Torquato Tasso
Un altro punto fermo nella costruzione dell’IO


 
Da molti Tasso è ricordato perché sinonimo di un animale e anche di una pianta, ma qualcuno sicuramente non dimenticherà il poeta della Gerusalemme Liberata: forse non molti anche perché si potrebbe registrare un’accusa di islamofobia e poi la guerra non va più di moda.
A parte la celia che mi sono permesso, cercherò di spiegare perché Tasso rappresenti “un altro punto fermo nella costruzione dell’IO”.
Contrariamente a quello che si continua a credere non esiste un IO facilmente identificabile e riconoscibile: è stato mostrato dai poeti moderni di Otto-Novecento, dai filosofi dello stesso periodo, dalla fisica quantistica, dalla psicoanalisi e infine dalle neuroscienze negli ultimi decenni. “Cogito ergo sum: penso dunque sono” non convince più nessuno e, non a caso, uno dei più stimati neuroscienziati, Antonio Damasio, ha voluto intitolare un libro prezioso: “L’errore di Cartesio”.
Questa acquisizione risulta sempre più diffusa e accettata, a tal punto che persino un “Anime” giapponese “Evanghelion” seguitissimo in tutto il mondo parla di “attuale me stesso” e conferma che esso “non è il mio assoluto” (episodi 25-26). Rimangono sacche, anche colte, che continuano a parlare di “vero IO”, ma l’evolversi della vita contemporanea ne mostra il carattere illusorio.
Ho intitolato l’articolo su Petrarca “L’IO comincia a formarsi” e ho spiegato come, soprattutto sulla scia di Sant’Agostino, la persona iniziasse a prendere consistenza e ad avere forma uscendo dall’aspetto vago e nebulosa con cui veniva presentata. Sant’Agostino ha dato una definizione dell’anima non generica proponendola come articolato intreccio di tre elementi: l’intelletto, la memoria e la volontà. Non fu un passo senza conseguenze e permise a molti di far germogliare qualcosa che poi non si sarebbe più fermata. Ho mostrato come Petrarca avesse sviluppato quel concetto in modo ricorsivo, partendo cioè dalla propria esperienza per tornare arricchito ad essa. Ma ciò che fece e scrisse Petrarca non fu definitivo: tra l’IO petrarchesco e “l’IO è un altro di Rimbaud” sono intercorsi non solo 500 anni ma numerosi tentativi e numerosi cambiamenti, che hanno permesso di costruire realtà soggettive sempre più interessanti e decisive. E questo è avvenuto al di fuori e lontano da proclamazioni ideologiche e atti di fede inutili.
In questo percorso, che naturalmente non si è concluso né con Rimbaud né con Nietzsche né con le neuroscienze, Torquato Tasso rappresenta un punto di svolta importante, un nodo o, come mi piace dire, un hub. Il poeta vive la sua vita, ha acquisito quanto elaborato e diffuso da Petrarca, scrive perché è un lavoro che sa fare bene ma anche perché ha compreso che la scrittura e la vita sono meno lontani di quanto si pensi, anzi, se non si è capaci di trasformare in scrittura la vita e in vita la scrittura, allora ben poco senso ha l’esistenza umana. E questo è ciò che rende grande uno scrittore e soprattutto un poeta.
Tutti sappiamo quanto fosse turbata l’esistenza del poeta.
Uomo portato via dagli affetti della madre a otto anni; in pochi anni passò di città in città, da Roma a Urbino a Bologna, Venezia, Padova, Ferrara dove stette come cortigiano per più di dieci anni. Fu censore di se stesso nel rivedere la sua opera principale, la Gerusalemme Liberata, e fu più volte internato per gesti stravaganti e la seconda volta vi restò per sette anni avendo dato in escandescenze. Si sentiva trascurato, attaccato, accusato, criticato nell’attività di poeta e di cortigiano, e passò gli ultimi anni della sua vita tra Roma e Napoli. Non ebbe particolare fortuna con il sesso femminile e i suoi amori furono sentiti in modo petrarchesco, ma spesso furono solo amicizie.
Molti lo considerarono folle, molti non riconobbero alcun sintomo di pazzia, molti videro in questo suo tormento e travaglio e insoddisfazione e turbamento e irrequietudine una sorta di “maledettismo” che spiegherebbe il suo genio e la sua capacità poetica, secondo i canoni che, soprattutto i romantici, avrebbero formalizzato.
Ecco un’immagine riduttiva dell’attività poetica di Tasso che trasforma in ideologia un’intuizione, fissandola in uno schema rigido: ragione contro sentimento, cervello contro cuore, l’IO contro il mondo. Un’esaltazione del sentimento che pretende di affossare il razionalismo illuministico, ma che viene fatta in modo molto razionale, di fatto smentendosi: bisognerà aspettare la seconda metà del 1900 e le riflessioni di Gadamer per liberarci di questo cliché, anche se in vero rimane molto diffuso in tutti gli strati della popolazione.
Da un altro lato il macrocosmo prende il posto del microcosmo. Capire Tasso può avvenire abbandonando il micro dell’individualità ed entrando nel macro della storia. In questo senso è facile contrapporre il placido Ariosto al turbato Tasso, il primo espressione di quel Rinascimento che tutti ci invidiano e che maturò nel quadro dell’autonomia e dell’indipendenza delle Corti. I pochi decenni che separano i due poeti possono anche essere interpretati come le fasi di transizione che vedono l’Italia perdere il proprio dominio, diventare terra di conquista, essere segnata dalla Controriforma e dallo scontro sempre più acuto tra Cattolici e Protestanti e tra Cristiani e Musulmani. Tasso risentì sicuramente di questo mutato clima e certamente la sua persona, la sua anima, il suo IO avevano specifiche caratteristiche non riconducibili alla media.
Le due interpretazioni sono senz’altro vere, ed evidenziano due differenti punti di vista, ma due differenti punti di vista possono essere veri solo alla luce di una visione epistemologica complessa, tanto che risulta difficile farle convivere, pretendendo ognuna un posto di primattrice. D’altra parte metterle insieme risulta essere un’operazione esclusivamente artificiale, come dimostra, nell’affrontare l’argomento, uno dei migliori manuali di Letteratura per le Superiori. “Il mondo poetico di Torquato Tasso rappresenta…una realtà estremamente variegata e complessa, a tal punto che ogni tentativo di rappresentarla nella sua totalità rischia di naufragare sugli scogli della genericità e dell’incompletezza”(Marchese-Grillini, La Nuova Italia, 1998, pag. 134). Da qui si afferma il carattere singolarmente rappresentativo di un’epoca della Gerusalemme Liberata. E’ curioso poi che poche pagine dopo si parli del poeta come “Poeta del cosmo. Poeta capace di racchiudere nel proprio testo, con perfetto rigore di parole, il senso del mondo e delle sue vicende” (id. pag.148) e venga riportato il giudizio di un grande critico come l’Anselmi per cui “Il cosmo stesso prende un ordine e un senso e una possibile conoscibilità dalle parole del poeta” (id. pag. 148).
Come i triangoli di Stoppard, questo tipo di riflessioni e considerazioni va ritenuto utile, perché ci ha permesso di avvicinarci alla letteratura in modo più consapevole e andando alla ricerca di un senso che è in tutte le cose, indipendentemente dal fatto che l’autore lo avesse voluto comunicare.
Come i triangoli di Stoppard, quelle considerazioni mantengono la loro utilità e di esse non possiamo fare a meno, ma occorre andare oltre, perché oggi si pone il problema, che riguarda tutti, del senso, dell’interpretazione e della responsabilità; e per fare questo dobbiamo stabilire un contatto con le più recenti acquisizioni epistemologiche.
Non dobbiamo giudicare né Tasso né il Manuale scolastico. Dobbiamo cercare tra parole e versi ciò che può aiutarci nella comprensione di ciò che siamo, di ciò che siamo diventati e di ciò che vorremo essere: che rapporto esiste tra il nostro IO e quelle parole? Possono piacerci o non piacerci, nel senso del ritmo, delle immagini, dello stile e tutto il resto, ma la vera domanda che dobbiamo porci è: hanno contribuito alla nostra costruzione? E se sì in che senso? Il legame con quelle parole non è solo il legame tra me e il poeta, ma tra ciò che sono, e voglio essere, e ciò che Tasso esprime: nella mia con-formazione ci sono forme che appartenevano al Poeta? E queste sono solo casuali o ci caratterizzano per una comune cultura?

Io penso che il modo con cui mi manifesto, io e i miei simili, le caratteristiche che segnano la mia identità provengano da un’evoluzione del concetto di persona e di IO che ha visto i suoi primi passi con Petrarca e a cui Tasso 200 anni dopo ha dato il suo contributo. L’IO che siamo, l’IO di oggi è stato, ed è possibile, grazie a un percorso che da Petrarca ha portato a Tasso e che da questi ha portato a una successiva evoluzione grazie alla letteratura Otto-Novecentesca. Naturalmente non posso riportare tutti gli autori che hanno contribuito a questa evoluzione e confermo che in molti ci hanno messo qualcosa di loro: mi soffermo su quelli che sono veri e propri hub nel processo reticolare, snodi che hanno assorbito da tutti qualcosa e lo hanno rielaborato in modo da porre le basi per poter ripartire da un punto più complesso. Petrarca e poi Tasso, in questo processo, si sono comportati come “emergenze” collocati al “margine del caos”, il luogo privilegiato per la costruzione di realtà, a livello biologico come pure a livello sociale e personale. Non voglio sottovalutare il contributo di pensatori e filosofi che hanno dato un impulso non secondario, ma, come ho spiegato in un precedente articolo, ciò che imprime una svolta non è “il cosa” ma “il come” e questo materiale appartiene alla letteratura.
Purtroppo la scuola oggi si limita al riassunto della vita dell’autore e al riassunto delle opere, per cui, quando va bene, uno studente sa di cosa parla la Gerusalemme Liberata o l’Aminta, ma senza leggere dei passi (non importa leggere l’opera intera) non si entrerà mai nel “come”, nell’universo concreto e materiale in cui la singola parola, la frase, il verso, la strofa aprono le porte del nuovo universo proposto dal poeta. Dire che l’Aminta è una favola boschereccia dal tratto rinascimentale, dire che la Gerusalemme Liberata si distacca introducendo toni manieristici, dire che nelle Rime ormai abbiamo un assaggio del barocco è vero e importante: quante volte l’ho detto nelle mie lezioni. Occorre però ritrovare nelle singole opere quel flusso di complessità che ci permette di guardarci allo specchio anche a distanza di 500 anni, educandoci non solo al rispetto per la parola ma al fatto che la parola è il primo elemento che incontriamo e che, se ben affrontata, ci apre porte per fare i conti con noi stessi.
Per quanto riguarda l’Aminta mi limiterò a un passo celebre, quello che parla dell’immaginaria società delle origini, identificata qui con la “bella età dell’oro”. Tasso non si accontenta di quanto detto dai classici e cioè che quell’età viveva nell’eterna primavera, quando il latte scorreva nei fiumi, le terre producevano frutti senza il lavoro dell’uomo e i serpenti non erano velenosi né c’erano guerre o commerci, attività pericolose per tutti. Egli si concentra su una sola parola, attraverso la quale esprime il suo disagio: onore. Si può essere d’accordo o no, ed io non sono d’accordo, ma la parola diventa il nucleo fondante di una riflessione e in questo senso assume un valore metodologico non indifferente. Vediamo.
L’onore è chiamato “vano nome senza soggetto…idolo d’errori, idol d’inganno”. Non possiamo fermarci al significato che della parola dà il vocabolario, dobbiamo entrarci dentro e la poesia fa questo. L’onore è qualcosa di vano e senza soggetto: vano come ha spiegato Petrarca non vuol dire solo inutile, ma mostra qualcosa che esiste ma ha la tendenza a scomparire (evanescente) e in questo senso si capisce anche perché sia un nome senza soggetto, perché oggi è presente, reale e domani è scomparso. Nella stessa direzione incontriamo la parola idolo, che è semplice immagine e allo stesso tempo figura da venerare, per cui Tasso ci tiene a precisare che noi lo veneriamo, l’onore, come se fosse qualcosa di sacro, ma allo stesso tempo esso riverbera l’immagine dell’errore e dell’inganno. La strofa si conclude con un inno al piacere: “S’ei piace ei lice”, cioè “E’ lecito ciò che piace”: non esistono leggi degli uomini ma leggi naturali che si identificano nel piacere. Appare evidente che Tasso non voglia fare una lezione di storia o di diritto, non è il suo compito né quello della poesia: si immerge in un universo sognato e sognante in cui non sia presente nessun intralcio posto dagli uomini riuniti in società. Nessun Rousseau o nostalgici del bel tempo che fu.
Spesso l’Aminta è contrapposta alle altre opere per mettere in evidenza, talvolta con malizia, un uomo pieno di contraddizioni: dove è finito il poeta del “S’ei piace ei lice” quando va ad umiliarsi presso la Santa Inquisizione perché non convinto che la sua Gerusalemme Liberata corrispondesse ai canoni della Controriforma? Dove è finito il poeta che esalta libertà e piacere e poi dà in escandescenze perché non riceve le attenzioni che crede gli siano dovute?
Ho detto “con malizia” perché è tradizione, soprattutto italiana, non risparmiare critiche a tutto ciò che ruota intorno alla Chiesa e in particolare alla Chiesa tridentina. Va notato che esiste una pretesa letteraria, e anche della critica letteraria, direi una pretesa culturale che dall’alto si è diffusa nella nebulosa popolare, ed è la pretesa dell’unità, dell’ordine, dell’omogeneità, della logica (cartesiana), per cui tutto ciò che si presenta in modo disorganico è sempre accompagnato, quando va bene, da un “sì, ma”. E’ lo stesso motivo per cui si sono visti fino all’avvento dei frattali solo triangoli e piramidi regolati da inossidabili formule e teoremi, insomma un’opera per essere considerata grande deve mostrare di essere organica. Lo stesso vale per un autore. Vediamo come è possibile spostare la riflessione su un altro piano.
Al posto dell’organico, dell’ordine e del sistema credo che sia più interessante spostarsi sul piano del collegamento, del riferimento, dell’analogia, persino del volo pindarico. L’ordinato e l’organico presuppongono una chiusura che può essere lineare o anche circolare, mentre l’analogia comporta l’aprirsi a rete e la struttura reticolare che è naturalmente sempre aperta. La con-fusione di cui parla Baudelaire in “Corrispondenze”, le corrispondenze, la relazione analogica appartengono al contenuto della poesia e alla vita reale, ma soprattutto travalicano il rapporto tra poesia e vita reale, essendo capaci dei più audaci incontri e delle più imprevedibili connessioni.
L’Aminta evoca un mondo boschereccio, arcadico, popolato da pastori ninfe e personaggi silvestri, un mondo in cui i sentimenti si sviluppano e si diffondono liberamente e dove l’elemento primitivo non è visto in modo negativo. Non è il mondo della Gerusalemme Liberata, dove si respirano i fumi del conflitto religioso con tutti i suoi attributi, di guerra di sangue di morte. Eppure questo universo, semplice e ricco di armonia, non è esclusivo dell’Aminta, ma appartiene al poeta e ci rimanda ad alcuni passi della Gerusalemme Liberata. L’Aminta esalta il piacere e la vita felice, e in tal senso va la conclusione, ma essa vive anche del dramma che è inseparabile all’esperienza umana: il rapporto tra Aminta e Silvia si sviluppa secondo trame che descrivono l’amore più in modo reale che mitizzato. Nell’Aminta però non emergono persone e individui, non perché i personaggi manchino di caratterizzazione ma perché sono privi della parola che darebbe loro la vita. Nell’opera infatti dominano le azioni, gli avvenimenti e le sentenze (sull’amore, sulla giovinezza, sull’attività edonistica come la caccia), rifacendosi soprattutto ai modelli classici. Quel mondo però non è estraneo al poeta che ne fa una componente essenziale ne La Gerusalemme Liberata dove però le parole animano i personaggi. Vediamo ad esempio Erminia.
Erminia è un personaggio inventato, al contrario dei più. E’ un cavaliere pagano che combatte, fugge, si innamora, è protagonista femminile che convive col suo impossibile amore. La critica ne mette in evidenza il carattere sentimentale e patetico che fa la sua bella figura nel paesaggio idillico e bucolico non dominante nel Poema. Io credo che il grande merito di Erminia nella Gerusalemme Liberata e di Tasso che l’ha creata e la muove a suo piacimento non stia nella caratterizzazione sentimentale ma nelle parole che da lei e intorno a lei la poesia ha creato. Nell’Aminta dominano le azioni, ed è anche giusto visto che è stato scritto per essere rappresentato, ma nella Gerusalemme Liberata sono le parole che chiariscono cosa è la poesia; non tanto le parole di Erminia, ma le parole di Tasso. Al termine della fuga si trova tra i pastori. “Infra l’ombrose piante…la man tremante…par tra viva e morta”: ritroviamo Petrarca con una sensibilità nuova che darà spessore all’IO. “Ella pur fugge, e timida e smarrita…errò senza consiglio e senza guida,…non udendo o vedendo altro d’intorno, che le lacrime sue”. E ancora, poco dopo: “de’ suoi mali solo si pasce e sol di pianto ha sete”.
E’ Petrarca, con i suoi aggettivi e i termini che appaiono oggettivi ma che scavano nell’animo della persona e lo portano alla luce. Paesaggio-sentimento, natura-sentimento: “Fin che garrir gli augelli non sentì lieti e salutar gli albori e mormorar il fiume e gli arboscelli, e con l’onda scherzar l’aura e co’ fiori. Apre i languidi lumi…”.
Ho saltato molti versi perché non è importante la quantità, ma quello che ho espresso (pardon, quello che Tasso ha espresso) si trova in sole cinque strofe: è evidente che si sente Petrarca, talvolta anche nelle singole parole, ma soprattutto nello spirito, nella scelta di non limitarsi al racconto, alla narrazione, volendo insistere sulla profondità dell’IO. Le piante ombrose danno rilievo al suo dolore mentre il dilungarsi sul garrire lieto degli uccelli, sul mormorare di fiumi e alberelli, insomma su una natura che accoglie festosa la nuova alba gioca in contrasto col dolore e le lagrime della sera prima: è un risveglio della natura che prelude al risveglio dell’anima di Erminia. “I sospiri, il pianto, i lamenti” non cessano, ma sono mitigati dal chiarore dell’alba (albus è in latino bianco, chiaro) e dalle voci (“un chiaro suono”) dei pastori che vede intenti al lavoro e ad ascoltare “di tre fanciulli il canto”. Il sole sorge ed Erminia “risorge” (Canto VIII, 45). Naturalmente non sono gli unici versi che grazie alla parola formano e conformano un IO trasformando il personaggio in persona, ma sono comunque esemplari. Subito dopo Tasso torna all’ideologia esposta nell’Aminta per la vita semplice contro onore e ricchezze, ma non è questo che a me interessa. Nel Canzoniere Petrarca parla di sé e di Laura, ne la Gerusalemme Liberata Tasso parla dell’IO: è la spirale della conoscenza e della creazione, tornare indietro per spostarsi avanti.
Troppo spesso, ancora oggi, la rottura di una relazione, la fine di un amore sono accompagnati dal “cosa” e non dal “come”: mi hai tradito, non ti amo più. Il dominio della ragione ha lasciato il posto all’esplosione del sentimento, ma entrambi, come acutamente osserva Gadamer in “Verità e metodo” con riferimento all’Illuminismo e al Romanticismo, non sono distanti e tanto meno opposti. L’impostazione comune del rapporto tra ragione e sentimento fa sì che il sentimento (comparso non si sa da dove) si riduca al “cosa” della ragione: “non ti amo più” sembra un’espressione intima e interiore, ma in realtà è un’affermazione di estrema semplicità, una scelta razionale poco ragionata, tutta esterna, “non ti amo più” e così non avrai più le mie carezze né dormiremo insieme né uscirò con te. Esiste però un ponte tra questi due mondi che sono separati solo per deriva culturale (Pascal docet) e questo ponte è dato dalla parola, la parola che forma, conforma, consolida l’IO che altrimenti si trova smarrito e ubbidisce ai rapporti di forza e alle volontà di potenza costituite.
Tasso cerca e trova le parole; non le inventa, non ha bisogno di un mondo fantastico, ma si nutre di quanto proposto da Petrarca e lo arricchisce non accontentandosi: in questo modo ci aiuta a com-prendere, prendere insieme e dentro di noi un mondo completamente nuovo. L’IO petrarchesco ne esce rinnovato e rafforzato. Peccato che da noi non si riesca ad andare oltre “ti amo finché dura”.

Erminia è solo un esempio e Tasso ce ne offre altri; non potendo in questa sede sviluppare completamente questa rinascita e ricostituzione dell’IO, parlerò di un altro noto episodio, quello del duello tra Tancredi e Clorinda, che ritengo sia il più ricco e denso di tutta la Gerusalemme Liberata. Qui l’aspetto determinante non è patetico né sentimentale, ma mostra l’intreccio di componenti diverse dell’IO. Il passo è celebre: Tancredi entra in duello con Clorinda che crede un uomo e Clorinda combatte da par suo senza sapere che ha di fronte Tancredi. Solo alla fine si riconosceranno, ahimè!
Il passo è straordinario per il ritmo e lo svelamento dell’incontro, proposto in modo crescente da Tasso, attraverso parole che trasformano l’azione in squarci dell’anima. Lui la cerca “impetuoso” e si scambiano promesse e doni “O tu che porte?...E guerra e morte. Guerra e morte avrai. E ferma attende.” L’impeto è in-petere, cercare dentro/verso. Trovato il nemico, anche Tancredi si ferma. Ma non si ferma l’animo: “ed aguzza l’orgoglio e l’ira accende”, per cui l’orgoglio è acuto e pronto a ferire come una spada e l’ira trova alimento alla sua fiamma. Non è più il duello tra due nemici, ma inizia lo scontro tra due anime in cui orgoglio e ira la fanno da padroni: come due tori gelosi (e vansi a ritrovar non altrimenti che duo tori gelosi e d’ira ardenti, strofa 53). Il duello si presenta degno di essere ricordato (“opre memorande”) e per questo Tasso si sente in dovere di celebrare il duello e lascia un inno dedicato alla notte, preludio a un nuovo sentire: non è più solo la luce a dominare, ma anche il buio ha i suoi diritti e merita un riconoscimento e il poeta è colui che stabilisce un ponte tra questi due estremi. “Notte, che nel profondo oscuro seno chiudesti…splenda del fosco tuo l’alta memoria” e “piacciati ch’io ne ‘l tragga e ‘n bel sereno a le future età lo spieghi e mande. Viva la fama loro; e tra loro gloria splenda del fosco tuo l’alta memoria”. Il climax corrisponde al canone, e non possiamo che apprezzarlo, ma il climax in sé ci fa perdere i vari tasselli che sono, a mio parere, la novità. La strofa 55 ci propone in rapida successione i movimenti di due grandi combattenti, ma al centro della scena è “il furore” e persino le spade suonano “orribilmente”.
Né cristiani né pagani, né cavalieri, né uomini né donne, il duello è qualcosa che va oltre la dimensione materiale, che è solo l’effetto; “l’onta, lo sdegno, la vendetta” tengono il campo e si inseguono e si riproducono ricorsivamente. “Infelloniti e crudi”, sempre più vicini in un teso corpo a corpo, ma il cingere e l’abbracciare come il discingere non possono non richiamare alla mente l’incontro d’amore, che può essere ma non è: “nodi di fer nemico e non d’amante”.
Hanno combattuto tutta la notte e ora che sta per sorgere l’alba sono esangui; Clorinda sta peggio e Tancredi si inorgoglisce, ma Tasso lo rimprovera: “Misero, di che godi? Oh quanto mesti fiano i trionfi ed infelice il vanto! Gli occhi tuoi pagheran (se in vita resti) di quel sangue ogni stilla un mar di pianto.
L’onore dell’Aminta, il disprezzo per le regole e le convenzioni sociali sono qui scomparsi, lasciando il posto a due persone in cui l’amore e l’odio trovano l’espressione concreta e quotidiana, arricchendosi di tutto quello che ancor oggi ci tormenta e spesso ci distrugge: la vergogna, il risentimento e il disprezzo, il desiderio di vendetta, la crudeltà, la fellonia cioè la cattiveria, il furore, l’ira, l’orrore, l’impeto, l’orgoglio.
La situazione è ormai decisa e nulla potrà acquietarla e tanto meno fermarla: una frase sprezzante di Clorinda fa ripartire lo scontro e l’incendio della torre di cui lei è stata l’artefice “arse di sdegno”, incendiò l’animo di Tancredi. Ancora ira, ancora furore, ancora sdegno e ferite sempre più profonde: combattono ormai per inerzia, ma le conseguenze sono sempre più gravi: “vanno a giunger danno a danno”. Non si fermano, non possono fermarsi, e la morte ormai è prossima. Morirà Clorinda, ma la strofa 64 va ben oltre la descrizione dell’evento finale di una persona, perché esso conclude la vita di Clorinda, ma anche quello che abbiamo sospettato fin dall’inizio. Il duello è anche l’amplesso che abbiamo sognato tra i due, possibilità non realizzata ma che ci ha accompagnato fin dalle prime strofe e che ora si manifesta compiutamente. E’ un amplesso e un non-amplesso. Poniamo attenzione sulle parole, sulle espressioni e cerchiamo di leggere l’episodio in modo bifrontale.
Spinge egli il ferro nel bel sen di punta, che vi si immerge e ‘l sangue avido beve, e la veste, che d’or vago trapunta le mammelle stringea tenera e leve, l’empie d’un caldo fiume. Ella già sente morirsi, e ‘l piè le manca egro e languente”. In fondo “La petite mort” (La piccola morte, come scrisse Bataille) è come ancora oggi i francesi chiamano l’orgasmo.”
La conclusione dell’episodio è nota. La morte prossima spinge Clorinda a voler essere battezzata, ma il culmine viene raggiunto quando, tolti gli elmi, i due si riconoscono: Tancredi sta per soccombere ma Clorinda non cede perché è felice di salire in cielo.
Questo finale corrisponde naturalmente a valori ideologici e non poetici, poiché il Cristianesimo, la vera religione, deve trionfare, ma Tasso riesce a evitare il messaggio sterile e anzi trasforma ciò che avrebbe potuto essere arido e superficiale in un’occasione di ulteriore sviluppo. Tra la strofa 66 e la 69 ritroviamo il poeta che costruisce la persona dandole voce: “In queste voci languide risuona un non so che di flebile e soave ch’al cor gli scende ed ogni sdegno ammorza, e gli occhi a lagrimar gli invoglia e sforza…e l’elmo empiè nel fonte e tornò mesto al grande ufficio e pio. Tremar sentì la man…Colei di gioia trasmutossi, e rise; e in atto di morir lieto e vivace…D’un bel pallore ha il bianco viso asperso, come a’ gigli sarian miste viole, e gli occhi al cielo affisa, e in lei converso sembra per la pietate il cielo e ‘l sole; e la man nuda e fredda…in vece di parole gli dà pegno di pace. In questa forma passa la bella donna, e par che dorma”.
Il lavoro di Tasso sulla poesia è prima di tutto un inesausto lavoro su se stesso, sulla propria persona: questo legame tra un’esperienza umana continuamente in discussione e una poesia che non si accontenta né del lessico né delle immagini ha permesso di arricchire quel concetto di IO che da Petrarca è diventato protagonista della scena mondiale. Non intendo qui assolutizzare la figura e il ruolo di questo poeta né farne il fondatore e l’ispiratore di un nuovo modo di essere: tutto il manierismo e il barocco prossimo venturo hanno dato il loro contributo non inferiore a quello di Tasso, come pure, proprio sulla scia di Petrarca, anche il Rinascimento ha fornito materiale importante. Voglio solo stabilire una relazione tra colui che ha posto la parola al centro della costruzione dell’IO e chi più chiaramente ne ha fatto fruttare l’eredità. Come ho già detto la storia, a qualsiasi livello, ha un carattere evolutivo e questo si muove in modo reticolare: poiché ho già spiegato quali sono i caratteri e le forme di una rete e come chi la studia possa parlarne, sto isolando un percorso sapendo che non è lineare. In questo senso ho bene in mente la presenza dei poeti spagnoli e di Shakespeare e di molti altri, senza dimenticare i pittori, al di là di una ristretta visione cronologica. Non ho intenzione di stabilire un rapporto causa-effetto con l’obbiettivo comune di ridurre la complessità dei fenomeni, degli eventi e delle persone a una autoreferenziale pseudolegge universale.
Questo articolo vuole evidenziare il ruolo della parola nella costruzione della persona, non dell’intellettuale che compare in tutti i manuali, ma proprio della persona comune che oggi è il protagonista. Ho detto che l’Aminta è priva di parola, al contrario della Gerusalemme Liberata: le Rime sono l’altra opera di Tasso in cui la presenza della parola fa la differenza.
Non si tratta di maggiore lessico o una migliore scelta dei vocaboli, non si tratta di raffinatezza linguistica, stilistica o un sapiente uso delle immagini e delle figure retoriche: le Rime di Tasso interpretano già, e pienamente, quella che pochi decenni dopo sarà la sensibilità barocca, ma qui si afferma il riconoscimento del valore della parola non per descrivere ma per scoprire. Descrivere il mondo è il punto di partenza, come sarà definitivamente da Baudelaire in poi, ma non è sufficiente, perché occorre per immediate o successive analogie arrivare alla nostra anima. Senza l’anima, non esiste l’amore, come ha chiarito O. Paz in La doble llama, perché l’amore è tensione di un’anima verso un’altra anima: è l’erotismo che si accontenta di far dialogare (e intrecciare) i corpi. Che poi l’anima, anzi le anime, creino regolarmente dei casini questo è un altro discorso.
Accomunare le Rime di Tasso a tutte le poesie barocche rischia di portarci fuori strada, perché sposta le sue parole dal percorso personale del poeta.
C’è una poesia che rappresenta molto più di quello che appare a prima vista. La struttura è semplice, i versi sono solo nove con molti settenari (quindi anche brevi), le immagini sono evidenti, quasi pittoriche: ci sono boschi e fiumi, c’è il mare, ci sono onde e grotte, anche i venti e la notte e la luna. Quadretto naturalistico, paesaggistico, arcadico, idillico, ma non è l’Aminta. C’è il poeta che fa all’amore con la sua donna: “noi tegnam ascose le dolcezze amorose. Amor non parli e spiri, sien muti i baci e muti i miei sospiri”. Perché l’amore deve tacere e trattenere il fiato? Perché muti devono essere i baci e i sospiri? Il silenzio della natura sotto la luce notturna della luna protegge l’intimità dei due amanti; questi non hanno bisogno di gridare, la loro felicità è solo loro e in essa nascono e muoiono, forse hanno parlato e sospirato, forse, ma ora (al termine dell’amplesso?) si godono il silenzio di un post coitum che, diversamente dall’immagine classica, lascia animal felix e non triste. Non è semplice petrarchismo, di cui chiaramente si sentono i profumi, ma molto di più: boschi e fiumi tacciono, il mare è piatto, i venti hanno cessato i loro violenti e rumorosi movimenti, mentre la luna è bianca e la notte nera, simboli di silenzio, contrariamente al sole infuocato che parla e strepita. Nulla disturba la quiete dei due amanti, nulla da fuori si insinua dentro di loro, anzi tutti gli elementi naturali congiurano a proteggere il loro amore: attimo felice che può proiettarsi verso l’infinito.
Tutte le rime presentano questa capacità di dare voce alla propria anima, riprendendo da Petrarca talvolta delle espressioni talvolta delle immagini, sempre lo spirito: la natura è disarticolata nelle sue componenti che vengono proposte in maniera quasi cubista, senza alcun riferimento storico-geografico: eppure la scomposizione, quel tratto veloce, pittorico e fotografico, dipinge e fotografa la realtà interiore del poeta che, proprio per questo, riesce a entrare dentro la nostra anima.

E’ questa transizione tra materiale e spirituale che caratterizza la poesia di Tasso e ne fa un autore importante, un autore che ha ripreso quanto costruito da Petrarca per rielaborarlo e lasciare una nuova eredità. Il passaggio da materiale a spirituale, non semplicemente dichiarato, ma costruito attraverso la parola, è ciò che darà vita alla poesia moderna a partire dal secolo XIX e una maggiore consistenza all’IO contemporaneo. Si potrà finalmente proiettarci verso l’Infinito senza bisogno di ricorrere alla religione, ma anche senza escluderla.
C che ha a che fare con l’attività spirituale è diverso dagli aspetti materiali. Uso un computer senza sapere da dove venga, guido l’auto senza conoscerne i componenti.
Non posso fare la stessa cosa con l’attività spirituale. Entro in un mondo dove crisi e disordine sono ampiamente riconosciuti, ma non posso limitarmi ad accettarli e farli miei: è importante riconoscerne la complessità, la variabilità, il contesto e la storicità.




Diversamente da Ariosto Tasso è pieno di dubbi e di contraddizioni. L’Orlando Furioso rappresenta la luce, luomo con le sue forme piene e ben disegnate, tanto che il Poeta può porsi al di fuori e scherzare con i suoi personaggi, trattarli con ironia, prenderli in giro soprattutto in merito all’amore e alle loro illusioni. Ariosto conosce il mondo e sa come funziona, per questo può permettersi tutto e il contrario di tutto: i dolori lancinanti della gelosia e il volo verso la Luna su un cavallo alato.
Tasso visse solo pochi decenni dopo e interpretò la realtà in modo completamente diverso. Anche lui fu tentato di superare le contraddizioni che gli pulsavano dentro immaginando,  da  poeta, un  universo  regolare,  regolato,  ordinato: e  così  scrisse l’Aminta, favola boschereccia. Quest’opera era senzaltro sua, ma non era Lui. E così continuò la sua ricerca, deciso nel riconoscere all’indecisione un ruolo di primo piano. Scrisse Rime che fanno luce sulle sue incertezze senza che riuscisse a procedere a una ricomposizione e scrisse soprattutto La Gerusalemme Liberata. Poema epico ed eroico, come l’Orlando Furioso, ma posto agli antipodi rispetto a questo. I due poemi sono però agli antipodi, apparentemente, e solo se vogliamo continuare a ricercare nella letteratura un punto archimedico, unitario coerente e organico, incapace di considerare la diversità e lo scarto come ricchezza, profondità, complessità. Per Borges l’Ugolino dantesco “mangiò e non mangiò i suoi piccoli”; in modo simile Ariosto è Tasso come Orlando è Tancredi e come Angelica è Erminia. In quanto opere letterarie non pretendono riprodurre in modo topografico la realtà, ma metterci di fronte alla complessità del reale, un reale che è uno e molteplice, semplice e complesso, ordinato e disorganico, fatto di certezze e dubbi. La letteratura ha un senso solo se lasciamo perdere l’autore e ci appropriamo dell’opera, che facciamo navigare nei nostri vasi e nei nostri neuroni, per vedere la reazione che viene fuori. Questo processo è sempre nuovo, come nuovo è sempre il nostro IO: in questo processo il criterio spesso usato del “mi piace-non mi piace” può servire solo se è la cima dell’iceberg, il punto di partenza per ricostruire la rete delle relazioni, le nostre relazioni, che ci hanno portato a quell’affermazione.
Ancora una volta la letteratura ha fornito indicazioni importanti: l’incertezza e il dubbio cessano di essere momenti di difficol da annullare per il raggiungimento di assolute convinzioni e diventano un versante aperto verso nuovi orizzonti. Petrarca era stato solo, ma ora Tasso è in una compagnia abbastanza nutrita e la rottura del carattere assoluto della Verità è cominciato: non si fermerà più anche se avrà bisogno di 500 anni per potersi sostituire in tutti i campi.



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