Ugo Foscolo
Tanto, troppo, molto: qualcosa


Ripartiamo dalla fine del precedente articolo: “Entrambi (Scienza moderna e Barocco) si posero il problema del senso della vita, un senso che non si esaurisce nelle dinamiche materiali, un senso che non si esaurisce con la fede nel Paradiso. Da allora il senso della vita diventa l’elemento centrale dell’esistenza umana.”
Con Foscolo ci troviamo a una verifica di quella frase. Non fu solo lui, perché questo varrà per la maggior parte dei grandi scrittori di Ottocento e Novecento, a partire dai suoi vicini Leopardi e Manzoni.
Foscolo ci aiuta a capire quanto complessa sia questa ricerca.
Non esistono relazioni sociali e tanto meno socio-economiche a determinare ciò che saremo; non esiste la pura volontà né esistono scelte personali a determinare ciò che saremo: ciò che saremo è un miscuglio interessante e con-fuso di quei due aspetti e di tanti altri che avremo sempre difficoltà a ricostruire pienamente. E’ per questo motivo che occorre ragionare in termini di orizzonti, e non di obbiettivi o sogni, in modo da essere responsabili di tutto ciò che decideremo all’interno del quadro di riferimento che ci ha deciso.
Chiedersi quale è il senso che vogliamo dare alla nostra vita è già dare un senso alla nostra esistenza. L’immagine della rete aiuta ad agire in questa direzione.
E’ per questo motivo che dobbiamo apprezzare Foscolo, uomo e poeta, che visse in pieno le sue contraddizioni con la consapevolezza di chi non si accontenta di essere vissuto. Fin da subito intellettuali e critici hanno compreso il valore di Foscolo, ma lo hanno dirottato sui binari consueti e consumati della passione politica, della passione amorosa, della cultura non banale. Cercando di stare dietro alle contraddizioni del poeta si è finito col legittimare tutto ciò che stava fuori di lui riducendolo a una macchinetta della storia e dell’età. Lo si è rinchiuso nella gabbia del preromanticismo, del romanticismo, del neoclassicismo, del cultore della poesia per la poesia, del poeta vate; ogni volta offuscando il percorso reale dell’uomo che si è servito della parola (e della poesia) per costruire la propria persona e che non ha mai rinunciato a fare i conti con la propria esperienza umana.
Foscolo fu un poeta come tanti, ma fu molto diverso dai più; Foscolo fu un uomo come tanti, ma molto distante dai più.
Come si sa, nacque a Zacinto, isola greca, da sempre veneziana e dopo un breve soggiorno a Spalato, morto il padre, fu portato a Venezia dalla madre: aveva solo 14 anni. Era il 1792, anno fatidico nella Rivoluzione Francese.
Venezia era la capitale della Repubblica Veneta, da sempre indipendente e che non solo aveva creato un Impero marittimo, ma era stata un riferimento notevole da un punto di vista culturale. In genere i libri di storia ricordano che il 1600 vide un fenomeno di rifeudalizzazione nella Repubblica perché i ricchi veneziani preferirono investire nelle terre per avere rendite sicure. Dal punto di vista della storia mondiale ciò avrebbe influito non poco sull’uscita di scena di Venezia da un mercato mondiale che vedeva sempre più aggressive le nazioni europee, ma era un destino segnato: paesi come la Francia, l’Inghilterra e da poco gli Stati Uniti avevano dimensioni non comparabili. Tutto ciò non poteva essere visto da Foscolo né tanto meno lo interessava. Lo interessava invece la cultura che a Venezia era andata sempre sviluppandosi e arricchendosi, senza rinunciare mai alla propria libertà, anche nei momenti più difficili.
Pensiamo a Manuzio il grande editore che tra la fine del 1400 e gli inizi del 1500 dette un impulso notevole, quantitativo e qualitativo, alla produzione libraria; pensiamo al religioso Paolo Sarpi e alle vicende di inizio 1600 legate all’interdetto papale su Venezia, che difese la propria autonomia dalle influenze della Chiesa; pensiamo alle opere di Goldoni e alla grande pittura veneta del 1600 e del 1700. Pensiamo infine alla presenza di un fertile dibattito sulla cultura europea alla fine del 1700, con Gozzi e Cesarotti e Pindemonte.
Foscolo non si fece intimorire da quell’ambiente e osò produrre opere poetiche e persino tragedie che volle far conoscere e sottomise volentieri al giudizio dei suoi interlocutori. Aveva poco più di 16 anni. Erano gli anni della Rivoluzione Francese e tutti discutevano della sua importanza e dei problemi che la caratterizzavano, mentre Foscolo ancora adolescente si comportava come tutti i suoi coetanei in tutte le epoche: colse nello spirito napoleonico quell’ansia di libertà che doveva diventare un suo marchio di fabbrica e che lo tratterrà spesso dal fare i conti col principio di realtà. Il più grande scrittore su cui poteva fare affidamento in quegli anni di fine secolo XVIII era senza dubbio Alfieri e fu il suo punto di riferimento ideale: ogni adolescente che vuol cambiare il mondo ha bisogno di un personaggio-immagine con cui identificarsi.
Aveva studiato i classici greci, respirato la loro aria di libertà, era nato in Grecia, aveva vissuto nella libera Repubblica di Venezia, si era invaghito di Napoleone Liberatore, seguiva il libero Alfieri e si sentiva alfieriano.
E poi venne il fatidico 1797. Il trattato di Campoformio. Un colpo duro e a sangue freddo. Da cui non si sarebbe più ripreso ma che ebbe il merito di metterlo di fronte alla realtà, che vide non come nemica ma come il mare dentro il quale nuotare; lo fece in molti modi, diversi e contraddittori, evolutivi e ricorsivi, ma sempre operando con la poesia per dare un senso alla propria esistenza.
E’ curioso come quasi sempre si mantengano distinte le opere di uno scrittore dalle sue azioni o viceversa si faccia dipendere l’attività artistica dalle esperienze di vita, mentre raramente si mette in evidenza la produzione letteraria come hub esistenziale di un poeta. Se leggiamo i fatti che caratterizzano la biografia di Foscolo (basta anche la lunghissima parte presente in Wikipedia) ci accorgiamo che essi sono talmente numerosi che rischiamo di perdere l’orientamento. Non si tratta di verificare se quanto in genere viene riportato sia veramente accaduto, se Foscolo abbia letto tutti gli autori che si trovano citati nei suoi appunti, se abbia incontrato i personaggi pubblici che ritroviamo nelle sue biografie, se il suo trasferimento sui Colli Euganei fu l’effetto di una persecuzione o del vaiolo diffuso in città, se combatté veramente e se fu ferito, se le sue escandescenze contro Napoleone furono reali, e tante altre cose. Non è questo il punto. Gli episodi della vita di un personaggio importante a cui ci avviciniamo possono benissimo essere lo stimolo a nostri comportamenti, reali o idealizzati, ma rischiano di essere episodici oppure diventare pretesto di progetti privi di consistenza e fondamenta.
Solo le parole, la poesia, le opere di un autore permettono di dialogare con le nostre aspettative, con la nostra condizione, creando un quadro di riferimento sostanziale e orizzonti su cui radicare la nostra esistenza.
Eccoci dunque arrivati al primo significativo momento della riflessione di Foscolo sull’esistenza umana e in particolare sulla sua vita: Le ultime lettere di Jacopo Ortis sono state pubblicate nel 1802, ma sono una prima riflessione successiva al famoso Trattato del 1797. Andava sui vent’anni.
Ripeto: non si tratta di ricostruire minuziosamente l’attività foscoliana né tanto meno psicanalizzare il poeta o comunque fornirne una caratterizzazione psicologica. Ancora e sempre “un testo poetico esige la morte del poeta che scrive e la nascita del poeta che legge”.
Quando seppe del Trattato di Campoformio con il quale la Repubblica di Venezia cessava di essere libera e Napoleone permise che passasse sotto il dominio austriaco, Foscolo si sentì morire e in effetti quella che era stata la sua esistenza fino a quel momento ebbe un crollo definitivo. Il romanzo aveva un che, anzi molto, di letterario, ma questo non deve apparire strano visto che fin dalla più tenera età Foscolo aveva mostrato qualità letterarie che tutti gli riconoscevano e quindi quello era il suo mestiere, su cui si era formato ed era andato avanti. L’idea del romanzo epistolare non era nuova e si ispirava alla Nouvelle Heloïse di Rousseau, mentre il dramma rappresentato ricordava molto da vicino I dolori del giovane Werther di Goethe; infine lo spirito che alleggia tra le pagine e il sentire che si diffonde è chiaramente alfieriano.
E’ evidente che Foscolo intorno ai 20 anni è molto eccitato, per carattere o per cultura non è importante, e vive intensamente le passioni, quella amorosa e quella politica, registrando in entrambi i casi, quello più intimo e personale e quello più sociale e storico, profonde delusioni. E’ dunque chiaro che la sua esperienza di vita, pur sempre adolescenziale anche se estremamente ricca, profonda e varia, sia alla base del romanzo epistolare, ma non è questo che deve interessarci, perché ogni opera letteraria nasce in relazione a determinate situazioni spaziali e temporali.
A me interessa il processo inverso, cioè come l’opera potesse rappresentare un hub nella costruzione del senso che Foscolo avrebbe dato alla sua vita: quali sono i punti che attraverso la letteratura diventano pennellate e figure nel quadro che Foscolo sta dipingendo?
Jacopo è abbandonato da Teresa nonostante entrambi siano innamorati, perché le convenzioni sociali vanno in un’altra direzione; lo stesso per il tradimento di Napoleone: “Il sacrificio della patria nostra è consumato: tutto è perduto; e la vita, seppure ne verrà concessa, non ci resterà che per piangere le nostre sciagure, e la nostra infamia”. La realpolitik si impose sugli ideali, il pragmatismo fece crollare ogni forma di utopia e i principi, etici o morali, mostrarono tutta la loro fragilità.
Dobbiamo rifuggire dalla dimensione estetica, quella per cui il lettore si appassiona a situazioni romanzate forti che nascondono un vuoto interiore e che per questo riescono a coprirlo, solo attraverso la lettura, ma senza lasciare impulsi dentro l’anima del lettore. Dobbiamo cioè uscire dai contenuti e concentrarci sulle forme, dobbiamo dimenticare “il cosa” e riuscire ad entrare dentro “il come”, individuando il metodo o, meglio, il percorso seguito dal poeta.
Fare i conti con se stesso, metabolizzare, riflettere per scavare.
Al di là del racconto che rispecchia l’esistenza di molti adolescenti che soccombono di fronte al principio di realtà, Foscolo individua alcuni aspetti su cui costruirà la persona che diventerà e li individua attraverso la scrittura che solo apparentemente privilegia il lato esteriore, ma che in realtà va in profondità. Naturalmente si tratta di una profondità limitata che è legata al contesto personale, storico e geografico.
Cosa distilla il poeta dagli eventi che lo coinvolgono?
L’importanza della cultura: da Plutarco a Petrarca a Parini che incontra personalmente, non può il poeta costruire la propria esistenza e dare un senso alla sua vita senza riferimenti culturali. Il bel mondo può anche interessarlo, ma non ne riempirà mai le profonde aspirazioni.
L’esilio, il non essere profeta in Patria, il bisogno di riconoscimento che non significa adulazione, ma che vuol dire riconoscimento delle differenze tra le persone, perché siamo tutti eguali davanti alla legge, ma non lo siamo nella qualità della nostra esistenza.
La morte: come nei grandi filosofi e pensatori, antichi e moderni, la morte viene interrogata come alter ego della vita e in questo senso il suicidio di Jacopo è, in modo per ora poco complesso, l’assunzione di una responsabilità all’interno di una visione il cui orizzonte è purtroppo molto ristretto. In compenso Foscolo non muore e dunque la sorte di Jacopo sta a indicare la fine di un percorso, di una strada, quella che per molti incarna il senso della vita ma solo in modo idealistico.
La passione non può né potrà mai illuminare il nostro cammino e non solo per motivi legati all’età: essa è solo un momento della persona né il più importante, perché contingente, limitata, semplice, provvisoria.
Forte di queste acquisizioni può andare avanti intrecciando vita e poesia, con il risultato, se non anche la convinzione, di rafforzare, approfondire e sviluppare quel materiale che lo porta a una caratterizzazione più solida.

I Sonetti rappresentano questo ulteriore punto di svolta, che non è lineare e tanto meno dialettico, ma si pone come una nuova rete che si collega alla rete precedentemente intessuta. I tre principali sonetti si studiano a scuola da sempre e tutti li ricordano, perché sono semplici, efficaci, comprensibili. Nel sonetto In morte di fratello Giovanni ritroviamo l’esilio e la morte, in A Zacinto invece abbiamo la patria, la cultura, e il ruolo della poesia.
Il sonetto su cui mi voglio soffermare è però Alla sera: lo faccio non perché la più bella, ma perché in essa troviamo meglio quel processo di costruzione che sto cercando di delineare.

Forse perché della fatal quïete
Tu sei l’immago, a me sí cara vieni,
O Sera! E quando ti corteggian liete
Le nubi estive e i zeffiri sereni,                    

E quando dal nevoso aere inquïete
Tenebre e lunghe all’universo meni,
Sempre scendi invocata, e le secrete
Vie del mio cor soavemente tieni.                

Vagar mi fai co’ miei pensier su l’orme
Che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
Questo reo tempo, e van con lui le torme    1

Delle cure onde meco egli si strugge;
E mentre io guardo la tua pace, dorme
Quello spirto guerrier ch’entro mi rugge. 

Concentriamoci sul “come”.
Della morte aveva parlato sotto diversi punti di vista nel romanzo e della morte continuerà a parlare ne I sepolcri e lo fa sempre con uno sguardo alla vita che non riduce più a semplici somme algebriche. Nel romanzo il fallimento della sua passione amorosa e del suo impegno politico, elementi esaustivi della persona, non poteva che generare, in modo deterministico la morte. La morte di Ortis porta alla rinascita di Foscolo. Non c’è più la linearità, ma il quadro foscoliano si fa molto più complesso. La morte non è semplicemente un gesto o un fatto, ma qualcosa che esiste e non esiste, tanto da confondersi con la sera, che diventa il nuovo punto di riferimento: protagonista non è la morte che avrebbe occupato tutto lo spazio, ma la sera che risulta molto più soffice ed eterea. Forse è l’immagine della morte e forse per questo la sente come qualcosa di caro, ma non è la morte; anzi è tanto distante dalla morte che gli permette di richiamarne i differenti toni e i diversi sguardi che essa mostra nelle diverse stagioni. Sembrava dovesse parlare della morte e invece parla della sera, sembrava dovesse parlare solo dell’oscurità serale e invece parla anche di letizia, serenità e di nuvole che la corteggiano.
E’ un tessuto analogico e reticolare quello che il poeta sta dipanando: dalla morte alla sera, dall’estate all’inverno, che si popola di inquiete e lunghe tenebre. Ed ecco che le analogie si rincorrono: il quadretto naturalistico non è una semplice similitudine, perché quando si arriva all’inquietudine del poeta, non si sono persi tutti gli altri elementi, né la fatal quiete né i cieli sereni né le oscure tenebre. Inquietudine del poeta che si trova racchiusa nel suo cuore: la luce del giorno produce linee nette e precise, la luce serale invece si muove in modo molto più soffuso e complesso, vivendo di sfumature. Complessità e sfumature, tensioni e contraddizioni che la poesia, col pretesto della sera, porta alla luce.
La sera, serena e inquieta, lo prende per mano e lo accompagna per i sentieri che portano al nulla eterno, alla dispersione del proprio essere materiale, scomparso negli anfratti del tempo: preoccupazioni (cure) che sono della vita umana e che addensano la sostanza del tempo. Là in fondo all’orizzonte, accompagnati dai passi del tempo, il nulla eterno ci attende per annullarci, ma così facendo quei passi riescono anche a liberarci delle nostre preoccupazioni.
Foscolo è Ortis ma allo stesso tempo non è più Ortis, perché se è vero che uno spirito guerriero gli ruggisce dentro, è vero anche che la meditazione lo ha portato attraverso numerosi reticoli a scoprire che quello spirito è solo un aspetto della sua persona e così lascia libero sfogo a un sentimento di quiete, quella pace che la sera gli ha evocato. La poesia comincia con la fatal quiete e termina con la pace della sera, ma non è la stessa cosa: il poeta non rinuncia alla vita né esalta la morte, ma attraverso questo viaggio di soli 14 versi è riuscito a scoprire nuovi lati della sua persona.
Il tempo passa e si porta via le torme delle cure, cioè una gran quantità delle preoccupazioni che si sono affollate nella sua anima, preoccupazioni che lo divorano divorando ugualmente il tempo. Gli affanni, le preoccupazioni vanno con lui, piano piano, inavvertitamente, provengono da ogni direzione e improvvisamente si sono impadronite di lui e a quel punto lui non può far altro che riconoscere che il tempo della vita si sta consumando e con il tempo la sua stessa persona.

Questo sonetto vale p di quanto sembri, perché non è un semplice assemblaggio di versi che ricostruisce un momento strettamente personale: chi non fa nell’arco di una vita, di una stagione, di una giornata pensieri come quelli di Foscolo? Il punto è che i versi sopra riportati si inseriscono, in una lettura che non si limiti al cosa”, nel quadro della ricerca di senso del poeta. Qualcuno ha voluto vedere nella produzione letteraria e nella vita di Foscolo la costruzione di un personaggio, come se il vivere fosse subordinato all’immagine di se stesso che egli voleva dare nel suo tempo e lasciare ai posteri. In questo senso avremmo il modello dell’eroe romantico, superiore a tutti, ai suoi contemporanei e al contesto in cui si è trovato a vivere.
Il sonetto Alla sera indica un’altra strada: poesia e vita sono intrecciate. Foscolo si interroga sul senso della propria esistenza: a cosa è servita la sua lotta? A cosa è servita la sua cultura? A cosa sono serviti i suoi amori? Il tempo divora tutto: è, come dirà Baudelaire, un gladiatore, un reziario, che ci blocca con la sua rete.

Il sonetto rappresenta una pausa e il senso prenderà forma nel prosieguo della sua produzione.

Non si fermerà qui, anche se vi tornerà.
Il passaggio successivo è forse quello decisivo, di maggiore ed estrema sintesi: il Carme de I sepolcri.

In unepoca che mescolava meccanica ed egittologia, mongolfiere divine e cristiani aneliti, certezze e verità così come verità e certezze; in unepoca che già ci preparava ad accorciare anche le distanze terrestri e aeree; in unepoca che confondeva mistero e positive costruzioni, ebbene in quegli anni cera chi continuava imperterrito a scavare dentro se stesso, facendo di questi esperimenti un’occasione che avrebbe potuto risultare utile, se non a tutti, a molti.

Una volta che Alla sera ha fornito la chiave di volta occorre spostare l’attenzione sul Carme del poeta: amo I Sepolcri e i suoi riferimenti sia metafisici sia storici sia mitologici, ma non sono né Achille né Ettore né tanto meno Omero né la mia aspirazione è quella di andare a riposarmi in Santa Croce. I Sepolcri parlano ovviamente della morte, ma, come tutte le grandi opere dei grandi uomini, parlano soprattutto della vita. E soprattutto di ciò che ci avvolge, anche se in genere non riusciamo ad accorgercene: mi riferisco non tanto alla vita, termine troppo vasto o troppo modesto per meritare la nostra attenzione, quanto al senso della vita. Il senso della vita è ciò che costruisce la nostra esistenza e dunque il nostro destino; esso parla di responsabilità e di creazione, dunque di poesia, è sempre definito e allo stesso tempo in-de-finito, aprendosi all’eterno e all’infinito.

All'ombra de' cipressi e
Dentro l'urne confortate
di pianto è forse il sonno
della morte men duro?

Non avendo Foscolo il dono della Fede (non concesso o rifiutato non fa la differenza) la Speranza fugge i Sepolcri, ovviamente. Egualmente un cippo, un fiore, una parola non addolciscono questa perdita, ovviamente.

Come sappiamo, questo inizio serve a Foscolo per entrare in quello che è il punto di vista altrui sulla nostra morte e mostrare come corrispondenza d’amorosi sensi, egregie cose e il Canto siano in grado di ingentilire gli animi. Dei vivi, ovviamente.

Vediamo invece i versi che dal terzo al quindicesimo servono a Foscolo per costruire da poeta il percorso che si è proposto: poeta, cioè, in questo caso, tessitore di veli, in particolare di quel velo delle Grazie cui stava lavorando.


Ove più il Sole
Per me alla terra non fecondi questa
Bella d’erbe famiglia e d’animali,
E quando vaghe di lusinghe innanzi
A me non danzeran l’ore future,
Nè da te, dolce amico, udrò più il verso
E la mesta armonia che lo governa,
Nè più nel cor mi parlerà lo spirto
Delle vergini Muse e dell’Amore,
Unico spirto a mia vita raminga,
Qual fia ristoro a’ dì perduti un sasso
Che distingua le mie dalle infinite
Ossa che in terra e in mar semina morte?

 Punto primo:

… il Sole / per me alla terra non fecondi questa / bella d'erbe famiglia e d'animali.

La natura vive per me e il Sole la nutre e ne permette la continua sopravvivenza; la natura, cioè l’insieme della flora e della fauna, una famiglia bella di erbe e animali, la nostra famiglia. E il Sole feconda questa famiglia: un concetto astratto che si ripete nella concretezza dei tempi e dei luoghi. E io ne godo.

Punto secondo:

vaghe di lusinghe innanzi / a me (…) danzeran l'ore future.

Il futuro mi costruisce e mi conforma nella sua concretezza, ma non nella sua episodica vanità; esso mi aiuta, mi rasserena e mi addolcisce, mi entusiasma e mi fortifica, con la sua sola presenza. Il futuro non è una chimera né un fantasma, al contrario è qui davanti a me e lo vedo, ne sento i palpiti, ne studio le mosse, ne apprezzo i colori. Non è un concetto, un’idea, che posso affrontare solo in termini filosofici: l’essere per la morte sono io che morirò e tra tutte le cose che non so questa è l’unica che appartiene alla mia conoscenza in modo completo. Il futuro sono battiti, divenuti fanciulle, sono le ore alla cui danza, invitato o no, sono stato chiamato. Danzano sempre, in modo incessante, qui e ora, davanti a me e per me: quelle ore sono io e sono con me. Sono ballerine speciali e come tali, contrariamente a quanto ci si aspetterebbe conoscendo il finale, non mettono in scena una Danza Macabra, bensì un gioioso corteo, fatto di lusinghe, cioè di lodi (laus) e allo stesso tempo di giochi (ludus). Un gioioso corteo, vago, non perché irreale e indefinito, ma, poeticamente con Petrarca, bello. La bellezza della danza è la bellezza delle ballerine, cioè delle ore, che mi sorridono e mi accarezzano e mi prendono per mano e mi inducono a passi e movenze che mi fanno sorridere.

Punto terzo:

… da te, dolce amico, udrò (…) il verso / e la mesta armonia che lo governa.

La poesia, le parole che creano la nostra esistenza e che decidiamo di comunicare, sono qualcosa che va al di là dell’episodico e del contingente. L’amicizia assume in questo senso un valore profondo che non è solo l’abbraccio maschio o lo sfogo femminile. L’amicizia è il terreno privilegiato per una corrispondenza d’amorosi sensi che identifica nelle parole un luogo privilegiato per nutrire gli amici e creare se stessi, nutriti dagli amici mentre creano se stessi. La dolcezza e l’armonia, seppur mesta, sono parte integrante di quell’incontro reso possibile non da affinità elettive generiche ma dal valore che alla parola e al verso si riconosce. Non ci sono imprese da compiere né canti, ma semplici versi, intessuti con quello spirito che pochi anni dopo Leopardi scoprirà ne L’infinito. L’armonia, legame ar-itmetico e ar-tistico, è ciò che unisce le persone e quel legame è dato solo dalle parole che a quei tempi Foscolo chiamava versi, ma che oggi, piaccia o no, tornano ad essere parole. Dense ed eteree allo stesso tempo, evanescenti e pregnanti, autoritarie e umili, mai ripetitive mai pesanti mai incatenate.

Punto quarto:

…nel cor mi parlerà lo spirto/delle vergini Muse…/ unico spirto a mia vita raminga,

Le Muse non sono solo figlie di Zeus e al seguito di Apollo, non solo celebrano l’Arte in quello che di supremo essa ha, per i Greci e per Foscolo, cioè lo spirito divino che diffondendosi tra gli uomini li rasserena e li eleva, aiutandoli nell’andare oltre la sopportazione della vita, breve e allo stesso tempo miserabile. Le Muse sono anche figlie di Mnemosyne, ovvero la Memoria, a richiamarci il legame profondo che esiste tra la parola e la sua costruzione, tra un passato che vive grazie alla madre delle Muse e un futuro che le Muse ci allietano. E nel presente noi ci godiamo questo straordinario dono che gli dei ci hanno voluto fare, dandoci il senso di un’esistenza limitata ma allo stesso tempo proiettata nel passato come nel futuro. E’ uno spirito, cioè qualcosa di etereo,   materiale  ma inconsistente, un soffio, un sospiro  e un sussurro che parla nel cuore ad ognuno di noi. E così la vita, o meglio l’esistenza, si ramifica e ci sorride, lentamente spuntano bocci, fiori e frutti e dal cuore si diffondono ricoprendoci e accarezzandoci. Il cuore. Troppo semplice ridurlo all’ente della contrapposizione sentimento-ragione, troppo semplice identificarlo nel sussulto dell’emozione e nel suo calore, contro il freddo e l’arido pensiero. Quel cuore è lo stesso di Leopardi, quando procede alla creazione di “interminati spazi, di sovrumani silenzi, di profondissima quiete”…ove per poco il cor non si spaura”. E’ il battito della vita che segna il tempo, lunghissimo ma non eterno, col ritmo delle Muse: esse ci parleranno, ma noi sapremo ascoltarle? Forse non sempre, ma dovremo provarci, perché senza quelle parole, e le nostre, la nostra esistenza si perderebbe. Prima di tutto a noi stessi.

Punto quinto:

… nel cor mi parlerà lo spirto / … dell'amore, / unico spirto a mia vita raminga,

ma l’unico spirto alla vita raminga è lo spirito dell’amore. Spirito, ovvero soffio vitale, dunque ciò che ci fa vivere. L’uso di questa parola può apparire a qualcuno troppo semplice e a qualche altro invece troppo complesso, al punto di diventare misterioso. In realtà il poeta ha saputo cogliere nella semplicità di due parole (spirito e ramingo) la complessità dell’esistenza: non occorrono, a volte, trattati, ma basta trovarsi al posto giusto nel momento giusto. E questo avviene solo esercitandosi e coltivando dentro se stessi la scoperta: solo così tra tutti i portoni aperti riusciremo a essere attratti dall’unico che ci inonda col profumo dei limoni, quello –per l’appunto- che ci indica il varco e ci svela la maglia rotta nella rete. E’ certamente il Caso, ma il Caso non opera mai “a Caso”, perché dipende da noi meritarci la sua amicizia. Sarà questa la lezione più importante, e decisiva, di tutta la poesia moderna, da Baudelaire a Montale e Paz.

E così spirito coincide con la sua origine di soffio, sia come respiro, senza il quale la vita non si pone, sia come leggero e invisibile, contrapposto a ciò che invece “pesa e posa”.

E così raminga non è solo la vita di Foscolo che fu in realtà errante; ma raminga è la vita, perché in essa procediamo di ramo in ramo, anche quando crediamo di essere abitudinari, perché mutevole è il carattere, unico e definitivo, della vita umana. Solo lo scavo dentro se stessi, solo lo scrutare dentro la propria persona permettono di svelare qualcosa che a quella persona risulta irriducibile.

La vita raminga di Foscolo è la vita di ognuno di noi; il senso della vita di Foscolo e di ognuno di noi è qualcosa di spirituale e in essa le Vergini Muse e l’amore svolgono un ruolo predominante. Sono uniche, anche se sono due, perché non è il numero, definito, che lascia il segno, ma lo spirito, che è per definizione indefinito.

Sul perché l’amore, non vale la pena insistere, perché di lui ho parlato altrove e in abbondanza. Se mai si può solo confermare oggi, a distanza di due secoli, la scelta di Foscolo: ciò che era cominciato nel Medioevo e aveva impiegato secoli per uscire da ambiti circoscritti oggi è il segno dell’esistenza di ognuno di noi. Universalità dell’amore, oggi, solo oggi, indipendentemente dalle forme che ognuno, ovunque, ha voluto e vuole dargli.

Vero è ben, Pindemonte! Anche la
Speme, ultima Dea, fugge i sepolcri:
e involve tutte cose l'obblío nella sua notte; e una forza operosa le
affatica di moto in moto; e l'uomo e le sue tombe e l'estreme sembianze e le reliquie della terra e del ciel traveste il tempo.
….
Non vive ei forse anche sotterra, quando
Gli sarà muta l’armonia del giorno,
Se può destarla con soavi cure
Nella mente de’ suoi? Celeste è questa
Corrispondenza d’amorosi sensi,
Celeste dote è negli umani

Sol chi non lascia eredità d’affetti
Poca gioia ha dell’urna;

Le parti successive sono ricche di significati: parlano delle leggi come fondamenta della civiltà, del culto dei morti che significa rispetto per l’essere umano in quanto tale. Foscolo parla poi di Firenze e di Santa Croce come luogo sacro perché accoglie i corpi dei grandi italiani, esprime il suo dolore (e il suo disgusto) per l’Italia imbelle dei suoi anni; indica il culto della tomba come ispirazione alla poesia, come fece Omero, che renderà immortale non solo il vincitore, ma anche lo sconfitto, in quel caso Ettore, purché “fia santo e lagrimato il sangue per la patria versato”. La poesia come eternatrice. Tutte queste parti sono di estremo interesse, anche perché le parole usate ne forniscono il senso. Le lascio a chi vorrà approfondire quanto fin qui esposto. Quelle parti confermano quanto Foscolo ha sviluppato nel suo percorso, mentre la prima lo collocano su un altro piano, portandolo ad allargare il cerchio riuscendo a sintetizzare quale sia il senso dell’esistenza umana, non solo della sua vita.
I primi versi de I sepolcri proprio perché parlano della morte sono quanto di più vicino è alla vita, perché ci aprono al suo senso. Il senso, quel qualcosa che oggi ogni filosofo mediamente intelligente, ermeneutico o euristico che sia, riconosce come essenziale. Essenza da esse, senso da sentire: due etimologie chiaramente diverse ma che riescono a toccarsi. Il senso è essenziale, perché al di fuori del senso noi non siamo. Occorrono anni perché si scopra questa semplice verità e spesso continueremo senza porci questo problema.

Chiedersi qual è il senso della vita è già dare un senso alla vita.

E qui Foscolo ci fornisce degli strumenti che hanno le loro radici in ogni essere umano: il senso della vita umana non può che essere radicato nella vita degli uomini. Non confondiamo il senso con l’ideologia che, recidendo quelle radici, può costruire qualsiasi cosa perché perde le fondamenta su cui la vita si costruisce e con esse tutti quei filamenti, più o meno lunghi, più o meno spessi, che dal tronco emergono e si diffondono.

Foscolo parla per sé, un sé storicamente e geograficamente fondato, con una biografia narrata da lui e da altri, spesso romanzata o tradotta poeticamente, resa vera non dalla corrispondenza con un reale oggettivo ma dalla responsabilità che l’uomo-poeta assume fornendone l’interpretazione. Il poeta Foscolo scava dentro se stesso e porta alla luce aspetti importanti e mette a fuoco una persona, unica e diversa, unica perché diversa, frutto degli infiniti aut-aut che lo hanno preceduto e di quelli che si è trovato a vivere, con scelte casuali e con scelte decise, spesso anche queste frutto del Caso e della contingenza.

E Foscolo ci fornisce una ricetta che è valida anche per noi, ma che –allo stesso tempo- possiamo trasformare introducendo quelle varianti che rendono la tradizione così essenziale e i suoi piatti senz’altro più gustosi.

E così scopriamo che dare un senso alla nostra esistenza è godere di c che la natura ci offre e insieme ad essa c che l’uomo ha elaborato nel corso della costruzione della sua avventura: l’arte, la poesia, l’amore. Ma non esiste vita che valga la pena di essere vissuta senza passato e senza futuro, senza memoria e senza speranza. La memoria sono le radici che hanno prodotto l’albero che siamo e la speranza sono i germogli che continuiamo a produrre, stagione dopo stagione.

La passione, amorosa e politica, per quanto nobile, ha mostrato di non saper reggere all’urto del tempo e ai marosi dell’esistenza umana e, se è vero con Montale che “persistenza è solo l’estinzione”, è anche vero che l’uomo può trovare in se stesso, nella sua breve esistenza terrena, qualcosa che comunque persisterà all’interno di questa parentesi che tutti ci accomuna.
Le passioni nella figura di Didimo Chierico sono sentite “come calore di fiamma lontana”.
Troppo spesso si tende a considerare questo personaggio, Didimo, come il Foscolo senile, mentre ciò andrebbe ripensato: Foscolo aveva solo 34 anni quando si accinse alla composizione delle Notizie intorno a Didimo Chierico e dunque la sua era senilità solo all’interno di una visione statica e deterministica, per cui vivere passioni come calore di fiamma lontana non può essere visto come scelta, come punto strategico della propria esistenza, un modo di essere e non un accidente del tutto contingente. Foscolo ha costruito non un personaggio, come purtroppo ancora si tende a dire, ma una persona, la sua, che passo dopo passo, parola dopo parola è arrivata a individuare alcuni nodi strategici: ricondurre questo ricchissimo percorso a un ripiegamento frutto di delusioni e a compromessi che ne farebbero un uomo normale, giunto ormai all’acquisizione del “principio di realtà”, significa non saper accogliere dentro di noi la sua eredità. Il fallimento dell’idea rivoluzionaria sarà dimostrato alla fine del ‘900 con il crollo del Comunismo, basta rileggere “Il passato di un’illusione” di Furet e in Foscolo è non accidente storico, per cui un’altra volta andrà meglio, ma la comprensione che è l’idea rivoluzionaria stessa fallimentare. Su questa comprensione Foscolo ha costruito la propria persona e ci ha lasciato qualcosa da cui ripartire. Non è solo quanto espresso poeticamente nella prima parte de I sepolcri, perché lo ritroviamo anche nei frammenti de Le Grazie, un’opera che ancora viene etichettata come “neoclassica” e puramente estetica. In quei versi e in particolare in quelle strofe che parlano del Velo delle Grazie troviamo il completamento di una persona che nel continuo dialogo con la realtà in cui si trovava inserita riusciva a estrarre sempre qualcosa che lo proiettasse al di là del contingente. Andare al di là del contingente non significa collocarsi nell’Empireo dell’assoluto, ma individuare sempre nuovi orizzonti.
Il velo viene fatto tessere perché le tre Grazie possano portarlo tra gli uomini in modo tale che non cedano alle passioni e alla violenza, ma sappiano trarre il meglio dalla vita, instaurando un clima di pace e serenità. Se il velo non è in grado di annullare quelle passioni e quella violenza può comunque fornire conforto e mitigare il dolore. In questo modo Foscolo individua un nuovo orizzonte che, a differenza della storia e senza negarla, sa indicare agli uomini un percorso migliore rispetto a quello consueto.
Nessun ripiegamento, nessun abbandono, nessuna fuga dalla realtà, ma un diverso collocarsi dentro la realtà e la storia attraverso la poesia che esiste non per una bellezza vuota, ma per scavare dentro l’anima e portare alla luce le possibilità che esistono negli esseri umani. Il cosa, ancora una volta, è al servizio del come.
La giovinezza che guarda al futuro con fiducia e sente il Tempo più come un compagno che come un nemico, l’amore verecondo, la pietà nei confronti del nemico che è stato sconfitto, l’affetto dei genitori per i figli e la paura per le disgrazie che possono loro capitare, la gioia dell’amicizia e i piaceri di un festante convinto, vissuti nei limiti e non oltraggiati dagli eccessi

Flora intendeva, e sì pingea con l’ago. Mesci, odorosa Dea, rosee le fila; e nel mezzo del velo ardita balli, canti fra ’l coro delle sue speranze Giovinezza: percote a spessi tocchi antico un plettro il Tempo; e la danzante discende un clivo onde nessun risale. Le Grazie a’ piedi suoi destano fiori, a fiorir sue ghirlande: e quando il biondo crin t’abbandoni e perderai ’l tuo nome, vivran que’ fiori, o Giovinezza, e intorno l’urna funerea spireranno odore.

Escono errando fra l’ombre e i raggi fuor d’un mìrteo bosco due tortorelle mormorando ai baci; mirale occulto un rosignuol, e ascolta silenzïoso, e poi canta imenei: fuggono quelle vereconde al bosco.

Mesci, madre dei fior, lauri alle fila; e sul contrario lato erri co’ specchi dell’alba il sogno; e mandi a le pupille sopite del guerrier miseri i volti de la madre e del padre allor che all’are recan lagrime e voti; e quei si desta, e i prigionieri suoi guarda e sospira.

Mesci, o Flora gentile, oro alle fila; e il destro lembo istorïato esulti d’un festante convito: il Genio in volta prime coroni agli esuli le tazze. Or libera è la gioia, ilare il biasmo, e candida è la lode. A parte siede bello il Silenzio arguto in viso e accenna che non volino i detti oltre le soglie.

E fu quel velo eterno. E apparia  a rallegrar la terra.

Non trovo sbagliato il riferimento a Foscolo-Minerva, la quale, dopo essersi schierata con i re e con i popoli che combattono per la giustizia e la libertà, si ritira nell’isola per tessere il velo: dunque una similitudine col percorso foscoliano dall’impegno civile e politico a quello esclusivamente poetico. Ciò che trovo insufficiente, se non proprio sbagliato, almeno oggi dopo gli eventi del XX secolo e lo sviluppo poetico-filosofico che si è avuto tra 1800 e 1900, è il considerare questo percorso come qualcosa di riduttivo se non proprio di negativo che ripropone la scissione semplicistica e deterministica tra realtà e pensiero, tra cose e parole.
Fare della propria vita un’opera d’arte, e Baudelaire ce lo ha insegnato, non significa ritirarsi in una torre d’avorio lasciando che la realtà (supposta tale) faccia il suo percorso. Questa impostazione ha impregnato la nostra vita per quattro secoli e continua a fare danni: non aver capito che il rilievo della poesia nella vita di Foscolo è un percorso autonomo e alternativo al comune sentire ha portato, per fortuna con un numeroso e importante dissenso, al subordinare la poesia alla realtà fino agli estremi tristissimi del realismo socialista sovietico e maoista. Purtroppo ancora oggi questo dissidio non solo non è stato ricomposto, ma spesso neppure intaccato: ne è un esempio significativo l’insegnamento della letteratura nella scuola italiana.

Ci fu il tempo degli eroi e la poesia ne fu testimonianza e incitamento, ma poi la polis lasciò il posto all’individuo e il posto degli eroi fu preso dai funzionari di partito, anche senza organizzazione. Rileggere Foscolo senza i soliti pregiudizi aiuta le persone, non solo gli studenti, a individuare i propri orizzonti e a costruire il proprio percorso.





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