un aspetto, ricco di
ambivalenze, che deve essere messo in evidenza, un aspetto che, se da un lato
deprime l’opera manzoniana, dall’altro ne legittima il valore. Anni fa la
televisione trasmise una simpaticissima serie di un trio divertente e famoso
che raccontava I promessi sposi. Era una parodia che nulla aveva a che
vedere col romanzo, se non la presenza di personaggi con gli stessi nomi e
qualche vago riferimento agli episodi: gli italiani si divertirono molto,
perché in qualche modo sapevano di cosa si parlava e dunque si sentirono
protagonisti. Era un po' come spettegolare della vicina di casa. Oggi parlare
de I promessi sposi evoca alla mente di molti quella trasmissione
televisiva: il romanzo sfuma nella nebbia e si appresta a scomparire, ma la
trasmissione, certamente contro la sua volontà, ha dissolto la nebbia e fatto
riapparire l’opera.
E’ con questa
e di questa che io mi voglio occupare.
Del come e
non del cosa.
Per molti
versi gli scritti di Manzoni, in poesia e in prosa, sono riconducibili a un
percorso deterministico, estremamente lineare: tutto comincia con la
conversione religiosa dopo un’adolescenza laica e illuminista; subito
l’esaltazione, da perfetto neofita, della nuova fede con gli Inni sacri.
In seguito la linearità risulta disarmante e quasi laplaceana, con Tragedie
ed Odi che terminano con l’esaltazione del Dio che atterra e che
consola, accompagnando il personaggio scelto verso i fervidi campi del Paradiso,
perché solo la morte mette fine al dolore, alla sofferenza, al sopruso. In
questa fase per Manzoni l’uomo può solo fare o subire violenza, non c’è
speranza. Questo atteggiamento è in sintonia con la visione pessimistica
dell’uomo che ha il milieu nel quale Manzoni aveva maturato la conversione, e
cioè il giansenismo, che recuperava aspetti protestanti nel dogma cattolico. La
sventura è provvida perché non viene a caso, garantendo a chi l’ha subita un
avvenire di gioia, sebbene solo dopo la morte: nella vita terrena non c’è
speranza. Ermengarda, Adelchi e persino Napoleone si sottraggono al giudizio
della Storia e grazie alla sofferenza patita, chi prima chi dopo, possono
ascendere al Paradiso e godere della gioia eterna.
Nella stesura
del romanzo, Manzoni si trovò di fronte a problemi di ordine letterario che
cercò di conciliare con la sua riflessione religiosa: la prosa è cosa diversa
dalla poesia, il romanzo e la tragedia si collocano su due sponde diverse, i
personaggi storici non possono essere gli unici che interessano lo scrittore
cristiano. Le tragedie non sono molto diverse dagli Inni sacri, nel senso che
servono a Manzoni soprattutto da un punto di vista ideologico (in questo caso
religioso), mentre il romanzo permette allo scrittore di estendere la propria
cultura, e la propria fantasia, in forme molto più ricche, soprattutto ora che
si è formata una classe media capace di scrivere, leggere, riflettere. E’ ciò
che un altro romantico milanese di quegli anni, Giovanni Berchet, aveva
chiamato “popolo” per distinguerlo dagli “ottentotti” e dalla “nobiltà”.
In questo
processo da Urania, agli Inni, alle Tragedie, al Romanzo
Manzoni segue un percorso lineare, facilmente riconducibile a schemi e
all’ordine di quella che è considerata la vita di un uomo. L’adolescente
ribelle si lega agli eredi dell’Illuminismo, mentre l’uomo adulto sposa la Fede
cristiana che perfeziona attraverso tre stadi in cui non c’è l’ombra di rotture
e contraddizioni, ma solo un approfondimento conoscitivo e professionale. Si
confronta con il canone religioso, ne approfondisce l’aspetto che più gli
permette di caratterizzare poeticamente il proprio lavoro per approdare a
quella che è, dopo il Concilio di Trento, la dimensione più propria del
cattolicesimo, la sua anima positiva e popolare.
Mi sono
chiesto dunque perché mettere Manzoni in un Corso di letteratura non
deterministica, visto che tutto lo colloca in una progressione lineare,
senza salti né sbalzi e tanto meno senza mai trovarsi in quello che la
complessità chiama “il margine del Caos”, il luogo dove avvengono le
trasformazioni, dove si crea la vita, dove l’autorganizzazione procede,
riconoscendosi e allo stesso tempo non riconoscendosi nelle proprie origini.
La risposta
non è facile soprattutto in un universo letterario, di scrittori e lettori, che
preferisce la semplicità della contrapposizione, contrapposizione che non può
che essere ideologica, indipendentemente dal fattore che informa di sé
l’ideologia. Oggi va di moda, soprattutto in certi ambienti esteri, la condanna
tout court della letteratura bianca, maschile, eterosessuale, occidentale tanto
da portare a veri e propri pogrom (è di questi giorni la morte-suicidio di Mike
Adams costretto alle dimissioni dall’Università della Carolina del Nord) che si
sono sfogati contro le statue (in Italia ne ha subito i colori Indro
Montanelli).
L’ideologia è
una brutta bestia anche se ha perso i connotati comunisti e nazisti, perché si
ricrea sempre nuova e sempre eguale: pensiamo al criterio dell’appropriazione
culturale che viene usato per mettere a tacere i non politicamente corretti e
condannando di fatto quella libertà di pensiero e di stampa che è alla base
della crescita civile in tutto il mondo.
Dunque,
perché ho trovato posto per Manzoni in questa serie di articoli, quando io
stesso ho riconosciuto il carattere lineare e deterministico della sua
produzione? Perché, a dispetto del suo percorso, in diversi punti egli riesce
ad andare oltre quei limiti di metodo e di prospettiva che gli riconosco, cosa
che caratterizza, chi più chi meno, tutti gli scrittori: è il grande merito
della letteratura, quello di saper scovare zone d’ombra da illuminare dentro le
parole che servono alla costruzione di una poesia o di una narrazione.
Merito della letteratura e anche merito di Manzoni, come di altri scrittori che
non hanno trovato posto qui solo perché meno noti o perché la loro produzione è
meno vasta.
Il “cosa” nel
percorso manzoniano è molto chiaro e facilmente riconducibile alla tradizionale
mimesi o letteratura di imitazione: il poeta sa cosa vuole scrivere per parlare
dell’importanza di momenti centrali del cattolicesimo, sa di cosa vuol parlare
descrivendo il dramma del Conte di Carmagnola, di Ermengarda e Adelchi, ha poi
in testa una storia ben intrecciata di eventi e personaggi della Lombardia
seicentesca; ebbene si mette lì e compone. Distingue tra poesia e prosa, studia
le cronache del tempo, si fa un’idea che realizza a seconda delle sue
convinzioni, ad esempio ci propone un Conte di Carmagnola vittima là dove gli
studiosi propendono per riconoscerlo come un traditore. Nel caso del romanzo
deve impegnarsi di più, perché non può essere sintetico come nelle tragedie e
deve studiare il periodo, ricercare tra gli studi del tempo e narrazioni di
episodi allora avvenuti, deve usare un linguaggio più facile e scorrevole, il
tutto condito da un interesse per la materia che deve coinvolgere (stupire,
appassionare, emozionare, divertire) un pubblico più vasto. Nel caso della
poesia, una volta definiti i personaggi, la storia, il suo sguardo, fece
ricorso al mestiere, strofe versi figure retoriche, insomma il poeta diventa un
bravo artigiano in cui “il come” è deterministicamente dipendente dal “cosa”.
Con queste
premesse andrei poco lontano, ma ho voluto insistere su questo aspetto non per
ridurre l’importanza dello scrittore milanese, ma al contrario per mostrare
come, anche in un autore così “normale” e “tradizionale”, si insinua un tunnel
scavato da chissà quale tarlo e capace di portarci, anche se solo per tempi e
spazi limitati, in un universo del tutto nuovo. Eccoci dunque arrivati alla
fine del tunnel. Cosa vediamo?
L’occhio e la
mente devono essere attenti, molto attenti, evitando di farsi trascinare
dall’emozione o dal sentimento religioso, evitando di riempire il vuoto
letterario con la quantità di utili informazioni, evitando di curiosare tra ritmi,
rime, descrizioni.
Prendiamo il
celebre Coro dell’Adelchi, noto anche come “Lamento di Ermengarda”.
Leggiamo i primi 12 versi, quelli che presentano la ex-moglie di Carlo Magno e
figlia di Desiderio, Longobarda per nascita e Franca per esperimento sociale di
carattere coniugale. Non può non colpire la quantità di aggettivi: tredici
aggettivi che svolgono diverse funzioni, tutte poietiche. Abbiamo imparato da
Petrarca il carattere né ornamentale né descrittivo degli aggettivi, bensì la
loro funzione decisiva nello scavare dentro le pieghe dell’anima. “Morbide,
affannoso, lenta, rorida, bianco, tremolo, gelida, leggiera, cerula, estremo”
benché accoppiati a sostantivi concreti, addirittura corporei, come “trecce,
petto, palme, aspetto, sguardo, fronte, mano, pupilla, velo”, vanno letti
in funzione analogica, indipendentemente dalla costruzione letteraria
dell’accusativo di relazione (“sparsa le trecce morbide” è “con le trecce
morbide sparse”, “lenta le palme” è “con le mani abbandonate”, “rorida di morte
il bianco aspetto” è “con il volto bianco umido di morte”). Quegli
aggettivi, per la loro caratteristica, per la loro densità e per la loro
collocazione vanno tolti dal contesto e isolati perché solo così sono capaci di
andare al di là della semplice descrizione e approdare a una dimensione di
complessità. In due strofe Manzoni ci inonda di aggettivi che, come avviene in
Petrarca, segnano il territorio e permettono di aprire un canale di
comunicazione che la semplice descrizione (soprattutto fisica) chiuderebbe. Con
tredici aggettivi in dodici versi di settenari (cioè 84 sillabe) scompare il
personaggio storico, scompare la donna, scompare la moglie, scompare la figlia,
scompare la sorella e rimane qualcosa di complesso e qualitativamente superiore
che appartiene, in tutto o in parte, a ciascuno di noi.
In genere la
maggior parte dei lettori si concentra su altri aggettivi, tre, che si trovano
nella prima, terza, quarta strofa: la pia (v.5), o gentil (v.13),
la mesta (v.19). Certo essi sono importanti, ma ci riconducono nella
dimensione ben precisa del personaggio storico e del suo dramma che è
personale, naturalmente, ma soprattutto storico (il conflitto tra Franchi e
Longobardi e il rifiuto della sposa da parte di Carlo Magno). Altri aggettivi
seguono nelle strofe successive con la stessa funzione conclusiva: cara,
improvida, ebbra, invidiata, tenera (v.31, 33, 36, 52). E’ altrove che
dobbiamo cercare, anzi frugare, perché, mentre la parafrasi del testo risulta
estremamente semplice, non facile è aprire il portone giusto, quello che ci
permette di gustare il profumo dei limoni.
C’è un altro
aggettivo che in questo coro Manzoni ripete ed è “placido”: ai versi
71-72 scrive “e il cor diverte ai placidi gaudii d’un altro amor”, cioè
“una parola amica porta il cuore di Ermengarda in un’altra direzione, quella
delle placide gioie dell’amore divino”. Al verso 105: “muori compianta e
placida”. La doppia presenza obbliga a uno scavo dentro la parola, che non
è una parola semplice, un aggettivo qualificativo qualsiasi, ma è una tra le
parole più complesse che possiamo incontrare. Vediamo.
Il dizionario
etimologico, etimo.it, la fa derivare dal latino placére, andare a
genio, piacere. Non possiamo fermarci: questo significato non soddisfa le due
frasi. Piacere deriverebbe sempre da placére (aggradire, andare a genio) con il
participio placitus, affine a placare (essere piano, liscio), praticamente
piace ciò che è appianato, liscio, senza ostacoli o escrescenze che di per sé
sono fastidiose.
Torniamo a
Manzoni.
L’amore
divino è portatore di gioie prive di increspature, placate, e dunque che danno
piacere. Non solo, ma la stessa Ermengarda è finalmente gioiosa perché placata.
Questa insistenza mostra l’importanza del come, della parola, e ci permette di
collegare il piacere con l’aver placato tutte le ansie che caratterizzano la
vita di un uomo. Oggi questo richiamo a un piacere placato è insufficiente, ma
rimane il valore, notevole, del metodo, l’uso cioè della parola non tanto
perché capace di rinchiudere un significato, ma al contrario sempre più vasta e
impegnata a stabilire collegamenti, anzi corrispondenze.
Lasciamo le
tragedie e passiamo a I promessi sposi, di cui non farò il
classico excursus compositivo, dalla prima stesura all’edizione definitiva. Il
romanzo mette alla prova lo scrittore come i versi non avevano potuto fare,
perché ha bisogno di un vocabolario quasi infinito per poter dipanare le
numerose vicende attraverso i numerosi personaggi. Non c’è dubbio che il
romanzo rappresenti il trionfo della Fede in maniera completamente nuova e
facilmente leggibile nelle straordinarie ramificazioni che le vicende assumono
pagina dopo pagina. Il Concilio di Trento aveva aperto il messaggio cristiano
ad una lettura popolare e in tal modo aveva permesso che la Fede cristiana si
diffondesse in forme sempre più mature e consapevoli; in questo contesto, che è
legato all’alfabetizzazione crescente delle masse popolari, si inserisce
Manzoni utilizzando la forma romanzo per proseguire quell’opera di divulgazione.
Entrano in scena personaggi umili i quali sono presentati nelle diverse
sfaccettature che finalmente la prosa narrativa può permettere.
Diverse
figure femminili rendono conto non solo del tempo, del luogo e della condizione
sociale, ma anche del carattere che non è uniforme e che si intreccia e si
sviluppa in una serie di relazioni che non sono mai statiche.
Lo stesso
vale per i personaggi maschili, umili e potenti, come se ne trovano in una
società che non viene semplicemente rappresentata ma che si muove parola dopo
parola e pagina dopo pagina. Non è un problema di credibilità, di fatti e personaggi,
né è molto importante riconoscere a Manzoni la sterminata e approfondita
ricerca storica con la quale voleva essere il più vicino possibile alla
rappresentazione della realtà. Possono esserci fatti poco credibili, come ad
esempio la conversione dell’Innominato, anche se Manzoni cerca di radicarla in
una riflessione già in corso senza attribuirla tout court alla presenza di
Lucia. La stessa Lucia ha suscitato spesso molti dubbi in una rappresentazione
così diversa da quella della madre Agnese o della governante di Don Abbondio,
la Perpetua. Lo stesso popolo viene mostrato quando si muove collettivamente, lasciando
indispettiti i lettori che vedono i movimenti popolari solo con la lente del
Bene: non sempre la lotta di popolo è espressione di verità e giustizia.
Il romanzo è
ricco di rappresentazioni, storie e avvenimenti, figure dalle svariate forme e
dai più diversi comportamenti e i critici si sono sbizzarriti nel cercare di
trovare chi fosse il fatidico “personaggio principale”: si è passati dai singoli
personaggi (Don Abbondio, scrisse Sciascia, rappresenta l’italiano medio) a
qualcosa di storicamente ampio e definito come il Seicento per arrivare a
qualcosa di ancora più grande e difficile da contenere: la Provvidenza. Non
intendo muovermi su questa strada perché si finisce con lo stabilire delle
gerarchie, cosa che di per sé non è sbagliata, ma che ci impedisce di andare
oltre la rappresentazione, finendo col rendere statico e immobile qualcosa che
invece ha una struttura molto più complessa. Ciò che abbiamo studiato a scuola,
e per anni insegnato, è ciò che è presente nei differenti manuali, più o meno
innovativi. Si tratta di verità indubbie che hanno il pregio di avvicinare un
adolescente a un’opera letteraria, ma hanno il difetto di mantenere le distanze
dovendo fare ricorso alla sola dimensione ideologica: e così lentamente anche I
promessi sposi hanno cominciato a lasciare la scuola, perché indifferenti
alla rapidità dei tempi moderni.
Troppo spesso
dimentichiamo che ogni opera letteraria è invece un corpo vivente che spetta a
noi nutrire e questo riguarda persino anche un romanzo che ha nella storia e
nella società i suoi punti di riferimento.
La conoscenza
è un fatto fondamentale per ognuno di noi e, senza il romanzo manzoniano, molti
di noi non saprebbero che nel 1600 in Lombardia comandavano gli Spagnoli, che
in quel periodo si sviluppò una non comune pestilenza, che la cultura di molte
persone anche di un certo status era povera cosa, che il popolo sentiva la
Chiesa vicina, e che in essa operavano persone un po' codarde, altre di buon
cuore, qualcuno superiore come Fra Cristoforo ed esempi luminosi come il
Cardinale Borromeo. Insomma qualche lettore si sarà meravigliato che Bergamo fosse
veneta e che l’amore di Lucia (ma anche di Renzo) fosse pudico, qualche altro
ben informato avrebbe avuto da ridire su una Chiesa così presente e
sostanzialmente benefica.
Un popolo
istruito è un fattore positivo per la società, come pure l’allargamento del
proprio lessico.
Rimane però
un dubbio circa l’acquisizione di tanti contenuti.
Qualche
decennio fa essi erano il patrimonio necessario, diciamo la base, perché un
individuo aspirasse a carriere di un certo peso, meccaniche o umanistiche che
fossero. Le conoscenze erano gerarchiche e la letteratura allargava gli
orizzonti dei lettori. Ma oggi tutto ciò ha un senso? Oggi che il mondo
presenta una vastità di elementi e di orizzonti tale che la narrazione che
ritroviamo ne I promessi sposi è, al contrario di un tempo, un
restringimento di orizzonti?
Non si tratta
di ignoranza o di trionfo della supertecnologia se i romanzi segnano il passo,
rischiando che la loro lettura rimanga una pratica individuale e solipsistica, usata
per favorire il sonno, riposto il libro sul comodino e spenta la luce.
C’è qualcosa
che sfugge e che il romanzo manzoniano può aiutarci a recuperare. Dopo decenni
di dominio razionale dagli anni ’70 del secolo scorso sempre più spazio occupa
il sentimento e così è l’eterno ritorno dell’antitesi sentimento-ragione come
se i due aspetti non potessero integrarsi. E’ per questo se qualche romanzo
oggi viene letto, al di fuori della fede ideologica (quanti libri su Berlusconi
e la politica!), ciò avviene perché il libro deve emozionare, suscitare
sentimenti, coinvolgere il lettore. Appare evidente che con queste premesse I
promessi sposi debbano ammuffire in soffitta oppure servire per accendere
il fuoco.
Il romanzo di
Manzoni è invece uno dei migliori esempi dell’utilità della lettura di romanzi
anche nell’epoca degli hacker, delle spedizioni su Marte, degli LGBT e
compagnia bella. E così torniamo a quello che ormai appare chiaro essere il
refrain di questi miei articoli: il come e non il cosa.
Come ho già
scritto poche righe sopra la conoscenza degli avvenimenti narrati nell’opera è
poco adeguata e conveniente (cioè non serve a nulla) e così pure il
coinvolgimento emotivo-sentimentale è difficile che si presenti. Lucia è più
facile deriderla, Renzo è un sempliciotto senza arte né parte, Fra Cristoforo è
superato da Falcone e Borsellino, il Cardinal Borromeo è una pallida copia di
Papa Wojtyla o Ratzinger, l’Innominato è figura d’altri tempi, oggi ci si pente
per i benefici di giustizia, Don Rodrigo è uno dei tanti capetti camorristi su
cui giornali e stampa ci hanno tenuto informati quotidianamente e, infine, la
peste è malattia antica nell’epoca del multinazionale Covid-19.
Dunque perché
un articolo su Manzoni? Per passatismo? Per enciclopedismo? Per rispetto dei
nostri avi? Perché è scritto bene? Perché lo prevede il programma ministeriale?
No, certo.
Perché, come
la maggior parte dei romanzi, educa alla complessità.
Esiste
l’esercizio frutto di secoli di cultura deterministica che porta il nome di
“reductio ad unum”, la ricerca della causa generatrice del fenomeno che ci
interessa. Il romanzo in generale, come nuovo modo di scrittura, mette in crisi
quel metodo e I promessi sposi lo fanno in modo ancora più egregio.
Vedere in questo romanzo il trionfo della Fede o l’analisi della Storia o la
disamina di una società priva il romanzo di quella che è la sua caratteristica
principale, ovvero la complessità. Non parlo qui di complessità nel senso di
moltitudine, di quantità, ma nel senso più moderno del termine, come qualcosa
cioè che propone relazioni e interconnessioni, che accenna ad eventi,
situazioni, istituzioni e personaggi che non sono presenti ma che sono
collegati, dando vita così a una rappresentazione reticolare. Oggi molto spesso
per cercare di comprendere la complessità si cita il cervello con il suo
intricatissimo sistema di neuroni e sinapsi, ma basterebbe citare la vita reale
che è, da sempre, l’esempio migliore di complessità. E ne I promessi sposi
troviamo tutto questo. Purtroppo non riusciamo a vederlo non perché il romanzo
presenti delle lacune, ma più modestamente perché le lenti che usiamo non sono
adeguate. Infatti siamo sempre lì a cercare il filo logico, cosa tiene insieme i
diversi elementi, dimenticando che tale filo non esiste e che molte cose
succedono indipendentemente dalla volontà dei singoli e tirare in ballo la
Provvidenza è nascondere la complessità della vita umana.
Don Abbondio
non è certo un luminare e Renzo e Lucia vogliono approfittarne, ma le cose
vanno storte e il matrimonio di sorpresa non funziona: noi crediamo che sia
l’arte di Manzoni per arricchire la storia, in realtà è la vita in una delle
sue tante possibilità. Don Rodrigo è un personaggio potente e ben
legittimato a rapire Lucia, ma il gioco non riesce, anche qui perché questa è
una delle possibilità della vita umana: non l’eccezione che conferma la regola,
ma la regola stessa che è tutto meno che uniforme. La peste miete vittime come
lo farà la spagnola e il Covid e molti credono che venga diffusa porta a porta
dagli untori; eppure questo atteggiamento non scomparirà nei secoli successivi
nonostante la conoscenza scientifica di batteri e virus. La vita umana si siede
su se stessa e allo stesso tempo imprime un’accelerazione che non ci aspettiamo
e che ha le sue radici proprio in quel suo apparente immobilismo: Manzoni non
conobbe gli studi di Pasteur e ci lascia nelle mani della realtà, che purtroppo
non sempre riesce a convincere i malati di ideologia. La punizione divina,
adombrata in Boccaccio e Manzoni, è oggi sostituita, nell’epoca del Covid-19,
dalle colpe del capitalismo. Manzoni può anche credere che ci sia un piano di
Dio dietro tutto questo, ma non ha senso citare due o tre frasi trovate qua e
là nel romanzo per giustificare un’idea e creare una teoria. E’ molto più
importante la realtà che si impadronisce dello spazio scritto e ci suggerisce
intrecci e relazioni che vanno ben oltre un’opinione.
E veniamo a
Gertrude, il personaggio più interessante di tutto il romanzo, figura ripresa
dalla letteratura scapigliata e verista, ma che trova qui uno sviluppo ampio e
non lineare. Già la descrizione fisica, se serve a Manzoni per aprirci alle
tensioni interiori della “Signora”, allo stesso tempo parla da sé e ci serve
solo la nostra lente non quella dello scrittore per cercarne il senso.
Ancora una
volta è la complessità della realtà che prende la mano di Manzoni, perché non
esiste volto umano che non porti i segni della propria storia e così è anche
per la Monaca di Monza.
“Il suo aspetto, che poteva dimostrar venticinque anni, faceva a prima
vista un'impressione di bellezza, ma d'una bellezza sbattuta, sfiorita e, direi
quasi, scomposta. Un velo nero, sospeso e stirato orizzontalmente sulla testa,
cadeva dalle due parti, discosto alquanto dal viso; sotto il velo, una
bianchissima benda di lino cingeva, fino al mezzo, una fronte di diversa, ma
non d'inferiore bianchezza; un'altra benda a pieghe circondava il viso, e
terminava sotto il mento in un soggolo, che si stendeva alquanto sul petto, a
coprire lo scollo d'un nero saio. Ma quella fronte si raggrinzava spesso, come
per una contrazione dolorosa; e allora due sopraccigli neri si ravvicinavano,
con un rapido movimento Due occhi, neri neri anch'essi, si fissavano talora in
viso alle persone, con un'investigazione superba; talora si chinavano in
fretta, come per cercare un nascondiglio; in certi momenti, un attento
osservatore avrebbe argomentato che chiedessero affetto, corrispondenza, pietà;
altre volte avrebbe creduto coglierci la rivelazione istantanea d'un odio
inveterato e compresso, un non so che di minaccioso e di feroce: quando restavano
immobili e fissi senza attenzione, chi ci avrebbe immaginata una svogliatezza
orgogliosa, chi avrebbe potuto sospettarci il travaglio d'un pensiero nascosto,
d'una preoccupazione familiare all'animo, e più forte su quello che gli oggetti
circostanti. Le gote pallidissime scendevano con un contorno delicato e
grazioso, ma alterato e reso mancante da una lenta estenuazione. Le labbra,
quantunque appena tinte d'un roseo sbiadito, pure, spiccavano in quel pallore:
i loro moti erano, come quelli degli occhi, subitanei, vivi, pieni
d'espressione e di mistero. La grandezza ben formata della persona scompariva
in un certo abbandono del portamento, o compariva sfigurata in certe mosse
repentine, irregolari e troppo risolute per una donna, non che per una monaca.
Nel vestire stesso c'era qua e là qualcosa di studiato o di negletto, che
annunziava una monaca singolare: la vita era attillata con una certa cura
secolaresca, e dalla benda usciva sur una tempia una ciocchettina di neri
capelli; cosa che dimostrava o dimenticanza o disprezzo della regola che
prescriveva di tenerli sempre corti, da quando erano stati tagliati, nella
cerimonia solenne del vestimento.”
Certo Manzoni
vuol introdurci dentro i turbamenti e la complessità della persona, ma, a differenza
di Lucia che è monocromatica, Gertrude è un personaggio molteplice e
poliedrico. Certo è bella, ma la sua bellezza è scomposta, forse sbattuta,
forse sfiorita, ma non siamo di fronte a una modella e dunque perché
meravigliarsi? Gli occhi, neri neri, si fissavano alle persone per indagare o
si chinavano per ritrarsi. Esprimevano superbia, forse odio, ma anche la
dolcezza di chi continua a cercare affetto e pietà. E così le gote e
soprattutto le labbra: una donna espressiva e misteriosa il cui corpo e il cui
portamento e persino l’abbigliamento lasciavano trasparire qualcosa di
indecifrabile e che la storia che Manzoni si accinge a raccontare non riuscirà
a svelare compiutamente. Gertrude è un personaggio unico, lontano da tutte le
rappresentazioni monacali a cui siamo stati abituati; non è migliore né
peggiore delle altre, non è né demone né angelo. Per questo ricondurla ad
un’unica prospettiva, come spesso si fa, non rende ragione dello sforzo dello
scrittore nella rappresentazione di qualcosa che è la vita (non lo scrittore) a
rendere complesso. Le notizie storiche e geografiche fanno parte del patto
narrativo tra scrittore e lettore: di esse non si può fare a meno. Il resto
invece rappresenta l’unicità della monaca che passa da persona a personaggio
per tornare persona, in un intreccio di relazioni che non è semplicemente
psicologico.
Gertrude deve
fare la monaca, anzi la badessa, così ha deciso il Principe suo padre, nessuna
meraviglia. E lei è contenta, anzi si sente esaltata: “Gertrudina, nudrita nelle idee della sua
superiorità, parlava magnificamente de' suoi destini futuri di badessa, di
principessa del monastero, voleva a ogni conto esser per le altre un soggetto
d'invidia”. (la volontà di potenza è realtà comune). Se
non che nel periodo necessario prima dei voti per vedere la sincerità della
vocazione, Gertrude entra in crisi, perché lei “vedeva con maraviglia e con dispetto, che alcune di quelle (sue compagne)
non ne sentivano punto (di entusiasmo). All'immagini maestose, ma circoscritte
e fredde, che può somministrare il primato in un monastero, contrapponevan esse
le immagini varie e luccicanti, di nozze, di pranzi, di conversazioni, di
festini, come dicevano allora, di villeggiature, di vestiti, di carrozze.
Queste immagini cagionarono nel cervello di Gertrude quel movimento, quel
brulichìo che produrrebbe un gran paniere di fiori appena colti, messo davanti
a un alveare.”
Manzoni
riconduce il tutto (come poteva fare diversamente?) al carattere, come se queste
idee fossero più nella sua natura, ma noi oggi abbiamo strumenti per leggere
meglio quelle riflessioni. Non c’entra la natura né il carattere, se non per
minima parte; gli eventi seguono linee non sempre rintracciabili e spesso il
frutto di incontri e scontri, di breakdown che portano in una direzione invece
che in un’altra. Non starò qui a riproporre il percorso presentato da Manzoni,
se non per brevi punti, utili a una ricostruzione del racconto che ci porta
oltre lo spazio, oltre il tempo, oltre la psicologia. Dentro la rete di
relazioni complesse. Di grande attualità, sul peso che la famiglia, senza
violenza esplicita, può esercitare su un’adolescente. La determinazione di
Gertrude a pretendere rispetto per la propria volontà, l’esigenza di dialogare
con il padre che la trasforma in vittima designata, ("O mi vorranno forzare", pensava, "e io
starò dura; sarò umile, rispettosa, ma non acconsentirò: non si tratta che di
non dire un altro sì; e non lo dirò. Ovvero mi prenderanno con le buone; e io
sarò piú buona di loro; piangerò, pregherò, li moverò a compassione: finalmente
non pretendo altro che di non esser sacrificata. Ma, come accade spesso di
simili previdenze, non avvenne né una cosa né l'altra), l’isolamento a cui viene sottoposta per limarne la
volontà, fino a che la sua giovinezza non la fa avvicinare affettuosamente a un
paggio. Ecco che il cerino acceso le rimane in mano. E a quel punto il gioco è
fatto: sensi di colpa, solitudine, convivenza con una guardiana cattiva, ma
soprattutto l’isolamento la spingono a tornare dalla famiglia a capo chino.
Monaca di clausura in famiglia “al
paragone di ciò che poteva temere in certi momenti, la condizione di monaca
festeggiata, ossequiata, ubbidita, le pareva uno zuccherino. Due sentimenti di
ben diverso genere contribuivan pure a intervalli a scemare quella sua antica
avversione: talvolta il rimorso del fallo, e una tenerezza fantastica di
divozione; talvolta l'orgoglio amareggiato e irritato dalle maniere della
carceriera, la quale (spesso, a dire il vero, provocata da lei) si vendicava,
ora facendole paura di quel minacciato gastigo, ora svergognandola del fallo.
--- Sentì allora un bisogno prepotente di vedere altri visi, di sentire altre
parole, d'esser trattata diversamente. Pensò al padre, alla famiglia: il
pensiero se ne arretrava spaventato. Ma le venne in mente che dipendeva da lei
di trovare in loro degli amici; e provò una gioia improvvisa. Dietro questa,
una confusione e un pentimento straordinario del suo fallo, e un ugual
desiderio d'espiarlo. Non già che la sua volontà si fermasse in quel
proponimento, ma giammai non c'era entrata con tanto ardore. S'alzò di lì, andò
a un tavolino, riprese quella penna fatale, e scrisse al padre una lettera
piena d'entusiasmo e d'abbattimento, d'afflizione e di speranza, implorando il
perdono, e mostrandosi indeterminatamente pronta a tutto ciò che potesse
piacere a chi doveva accordarlo.”.
Il capitolo
IX è in questo senso esaustivo di una presenza reale, molto più reale di tante
riproduzioni anche più moderne, perché la realtà che qui Manzoni riesce a
comunicarci non appartiene né allo storico né al letterato, ma al poeta, a
colui cioè che riesce a immergerci dentro una dimensione fatta di intrecci,
relazioni che ci aiutano a leggere la nostra storia, individuale e personale,
senza i soliti stereotipi.
Il capitolo X
completa il flash back e ci informa sulla vita in Convento di Gertrude. I
giochi sono fatti, a dimostrazione che nella vita di ognuno di noi esistono
momenti di particolare importanza che creano una nuova realtà, quelli che la
scienza della complessità chiama “emergenze” e che si collocano “al margine del
Caos”: lì avviene la ricomposizione dei fattori che poi riprenderanno la strada
che la loro nuova conformazione esige. Ma la nuova realtà non è interamente
nuova, perché si porta dietro aspetti, elementi, suoni e colori della realtà
precedente. La famiglia ha vinto, Gertrude ha perso, ma non rinuncia alla vita
prendendo atto della nuova ricomposizione del quadro delle relazioni.
Non ha senso
colpevolizzare il padre e soprattutto ricondurne le scelte allo status sociale
secondo il cliché purtroppo ancora in uso del “poveri ma belli”, per cui i
ricchi e i potenti sono per definizione cattivi, anzi malvagi.“La vicenda di Gertrude è anche
esemplare del male insito nel mondo del potere e nella stessa condizione
nobiliare, poiché l'imposizione del padre nasce da motivi che riguardano il
decoro aristocratico e la necessità di lasciare intatto il patrimonio, mentre
alla fine Gertrude è indotta ad accettare il velo pur di non perdere quegli
stessi privilegi nobiliari a cui è in fondo attaccata (il rifiuto comporterebbe
il ripudio da parte della famiglia e, dunque, l'ingresso in una condizione
sociale inferiore, per cui la giovane avrebbe la possibilità di sottrarsi al
suo destino ma vi si abbandona perché non ha la forza di ribellarsi alle
convenzioni della sua classe sociale).” (https://promessisposi.weebly.com/gertrude.html)
E’ invece una relazione normalissima tra due
persone in cui conta la volontà di potenza e non c’è dubbio che il padre ne
fosse dotato in misura maggiore. L’idea che un padre debba rispettare la
volontà dei figli è molto moderna ed è appunto un’idea, cioè qualcosa di
astratto, perché la realtà va in un’altra direzione, molto più fisica e
materiale. L’unica differenza di oggi è che oggi sono molto più numerose le
possibilità di non soggiacere alla volontà paterna o materna (visti i successi
della donna attuale), ma si tratta sempre di volontà di potenza. Allora
Gertrude abbraccia il padre e gli chiede perdono: il senso di colpa è la via
attraverso la quale si impone la volontà di potenza del padre, mentre oggi
succede spesso il contrario, pur non essendo scomparsi quei sentimenti di cui
Gertrude è espressione esemplare. E il padre non si ferma, perché deve
abbattere la volontà residua della figlia: “con
una voce poco atta a rincorare, le rispose che il perdono non bastava
desiderarlo nè chiederlo; ch’era cosa troppo agevole e troppo naturale a
chiunque sia trovato in colpa, e tema la punizione; che in somma bisognava
meritarlo.”
Non è tempo di
moralismi, anche se Manzoni, da perfetto cattolico, idealizza la figura del
padre; infatti la realtà prende il sopravvento. Nessuna ipocrisia, ma l’onore
delle armi, come quasi sempre si è fatto: “
ecco, ” disse, “ la pecora smarrita: e sia questa l’ultima parola che richiami
triste memorie. Ecco la consolazione della famiglia.” E un parente le dirà, con il fare
simpatico che cerca di manifestare il proprio affetto. “ ah furbetta! voi date un calcio a tutte queste
corbellerie; siete una dirittona voi; piantate negl’impicci noi poveri mondani,
vi ritirate a fare una vita beata, e andate in paradiso in carrozza. ”
Il seguito è storia nota e dovrebbe far riflettere molto di più di quanto
pretese sociali e storiche autorizzino. Le sue origini le permetteranno uno
status privilegiato tanto da essere chiamata “La Signora” ed è a questo punto
che la vittima trova sul suo cammino altre vittime, soprattutto le più giovani
alle quali fa da maestra. E poi c’è la relazione con Egidio che porterà
all’omicidio di una monaca che era a conoscenza della loro storia amorosa:
tutto rimane fumoso, ma è certo che ormai la vittima ha imparato la lezione e,
seppur non è esplicitato il suo ruolo nell’omicidio, ormai è diventata
carnefice e non ha problemi a consegnare Lucia.
Mi fermo qui. Vorrei concludere riprendendo una frase che ho detto in
precedenza e che non ho sviluppato direttamente: troppo spesso dimentichiamo che ogni opera letteraria è invece un corpo
vivente che spetta a noi nutrire e questo riguarda persino anche un romanzo che
ha nella storia e nella società i suoi punti di riferimento.
I Promessi
Sposi come un corpo vivente. La frase di
Octavio Paz che cito spesso (Il testo esige la morte del poeta che scrive e
la nascita del poeta che legge) non è una verità assoluta, ma lo strumento
che reputo più utile per dialogare con le opere letterarie, innanzitutto la
poesia ma anche la narrativa. Possiamo dialogare solo con qualcosa di vivo che
scompare appena siamo stati capaci di farlo parlare, perché l’obbiettivo della
lettura non è glorificare lo scrittore, ma nutrire la nostra anima e la nostra
persona.
Negli ultimi
decenni si sono introdotti nuovi sistemi con cui leggere le opere letterarie,
ma in particolare ci si è soffermati su un’analisi storica e sociale che,
grazie in genere a una visione marxista, riproduce strumenti che servono
soprattutto alla propaganda: demonizzare i potenti e i ricchi da un lato e
fornire una lettura vittimistica di chi si trova ai gradini più bassi della
scala sociale. Ho detto “propaganda” perché poi tutto questo ha solo un esito
politico: rivoluzione o voto. E’ così che persino un’opera come I Promessi
Sposi, chiaramente un inno alla religione cristiana, viene recuperato grazie al
concetto di nazional-popolare e, non potendo parlare del proletariato in marcia
verso il Sol dell’avvenire, ci si accontenta degli “umili”.
Ogni lettura parte
sempre da una visione complessiva che spesso non risulta esplicita e così il
cristiano apprezzerà le osservazioni manzoniane: ad esempio, sempre cap. X, “È una delle facoltà
singolari e incomunicabili della religione cristiana, il poter indirizzare e
consolare chiunque, in qualsivoglia congiuntura, a qualsivoglia termine,
ricorra ad essa.”
L’analisi dei
personaggi, altro elemento di novità, verrà fatta o usando criteri riferiti
alla psicologia comune oppure, nei casi più eruditi, a vere e proprie scuole di
pensiero psicoanalitiche. Ci sarà poi chi continuerà a usare il criterio della
bellezza, che però nel corso dell’ultimo secolo ha perso quelle caratteristiche
che ne avevano fatto il punto di riferimento, come il rapporto tra unità e varietà.
Quest’ultimo aspetto si ridurrà in genere alla frase “il romanzo è scritto
bene” oppure “si legge bene, scorre, non è noioso”.
In tutti
questi casi, che qui cito sommariamente e non nella totalità, il lettore da un
lato dipende dall’opera che vede come un monolite, mentre dall’altro la
saccheggia e la violenta per forzarla ad assumere i significati che più
coincidono con la propria visione del mondo. In tutti questi casi non c’è
dialogo; l’opera non è un corpo vivente e il lettore si sente il padrone del
mondo, non molto diverso dal tifoso che inneggia alla propria squadra e deride
l’altrui.
L’opera
d’arte diventa un trofeo, che segna comunque la vittoria del lettore sia che
appartenga al nostro movimento sia che ne siano distrutte le bandiere.
In genere
un’opera letteraria esprime invece una complessità tale che non ha rispondenza
nel comune modo di leggere il mondo ed è questo che dovremmo aver chiaro quando
affrontiamo un testo. Il divario tra la consapevolezza che abbiamo di noi e la
complessità espressa dal libro è la salita che vale la pena intraprendere e che
permetterà di rafforzare la nostra persona. La tendenza, culturalmente e
storicamente fondata, a trovare il motivo conduttore, a identificare come linea
deterministica e unitaria il pensiero e la volontà dell’autore ci portano a
ridurre l’opera, a distruggerne la complessità.
Solo la
scoperta di questa dimensione reticolare e complessa ci permette di crescere.
Solo per
scoprire questa dimensione reticolare e complessa ha ancora un senso la letteratura.
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