Ugo
Foscolo
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Tanto,
troppo, molto: qualcosa
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Ripartiamo dalla fine del precedente articolo: “Entrambi (Scienza moderna e Barocco) si
posero il problema del senso della vita, un senso che non si esaurisce nelle
dinamiche materiali, un senso che non si esaurisce con la fede nel Paradiso. Da
allora il senso della vita diventa l’elemento centrale dell’esistenza umana.”
Con Foscolo ci troviamo a una verifica di
quella frase. Non fu solo lui, perché questo varrà per la maggior parte dei
grandi scrittori di Ottocento e Novecento, a partire dai suoi vicini Leopardi e
Manzoni.
Foscolo ci aiuta a capire quanto complessa
sia questa ricerca.
Non esistono relazioni sociali e tanto meno
socio-economiche a determinare ciò che saremo; non esiste la pura volontà né
esistono scelte personali a determinare ciò che saremo: ciò che saremo è un
miscuglio interessante e con-fuso di quei due aspetti e di tanti altri che
avremo sempre difficoltà a ricostruire pienamente. E’ per questo motivo che
occorre ragionare in termini di orizzonti, e non di obbiettivi o sogni, in modo
da essere responsabili di tutto ciò che decideremo all’interno del quadro di
riferimento che ci ha deciso.
Chiedersi quale è il senso che vogliamo dare
alla nostra vita è già dare un senso alla nostra esistenza. L’immagine della
rete aiuta ad agire in questa direzione.
E’ per questo motivo che dobbiamo apprezzare
Foscolo, uomo e poeta, che visse in pieno le sue contraddizioni con la
consapevolezza di chi non si accontenta di essere vissuto. Fin da subito
intellettuali e critici hanno compreso il valore di Foscolo, ma lo hanno
dirottato sui binari consueti e consumati della passione politica, della
passione amorosa, della cultura non banale. Cercando di stare dietro alle
contraddizioni del poeta si è finito col legittimare tutto ciò che stava fuori
di lui riducendolo a una macchinetta della storia e dell’età. Lo si è rinchiuso
nella gabbia del preromanticismo, del romanticismo, del neoclassicismo, del
cultore della poesia per la poesia, del poeta vate; ogni volta offuscando il
percorso reale dell’uomo che si è servito della parola (e della poesia) per
costruire la propria persona e che non ha mai rinunciato a fare i conti con la
propria esperienza umana.
Foscolo fu un poeta come tanti, ma fu molto
diverso dai più; Foscolo fu un uomo come tanti, ma molto distante dai più.
Come si sa, nacque a Zacinto, isola greca, da
sempre veneziana e dopo un breve soggiorno a Spalato, morto il padre, fu
portato a Venezia dalla madre: aveva solo 14 anni. Era il 1792, anno fatidico
nella Rivoluzione Francese.
Venezia era la capitale della Repubblica
Veneta, da sempre indipendente e che non solo aveva creato un Impero marittimo,
ma era stata un riferimento notevole da un punto di vista culturale. In genere
i libri di storia ricordano che il 1600 vide un fenomeno di rifeudalizzazione
nella Repubblica perché i ricchi veneziani preferirono investire nelle terre
per avere rendite sicure. Dal punto di vista della storia mondiale ciò avrebbe
influito non poco sull’uscita di scena di Venezia da un mercato mondiale che
vedeva sempre più aggressive le nazioni europee, ma era un destino segnato:
paesi come la Francia, l’Inghilterra e da poco gli Stati Uniti avevano
dimensioni non comparabili. Tutto ciò non poteva essere visto da Foscolo né
tanto meno lo interessava. Lo interessava invece la cultura che a Venezia era
andata sempre sviluppandosi e arricchendosi, senza rinunciare mai alla propria
libertà, anche nei momenti più difficili.
Pensiamo a Manuzio il grande editore che tra
la fine del 1400 e gli inizi del 1500 dette un impulso notevole, quantitativo e
qualitativo, alla produzione libraria; pensiamo al religioso Paolo Sarpi e alle
vicende di inizio 1600 legate all’interdetto papale su Venezia, che difese la
propria autonomia dalle influenze della Chiesa; pensiamo alle opere di Goldoni
e alla grande pittura veneta del 1600 e del 1700. Pensiamo infine alla presenza
di un fertile dibattito sulla cultura europea alla fine del 1700, con Gozzi e
Cesarotti e Pindemonte.
Foscolo non si fece intimorire da
quell’ambiente e osò produrre opere poetiche e persino tragedie che volle far
conoscere e sottomise volentieri al giudizio dei suoi interlocutori. Aveva poco
più di 16 anni. Erano gli anni della Rivoluzione Francese e tutti discutevano
della sua importanza e dei problemi che la caratterizzavano, mentre Foscolo
ancora adolescente si comportava come tutti i suoi coetanei in tutte le epoche:
colse nello spirito napoleonico quell’ansia di libertà che doveva diventare un
suo marchio di fabbrica e che lo tratterrà spesso dal fare i conti col
principio di realtà. Il più grande scrittore su cui poteva fare affidamento in
quegli anni di fine secolo XVIII era senza dubbio Alfieri e fu il suo punto di
riferimento ideale: ogni adolescente che vuol cambiare il mondo ha bisogno di
un personaggio-immagine con cui identificarsi.
Aveva studiato i classici greci, respirato la
loro aria di libertà, era nato in Grecia, aveva vissuto nella libera Repubblica
di Venezia, si era invaghito di Napoleone Liberatore, seguiva il libero Alfieri
e si sentiva alfieriano.
E poi venne il fatidico 1797. Il trattato di
Campoformio. Un colpo duro e a sangue freddo. Da cui non si sarebbe più ripreso
ma che ebbe il merito di metterlo di fronte alla realtà, che vide non come
nemica ma come il mare dentro il quale nuotare; lo fece in molti modi, diversi
e contraddittori, evolutivi e ricorsivi, ma sempre operando con la poesia per
dare un senso alla propria esistenza.
E’ curioso come quasi sempre si mantengano
distinte le opere di uno scrittore dalle sue azioni o viceversa si faccia
dipendere l’attività artistica dalle esperienze di vita, mentre raramente si
mette in evidenza la produzione letteraria come hub esistenziale di un poeta.
Se leggiamo i fatti che caratterizzano la biografia di Foscolo (basta anche la
lunghissima parte presente in Wikipedia) ci accorgiamo che essi sono talmente
numerosi che rischiamo di perdere l’orientamento. Non si tratta di verificare
se quanto in genere viene riportato sia veramente accaduto, se Foscolo abbia
letto tutti gli autori che si trovano citati nei suoi appunti, se abbia
incontrato i personaggi pubblici che ritroviamo nelle sue biografie, se il suo
trasferimento sui Colli Euganei fu l’effetto di una persecuzione o del vaiolo
diffuso in città, se combatté veramente e se fu ferito, se le sue escandescenze
contro Napoleone furono reali, e tante altre cose. Non è questo il punto. Gli
episodi della vita di un personaggio importante a cui ci avviciniamo possono
benissimo essere lo stimolo a nostri comportamenti, reali o idealizzati, ma
rischiano di essere episodici oppure diventare pretesto di progetti privi di
consistenza e fondamenta.
Solo le parole, la poesia, le opere di un
autore permettono di dialogare con le nostre aspettative, con la nostra
condizione, creando un quadro di riferimento sostanziale e orizzonti su cui
radicare la nostra esistenza.
Eccoci dunque arrivati al primo significativo
momento della riflessione di Foscolo sull’esistenza umana e in particolare
sulla sua vita: Le ultime lettere di Jacopo Ortis sono state pubblicate
nel 1802, ma sono una prima riflessione successiva al famoso Trattato del 1797.
Andava sui vent’anni.
Ripeto: non si tratta di ricostruire
minuziosamente l’attività foscoliana né tanto meno psicanalizzare il poeta o
comunque fornirne una caratterizzazione psicologica. Ancora e sempre “un
testo poetico esige la morte del poeta che scrive e la nascita del poeta che
legge”.
Quando seppe del Trattato di Campoformio con
il quale la Repubblica di Venezia cessava di essere libera e Napoleone permise
che passasse sotto il dominio austriaco, Foscolo si sentì morire e in effetti
quella che era stata la sua esistenza fino a quel momento ebbe un crollo
definitivo. Il romanzo aveva un che, anzi molto, di letterario, ma questo non
deve apparire strano visto che fin dalla più tenera età Foscolo aveva mostrato
qualità letterarie che tutti gli riconoscevano e quindi quello era il suo
mestiere, su cui si era formato ed era andato avanti. L’idea del romanzo
epistolare non era nuova e si ispirava alla Nouvelle Heloïse di
Rousseau, mentre il dramma rappresentato ricordava molto da vicino I dolori
del giovane Werther di Goethe; infine lo spirito che alleggia tra le pagine
e il sentire che si diffonde è chiaramente alfieriano.
E’ evidente che Foscolo intorno ai 20 anni è
molto eccitato, per carattere o per cultura non è importante, e vive
intensamente le passioni, quella amorosa e quella politica, registrando in
entrambi i casi, quello più intimo e personale e quello più sociale e storico,
profonde delusioni. E’ dunque chiaro che la sua esperienza di vita, pur sempre
adolescenziale anche se estremamente ricca, profonda e varia, sia alla base del
romanzo epistolare, ma non è questo che deve interessarci, perché ogni opera
letteraria nasce in relazione a determinate situazioni spaziali e temporali.
A me interessa il processo inverso, cioè come
l’opera potesse rappresentare un hub nella costruzione del senso che Foscolo
avrebbe dato alla sua vita: quali sono i punti che attraverso la letteratura
diventano pennellate e figure nel quadro che Foscolo sta dipingendo?
Jacopo è abbandonato da Teresa nonostante
entrambi siano innamorati, perché le convenzioni sociali vanno in un’altra
direzione; lo stesso per il tradimento di Napoleone: “Il sacrificio della
patria nostra è consumato: tutto è perduto; e la vita, seppure ne verrà
concessa, non ci resterà che per piangere le nostre sciagure, e la nostra
infamia”. La
realpolitik si impose sugli ideali, il pragmatismo fece crollare ogni forma di
utopia e i principi, etici o morali, mostrarono tutta la loro fragilità.
Dobbiamo rifuggire dalla
dimensione estetica, quella per cui il lettore si appassiona a situazioni
romanzate forti che nascondono un vuoto interiore e che per questo riescono a
coprirlo, solo attraverso la lettura, ma senza lasciare impulsi dentro l’anima
del lettore. Dobbiamo cioè uscire dai contenuti e concentrarci sulle forme,
dobbiamo dimenticare “il cosa” e riuscire ad entrare dentro “il come”,
individuando il metodo o, meglio, il percorso seguito dal poeta.
Fare i conti con se
stesso, metabolizzare, riflettere per scavare.
Al di là del racconto che
rispecchia l’esistenza di molti adolescenti che soccombono di fronte al
principio di realtà, Foscolo individua alcuni aspetti su cui costruirà la
persona che diventerà e li individua attraverso la scrittura che solo
apparentemente privilegia il lato esteriore, ma che in realtà va in profondità.
Naturalmente si tratta di una profondità limitata che è legata al contesto
personale, storico e geografico.
Cosa distilla il poeta
dagli eventi che lo coinvolgono?
L’importanza della cultura: da Plutarco a Petrarca a
Parini che incontra personalmente, non può il poeta costruire la propria
esistenza e dare un senso alla sua vita senza riferimenti culturali. Il bel
mondo può anche interessarlo, ma non ne riempirà mai le profonde aspirazioni.
L’esilio, il non essere
profeta in Patria, il bisogno di riconoscimento che non significa
adulazione, ma che vuol dire riconoscimento delle differenze tra le persone,
perché siamo tutti eguali davanti alla legge, ma non lo siamo nella qualità
della nostra esistenza.
La morte: come nei grandi filosofi
e pensatori, antichi e moderni, la morte viene interrogata come alter ego della
vita e in questo senso il suicidio di Jacopo è, in modo per ora poco complesso,
l’assunzione di una responsabilità all’interno di una visione il cui orizzonte
è purtroppo molto ristretto. In compenso Foscolo non muore e dunque la sorte di
Jacopo sta a indicare la fine di un percorso, di una strada, quella che per molti
incarna il senso della vita ma solo in modo idealistico.
La passione non può né
potrà mai illuminare il nostro cammino e non solo per motivi legati all’età: essa è solo un
momento della persona né il più importante, perché contingente, limitata,
semplice, provvisoria.
Forte di queste
acquisizioni può andare avanti intrecciando vita e poesia, con il risultato, se
non anche la convinzione, di rafforzare, approfondire e sviluppare quel
materiale che lo porta a una caratterizzazione più solida.
I
Sonetti rappresentano questo ulteriore punto di svolta, che non è lineare e
tanto meno dialettico, ma
si pone come una nuova rete che si collega alla rete precedentemente intessuta.
I tre principali sonetti si studiano a scuola da sempre e tutti li ricordano,
perché sono semplici, efficaci, comprensibili. Nel sonetto In morte di
fratello Giovanni ritroviamo l’esilio e la morte, in A Zacinto
invece abbiamo la patria, la cultura, e il ruolo della poesia.
Il sonetto su cui mi
voglio soffermare è però Alla sera: lo faccio non perché la più bella,
ma perché in essa troviamo meglio quel processo di costruzione che sto cercando
di delineare.
Forse perché
della fatal quïete
Tu sei l’immago, a me sí cara vieni,
O Sera! E quando ti corteggian liete
Le nubi estive e i zeffiri sereni,
E quando dal nevoso aere inquïete
Tenebre e lunghe all’universo meni,
Sempre scendi invocata, e le secrete
Vie del mio cor soavemente tieni.
Vagar mi fai co’ miei pensier su l’orme
Che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
Questo reo tempo, e van con lui le torme 1
Delle cure onde meco egli si strugge;
E mentre io guardo la tua pace, dorme
Quello spirto guerrier ch’entro mi rugge.
Tu sei l’immago, a me sí cara vieni,
O Sera! E quando ti corteggian liete
Le nubi estive e i zeffiri sereni,
E quando dal nevoso aere inquïete
Tenebre e lunghe all’universo meni,
Sempre scendi invocata, e le secrete
Vie del mio cor soavemente tieni.
Vagar mi fai co’ miei pensier su l’orme
Che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
Questo reo tempo, e van con lui le torme 1
Delle cure onde meco egli si strugge;
E mentre io guardo la tua pace, dorme
Quello spirto guerrier ch’entro mi rugge.
Concentriamoci sul “come”.
Della morte aveva parlato sotto diversi punti di vista
nel romanzo e della morte continuerà a parlare ne I sepolcri e lo fa
sempre con uno sguardo alla vita che non riduce più a semplici somme algebriche.
Nel romanzo il fallimento della sua passione amorosa e del suo impegno
politico, elementi esaustivi della persona, non poteva che generare, in modo
deterministico la morte. La morte di Ortis porta alla rinascita di Foscolo. Non
c’è più la linearità, ma il quadro foscoliano si fa molto più complesso. La morte
non è semplicemente un gesto o un fatto, ma qualcosa che esiste e non esiste,
tanto da confondersi con la sera, che diventa il nuovo punto di riferimento:
protagonista non è la morte che avrebbe occupato tutto lo spazio, ma la sera
che risulta molto più soffice ed eterea. Forse è l’immagine della morte e forse
per questo la sente come qualcosa di caro, ma non è la morte; anzi è tanto
distante dalla morte che gli permette di richiamarne i differenti toni e i
diversi sguardi che essa mostra nelle diverse stagioni. Sembrava dovesse
parlare della morte e invece parla della sera, sembrava dovesse parlare solo
dell’oscurità serale e invece parla anche di letizia, serenità e di nuvole che
la corteggiano.
E’ un tessuto analogico e reticolare quello che il poeta sta
dipanando: dalla morte alla sera, dall’estate all’inverno, che si popola di
inquiete e lunghe tenebre. Ed ecco che le analogie si rincorrono: il quadretto
naturalistico non è una semplice similitudine, perché quando si arriva
all’inquietudine del poeta, non si sono persi tutti gli altri elementi, né
la fatal quiete né i cieli sereni né le oscure tenebre. Inquietudine del
poeta che si trova racchiusa nel suo cuore: la luce del giorno produce linee
nette e precise, la luce serale invece si muove in modo molto più soffuso e
complesso, vivendo di sfumature. Complessità e sfumature, tensioni e
contraddizioni che la poesia, col pretesto della sera, porta alla luce.
La sera, serena e inquieta, lo prende per mano e lo
accompagna per i sentieri che portano al nulla eterno, alla dispersione del
proprio essere materiale, scomparso negli anfratti del tempo: preoccupazioni (cure)
che sono della vita umana e che addensano la sostanza del tempo. Là in fondo
all’orizzonte, accompagnati dai passi del tempo, il nulla eterno ci attende per
annullarci, ma così facendo quei passi riescono anche a liberarci delle nostre
preoccupazioni.
Foscolo è Ortis ma allo stesso tempo non è più Ortis,
perché se è vero che uno spirito guerriero gli ruggisce dentro, è vero anche
che la meditazione lo ha portato attraverso numerosi reticoli a scoprire che
quello spirito è solo un aspetto della sua persona e così lascia libero sfogo a
un sentimento di quiete, quella pace che la sera gli ha evocato. La poesia
comincia con la fatal quiete e termina con la pace della sera, ma non è la
stessa cosa: il poeta non rinuncia alla vita né esalta la morte, ma attraverso
questo viaggio di soli 14 versi è riuscito a scoprire nuovi lati della sua
persona.
Il tempo passa e si porta via
le torme delle cure,
cioè una gran quantità delle
preoccupazioni che si sono affollate nella sua anima, preoccupazioni che
lo divorano divorando ugualmente il tempo. Gli affanni, le preoccupazioni
vanno con lui, piano
piano, inavvertitamente, provengono da ogni
direzione e improvvisamente
si sono impadronite di lui e a
quel punto lui non può far altro che riconoscere che il tempo
della vita si sta consumando e con il
tempo la sua stessa persona.
Questo sonetto vale
più di quanto
sembri, perché non
è un semplice assemblaggio
di versi che ricostruisce un momento strettamente personale: chi non fa nell’arco di una vita, di una stagione, di una giornata pensieri come quelli di Foscolo?
Il
punto è che i versi sopra riportati si inseriscono, in una lettura che non si limiti al “cosa”, nel quadro
della ricerca di senso del poeta. Qualcuno ha voluto vedere nella produzione letteraria
e nella vita di Foscolo la costruzione
di
un personaggio, come
se il vivere fosse
subordinato all’immagine di se stesso
che egli voleva dare nel suo tempo e lasciare
ai posteri. In questo
senso avremmo il modello dell’eroe romantico, superiore a tutti, ai
suoi contemporanei e al contesto in
cui si è trovato a vivere.
Il sonetto Alla sera indica un’altra strada:
poesia e vita sono intrecciate. Foscolo si interroga sul senso
della propria esistenza:
a cosa è servita la sua lotta? A cosa è
servita la sua cultura? A cosa sono
serviti i suoi amori? Il
tempo divora tutto: è, come dirà
Baudelaire, un gladiatore, un reziario, che ci blocca con la
sua rete.
Il sonetto rappresenta
una
pausa e il
senso
prenderà
forma nel prosieguo della
sua produzione.
Non si fermerà qui, anche se vi
tornerà.
Il passaggio successivo è forse
quello decisivo, di maggiore ed estrema sintesi: il Carme de I sepolcri.
In un’epoca che mescolava meccanica ed egittologia, mongolfiere divine
e cristiani
aneliti, certezze e verità
così come verità e certezze;
in un’epoca che già
ci preparava ad accorciare anche le distanze terrestri e aeree; in un’epoca che confondeva mistero
e positive costruzioni, ebbene in quegli anni c’era chi continuava imperterrito a scavare dentro se stesso, facendo di questi esperimenti un’occasione che avrebbe
potuto risultare
utile, se non a tutti, a molti.
Una volta che
Alla sera ha fornito la chiave di volta occorre spostare l’attenzione
sul Carme del poeta: amo I Sepolcri e i suoi riferimenti sia metafisici sia
storici sia mitologici, ma non sono né Achille né Ettore né tanto meno Omero né
la mia aspirazione è quella di andare a riposarmi in Santa Croce. I Sepolcri
parlano ovviamente della morte, ma, come tutte le grandi opere dei grandi uomini,
parlano soprattutto della vita. E soprattutto di ciò che ci avvolge, anche se in
genere non riusciamo ad accorgercene: mi riferisco non tanto alla vita, termine
troppo vasto o troppo modesto per meritare la nostra attenzione, quanto al
senso della vita. Il senso della vita è ciò che costruisce la nostra esistenza
e dunque il nostro destino; esso parla di responsabilità e di creazione, dunque
di poesia, è sempre definito e allo stesso tempo in-de-finito, aprendosi all’eterno
e all’infinito.
All'ombra de'
cipressi e
Dentro l'urne
confortate
di pianto è
forse il sonno
della morte
men duro?
Non avendo Foscolo
il dono della Fede (non concesso o rifiutato non fa la differenza) la Speranza fugge
i Sepolcri, ovviamente. Egualmente un cippo, un fiore, una parola non addolciscono
questa perdita, ovviamente.
Come sappiamo,
questo inizio serve a Foscolo per entrare in quello che è il punto di vista altrui
sulla nostra morte e mostrare come corrispondenza d’amorosi sensi, egregie cose
e il Canto siano in grado di ingentilire gli animi. Dei vivi, ovviamente.
Vediamo invece
i versi che dal terzo al quindicesimo servono a Foscolo per costruire da poeta il
percorso che si è proposto: poeta, cioè, in questo caso, tessitore di veli, in
particolare di quel velo delle Grazie cui stava lavorando.
Ove più il Sole
Per me alla terra non fecondi questa
Bella d’erbe famiglia e d’animali,
E quando vaghe di lusinghe innanzi
A me non danzeran l’ore future,
Nè da te, dolce amico, udrò più il verso
E la mesta armonia che lo governa,
Nè più nel cor mi parlerà lo spirto
Delle vergini Muse e dell’Amore,
Unico spirto a mia vita raminga,
Qual fia ristoro a’ dì perduti un sasso
Che distingua le mie dalle infinite
Ossa che in terra e in mar semina morte?
Punto primo:
… il Sole / per me alla terra non fecondi questa / bella
d'erbe famiglia e d'animali.
La natura
vive per me e il Sole la nutre e ne permette la continua sopravvivenza; la natura,
cioè l’insieme della flora e della fauna, una famiglia bella di erbe e animali,
la nostra famiglia. E il Sole feconda questa famiglia: un concetto astratto che
si ripete nella concretezza dei tempi e dei luoghi. E io ne godo.
Punto secondo:
vaghe di lusinghe innanzi / a me (…) danzeran l'ore
future.
Il futuro mi
costruisce e mi conforma nella sua concretezza, ma non nella sua episodica vanità;
esso mi aiuta, mi rasserena e mi addolcisce, mi entusiasma e mi fortifica, con la
sua sola presenza. Il futuro non è una chimera né un fantasma, al contrario è qui
davanti a me e lo vedo, ne sento i palpiti, ne studio le mosse, ne apprezzo i colori.
Non è un concetto, un’idea, che posso affrontare solo in termini filosofici: l’essere
per la morte sono io che morirò e tra tutte le cose che non so questa è l’unica
che appartiene alla mia conoscenza in modo completo. Il futuro sono battiti, divenuti
fanciulle, sono le ore alla cui danza, invitato o no, sono stato chiamato. Danzano
sempre, in modo incessante, qui e ora, davanti a me e per me: quelle ore sono io
e sono con me. Sono ballerine speciali e come tali, contrariamente a quanto ci si
aspetterebbe conoscendo il finale, non mettono in scena una Danza Macabra, bensì
un gioioso corteo, fatto di lusinghe, cioè di lodi (laus) e allo stesso tempo
di giochi (ludus). Un gioioso corteo, vago, non perché irreale e indefinito,
ma, poeticamente con Petrarca, bello. La bellezza della danza è la bellezza delle
ballerine, cioè delle ore, che mi sorridono e mi accarezzano e mi prendono per
mano e mi inducono a passi e movenze che mi fanno sorridere.
Punto terzo:
… da te, dolce amico,
udrò (…) il verso / e la mesta armonia che lo governa.
La poesia, le
parole che creano la nostra esistenza e che decidiamo di comunicare, sono qualcosa
che va al di là dell’episodico e del contingente. L’amicizia assume in questo senso
un valore profondo che non è solo l’abbraccio maschio o lo sfogo femminile. L’amicizia
è il terreno privilegiato per una corrispondenza d’amorosi sensi che identifica
nelle parole un luogo privilegiato per nutrire gli amici e creare se stessi, nutriti
dagli amici mentre creano se stessi. La dolcezza e l’armonia, seppur mesta, sono
parte integrante di quell’incontro reso possibile non da affinità elettive generiche
ma dal valore che alla parola e al verso si riconosce. Non ci sono imprese da compiere
né canti, ma semplici versi, intessuti con quello spirito che pochi anni dopo Leopardi
scoprirà ne L’infinito. L’armonia, legame ar-itmetico e ar-tistico, è ciò
che unisce le persone e quel legame è dato solo dalle parole che a quei tempi Foscolo
chiamava versi, ma che oggi, piaccia o no, tornano ad essere parole. Dense ed eteree
allo stesso tempo, evanescenti e pregnanti, autoritarie e umili, mai ripetitive
mai pesanti mai incatenate.
Punto quarto:
…nel cor mi parlerà lo spirto/delle vergini Muse…/ unico
spirto a mia vita raminga,
Le Muse non sono solo figlie di Zeus e al seguito di Apollo,
non solo celebrano l’Arte in quello che di supremo essa ha, per i Greci e per Foscolo,
cioè lo spirito divino che diffondendosi tra gli uomini li rasserena e li eleva,
aiutandoli nell’andare oltre la sopportazione della vita, breve e allo stesso tempo
miserabile. Le Muse sono anche figlie di Mnemosyne, ovvero la Memoria, a richiamarci
il legame profondo che esiste tra la parola e la sua costruzione, tra un passato
che vive grazie alla madre delle Muse e un futuro che le Muse ci allietano. E nel
presente noi ci godiamo questo straordinario dono che gli dei ci hanno voluto fare,
dandoci il senso di un’esistenza limitata ma allo stesso tempo proiettata nel passato
come nel futuro. E’ uno spirito, cioè qualcosa di etereo, materiale
ma inconsistente, un soffio, un sospiro e un sussurro che parla nel cuore ad ognuno di
noi. E così la vita, o meglio l’esistenza, si ramifica e ci sorride, lentamente
spuntano bocci, fiori e frutti e dal cuore si diffondono ricoprendoci e accarezzandoci.
Il cuore. Troppo semplice ridurlo all’ente della contrapposizione sentimento-ragione,
troppo semplice identificarlo nel sussulto dell’emozione e nel suo calore, contro
il freddo e l’arido pensiero. Quel cuore è lo stesso di Leopardi, quando procede
alla creazione di “interminati spazi, di sovrumani silenzi, di profondissima
quiete”…ove per poco il cor non si spaura”. E’ il battito della vita che segna
il tempo, lunghissimo ma non eterno, col ritmo delle Muse: esse ci parleranno,
ma noi sapremo ascoltarle? Forse non sempre, ma dovremo provarci, perché senza
quelle parole, e le nostre, la nostra esistenza si perderebbe. Prima di tutto a
noi stessi.
Punto quinto:
… nel cor mi parlerà lo spirto / … dell'amore, / unico
spirto a mia vita raminga,
ma l’unico spirto alla vita raminga è lo spirito dell’amore.
Spirito, ovvero soffio vitale, dunque ciò che ci fa vivere. L’uso di questa parola
può apparire a qualcuno troppo semplice e a qualche altro invece troppo complesso,
al punto di diventare misterioso. In realtà il poeta ha saputo cogliere nella semplicità
di due parole (spirito e ramingo) la complessità dell’esistenza: non occorrono,
a volte, trattati, ma basta trovarsi al posto giusto nel momento giusto. E questo
avviene solo esercitandosi e coltivando dentro se stessi la scoperta: solo così
tra tutti i portoni aperti riusciremo a essere attratti dall’unico che ci inonda
col profumo dei limoni, quello –per l’appunto- che ci indica il varco e ci svela
la maglia rotta nella rete. E’ certamente il Caso, ma il Caso non opera mai “a
Caso”, perché dipende da noi meritarci la sua amicizia. Sarà questa la lezione più
importante, e decisiva, di tutta la poesia moderna, da Baudelaire a Montale e Paz.
E così spirito coincide con la sua origine di soffio, sia
come respiro, senza il quale la vita non si pone, sia come leggero e invisibile,
contrapposto a ciò che invece “pesa e posa”.
E così raminga non è solo la vita di Foscolo che fu in realtà
errante; ma raminga è la vita, perché in essa procediamo di ramo in ramo, anche
quando crediamo di essere abitudinari, perché mutevole è il carattere, unico e
definitivo, della vita umana. Solo lo scavo dentro se stessi, solo lo scrutare dentro
la propria persona permettono di svelare qualcosa che a quella persona risulta irriducibile.
La vita raminga di Foscolo è la vita di ognuno di noi; il
senso della vita di Foscolo e di ognuno di noi è qualcosa di spirituale e in essa
le Vergini Muse e l’amore svolgono un ruolo predominante. Sono uniche, anche se
sono due, perché non è il numero, definito, che lascia il segno, ma lo spirito,
che è per definizione indefinito.
Sul perché l’amore, non vale la pena insistere, perché di
lui ho parlato altrove e in abbondanza. Se mai si può solo confermare oggi, a distanza
di due secoli, la scelta di Foscolo: ciò che era cominciato nel Medioevo e aveva
impiegato secoli per uscire da ambiti circoscritti oggi è il segno dell’esistenza
di ognuno di noi. Universalità dell’amore, oggi, solo oggi, indipendentemente dalle
forme che ognuno, ovunque, ha voluto e vuole dargli.
Vero è ben, Pindemonte! Anche la
Speme, ultima Dea, fugge i sepolcri:
e involve tutte cose l'obblío nella sua notte; e una
forza operosa le
affatica di moto in moto; e l'uomo e le sue tombe e
l'estreme sembianze e le reliquie della terra e del ciel traveste il tempo.
….
Non vive ei forse
anche sotterra, quando
Gli sarà muta l’armonia del giorno,
Se può destarla con soavi cure
Nella mente de’ suoi? Celeste è questa
Corrispondenza d’amorosi sensi,
Gli sarà muta l’armonia del giorno,
Se può destarla con soavi cure
Nella mente de’ suoi? Celeste è questa
Corrispondenza d’amorosi sensi,
Celeste dote è negli umani
Le parti successive sono ricche di significati: parlano delle leggi come fondamenta della civiltà, del culto dei morti che significa rispetto per l’essere umano in quanto tale. Foscolo parla poi di Firenze e di Santa Croce come luogo sacro perché accoglie i corpi dei grandi italiani, esprime il suo dolore (e il suo disgusto) per l’Italia imbelle dei suoi anni; indica il culto della tomba come ispirazione alla poesia, come fece Omero, che renderà immortale non solo il vincitore, ma anche lo sconfitto, in quel caso Ettore, purché “fia santo e lagrimato il sangue per la patria versato”. La poesia come eternatrice. Tutte queste parti sono di estremo interesse, anche perché le parole usate ne forniscono il senso. Le lascio a chi vorrà approfondire quanto fin qui esposto. Quelle parti confermano quanto Foscolo ha sviluppato nel suo percorso, mentre la prima lo collocano su un altro piano, portandolo ad allargare il cerchio riuscendo a sintetizzare quale sia il senso dell’esistenza umana, non solo della sua vita.
I primi versi de I sepolcri proprio perché parlano
della morte sono quanto di più vicino è alla vita, perché ci aprono al suo senso.
Il senso, quel qualcosa che oggi ogni filosofo mediamente intelligente, ermeneutico
o euristico che sia, riconosce come essenziale. Essenza da esse, senso da
sentire: due etimologie chiaramente diverse ma che riescono a toccarsi. Il senso
è essenziale, perché al di fuori del senso noi non siamo. Occorrono anni
perché si scopra questa semplice verità e spesso continueremo senza porci questo
problema.
Chiedersi qual è il senso della vita è già dare un senso
alla vita.
E qui Foscolo ci fornisce degli strumenti che hanno le loro
radici in ogni essere umano: il senso della vita umana non può che essere radicato
nella vita degli uomini. Non confondiamo il senso con l’ideologia che, recidendo
quelle radici, può costruire qualsiasi cosa perché perde le fondamenta su cui la
vita si costruisce e con esse tutti quei filamenti, più o meno lunghi, più o meno
spessi, che dal tronco emergono e si diffondono.
Foscolo parla per sé, un sé storicamente e geograficamente
fondato, con una biografia narrata da lui e da altri, spesso romanzata o tradotta
poeticamente, resa vera non dalla corrispondenza con un reale oggettivo ma dalla
responsabilità che l’uomo-poeta assume fornendone l’interpretazione. Il
poeta Foscolo scava dentro se stesso e porta alla luce aspetti importanti e mette
a fuoco una persona, unica e diversa, unica perché diversa, frutto degli infiniti
aut-aut che lo hanno preceduto e di quelli che si è trovato a vivere, con scelte
casuali e con scelte decise, spesso anche queste frutto del Caso e della contingenza.
E Foscolo ci fornisce una ricetta che è valida anche per
noi, ma che –allo stesso tempo- possiamo trasformare introducendo quelle
varianti che rendono la tradizione così essenziale e i suoi piatti senz’altro più
gustosi.
E così scopriamo che dare un senso alla nostra esistenza è godere di ciò che la natura ci offre e insieme ad essa ciò che l’uomo ha elaborato nel corso della costruzione della
sua avventura: l’arte, la poesia, l’amore.
Ma non esiste vita che valga la pena di essere
vissuta senza passato e senza futuro, senza memoria e senza speranza. La memoria sono le radici che hanno prodotto l’albero che siamo
e la speranza sono i germogli
che
continuiamo a produrre,
stagione dopo stagione.
La passione, amorosa e
politica, per quanto nobile, ha mostrato di non saper reggere all’urto del
tempo e ai marosi dell’esistenza umana e, se è vero con Montale che “persistenza
è solo l’estinzione”, è anche vero che l’uomo può trovare in se stesso,
nella sua breve esistenza terrena, qualcosa che comunque persisterà all’interno
di questa parentesi che tutti ci accomuna.
Le passioni nella figura
di Didimo Chierico sono sentite “come
calore di fiamma lontana”.
Troppo spesso si
tende a considerare questo personaggio, Didimo, come il Foscolo senile, mentre
ciò andrebbe ripensato: Foscolo aveva solo 34 anni quando si accinse alla
composizione delle Notizie intorno a Didimo Chierico e dunque la sua era
senilità solo all’interno di una visione statica e deterministica, per cui
vivere passioni come calore di fiamma lontana non può essere visto come scelta,
come punto strategico della propria esistenza, un modo di essere e non un accidente
del tutto contingente. Foscolo ha costruito non un personaggio, come purtroppo
ancora si tende a dire, ma una persona, la sua, che passo dopo passo, parola
dopo parola è arrivata a individuare alcuni nodi strategici: ricondurre questo
ricchissimo percorso a un ripiegamento frutto di delusioni e a compromessi che
ne farebbero un uomo normale, giunto ormai all’acquisizione del “principio di
realtà”, significa non saper accogliere dentro di noi la sua eredità. Il
fallimento dell’idea rivoluzionaria sarà dimostrato alla fine del ‘900 con il
crollo del Comunismo, basta rileggere “Il passato di un’illusione” di
Furet e in Foscolo è non accidente storico, per cui un’altra volta andrà
meglio, ma la comprensione che è l’idea rivoluzionaria stessa fallimentare. Su
questa comprensione Foscolo ha costruito la propria persona e ci ha lasciato
qualcosa da cui ripartire. Non è solo quanto espresso poeticamente nella prima
parte de I sepolcri, perché lo ritroviamo anche nei frammenti de Le
Grazie, un’opera che ancora viene etichettata come “neoclassica” e
puramente estetica. In quei versi e in particolare in quelle strofe che parlano
del Velo delle Grazie troviamo il completamento di una persona che nel continuo
dialogo con la realtà in cui si trovava inserita riusciva a estrarre sempre
qualcosa che lo proiettasse al di là del contingente. Andare al di là del
contingente non significa collocarsi nell’Empireo dell’assoluto, ma individuare
sempre nuovi orizzonti.
Il velo viene fatto
tessere perché le tre Grazie possano portarlo tra gli uomini in modo tale che
non cedano alle passioni e alla violenza, ma sappiano trarre il meglio dalla
vita, instaurando un clima di pace e serenità. Se il velo non è in grado di
annullare quelle passioni e quella violenza può comunque fornire conforto e
mitigare il dolore. In questo modo Foscolo individua un nuovo orizzonte che, a
differenza della storia e senza negarla, sa indicare agli uomini un percorso
migliore rispetto a quello consueto.
Nessun ripiegamento, nessun
abbandono, nessuna fuga dalla realtà, ma un diverso collocarsi dentro la realtà
e la storia attraverso la poesia che esiste non per una bellezza vuota, ma per
scavare dentro l’anima e portare alla luce le possibilità che esistono negli
esseri umani. Il cosa, ancora una volta, è al servizio del come.
La giovinezza che guarda al
futuro con fiducia e sente il Tempo più come un compagno che come un nemico,
l’amore verecondo, la pietà nei confronti del nemico che è stato sconfitto,
l’affetto dei genitori per i figli e la paura per le disgrazie che possono loro
capitare, la gioia dell’amicizia e i piaceri di un festante convinto, vissuti
nei limiti e non oltraggiati dagli eccessi
Flora intendeva, e sì pingea con l’ago. Mesci, odorosa Dea, rosee le fila;
e nel mezzo del velo ardita balli, canti fra ’l coro delle sue speranze
Giovinezza: percote a spessi tocchi antico un plettro il Tempo; e la danzante
discende un clivo onde nessun risale. Le Grazie a’ piedi suoi destano fiori, a
fiorir sue ghirlande: e quando il biondo crin t’abbandoni e perderai ’l tuo
nome, vivran que’ fiori, o Giovinezza, e intorno l’urna funerea spireranno
odore.
Escono errando fra l’ombre e i raggi fuor d’un mìrteo bosco due tortorelle
mormorando ai baci; mirale occulto un rosignuol, e ascolta silenzïoso, e poi
canta imenei: fuggono quelle vereconde al bosco.
Mesci, madre dei fior, lauri alle fila; e sul contrario lato erri co’
specchi dell’alba il sogno; e mandi a le pupille sopite del guerrier miseri i
volti de la madre e del padre allor che all’are recan lagrime e voti; e quei si
desta, e i prigionieri suoi guarda e sospira.
Mesci, o Flora gentile, oro alle fila; e il destro lembo istorïato esulti
d’un festante convito: il Genio in volta prime coroni agli esuli le tazze. Or
libera è la gioia, ilare il biasmo, e candida è la lode. A parte siede bello il
Silenzio arguto in viso e accenna che non volino i detti oltre le soglie.
E fu quel velo eterno. E apparia a
rallegrar la terra.
Non trovo
sbagliato il riferimento a Foscolo-Minerva, la quale, dopo essersi schierata
con i re e con i popoli che combattono per la giustizia e la libertà, si ritira
nell’isola per tessere il velo: dunque una similitudine col percorso foscoliano
dall’impegno civile e politico a quello esclusivamente poetico. Ciò che trovo
insufficiente, se non proprio sbagliato, almeno oggi dopo gli eventi del XX
secolo e lo sviluppo poetico-filosofico che si è avuto tra 1800 e 1900, è il
considerare questo percorso come qualcosa di riduttivo se non proprio di
negativo che ripropone la scissione semplicistica e deterministica tra realtà e
pensiero, tra cose e parole.
Fare della
propria vita un’opera d’arte, e Baudelaire ce lo ha insegnato, non significa
ritirarsi in una torre d’avorio lasciando che la realtà (supposta tale) faccia
il suo percorso. Questa impostazione ha impregnato la nostra vita per quattro
secoli e continua a fare danni: non aver capito che il rilievo della poesia
nella vita di Foscolo è un percorso autonomo e alternativo al comune sentire ha
portato, per fortuna con un numeroso e importante dissenso, al subordinare la
poesia alla realtà fino agli estremi tristissimi del realismo socialista
sovietico e maoista. Purtroppo ancora oggi questo dissidio non solo non è stato
ricomposto, ma spesso neppure intaccato: ne è un esempio significativo
l’insegnamento della letteratura nella scuola italiana.
Ci fu il
tempo degli eroi e la poesia ne fu testimonianza e incitamento, ma poi la polis
lasciò il posto all’individuo e il posto degli eroi fu preso dai funzionari di
partito, anche senza organizzazione. Rileggere Foscolo senza i soliti
pregiudizi aiuta le persone, non solo gli studenti, a individuare i propri orizzonti
e a costruire il proprio percorso.
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