Francesco
Petrarca
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L’IO
comincia a formarsi
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Petrarca nacque ad Arezzo all’inizio del 1300 e viaggiò molto, trovandosi
anche ad Avignone dove era stata trasferita la sede papale, e nei suoi viaggi
riportò alla luce testi classici dando impulso a un nuovo fervore letterario
che avrebbe aperto le porte all’Umanesimo. Fu incoronato Poeta in Campidoglio e
fu uno dei poeti più amati dai poeti dei secoli successivi, dando vita a una
vera e propria scuola, scrivendo molto sia in latino sia in volgare. Era
convinto che sarebbe diventato un grande poeta, ammirato dai contemporanei e
dai posteri, per le opere latine, come il De viris illustribus, che
richiamava l’esempio di Plutarco ne Le vite parallele, l’Africa, il
De otio religioso, il De vita solitaria e soprattutto il Secretum.
Questi libri sono importanti perché ci aiutano a entrare meglio nell’universo
poetico e umano di Petrarca, ma non sono decisivi. Decisivo è invece il
Canzoniere, una raccolta di poesie scritta in volgare e che utilizza il verso,
sonetti ma non solo, per portare alla luce la propria anima, cioè la propria
dimensione interiore. Petrarca chiamò quei componimenti poetici “nugae”
cioè “inezie”, “cose di poco conto”, ma in realtà erano inezie solo rispetto a
una visione classica che faceva della dimensione epica ciò di cui valeva la
pena scrivere. Non a caso la parola epica ha le sue basi etimologiche in una
radice indoeuropea che indica il parlare e addirittura in sanscrito significa
anche “inno”; da qui “epica” è ciò che è degno di essere detto, raccontato.
Quasi tutte le grandi opere dell’antichità hanno carattere epico, mentre
l’aspetto lirico è molto minoritario. Lirico infatti sta per intimo, personale,
soggettivo, privato e dunque non è estraneo alla poesia ma ne rappresenta una
fascia di second’ordine. Nonostante Petrarca convenisse con questo quadro di
riferimento non rinunciò a dare voce alla sua anima, esempio di come la
coerenza e la continuità sono caratteri moderni, legati alla visione
deterministica della scienza. Petrarca aveva delle preferenze, ma seppe portare
alla luce un universo complesso che valorizzasse la sua persona, tanto che
parte dei suoi studi si rivolse a questa dimensione. L’otium religioso, la vita
solitaria, l’universo appartato (secretum), la polemica col medico sulla
conoscenza di se stessi sono tutti aspetti che gli permettono di approfondire la
propria dimensione interiore. Dalla cultura alla persona: esempio importante di
fusione tra il generale e lo specifico, tra il mondo e l’IO. L’amore ampio e
complesso per Sant’Agostino rientra in questo quadro, perché il filosofo
africano è, all’interno della tradizione cristiana, colui che maggiormente ha
dedicato le sue attenzioni alle dinamiche e alle difficoltà della persona.
In questo quadro il Canzoniere è una specie de Le confessioni di Sant’Agostino.
E in questo senso si pone in termini sia di continuità sia di rottura. La
continuità è evidente anche perché richiama le nugae di Catullo e di
Orazio per approdare al grande insegnamento di Agostino. La rottura assume
ancora maggiore importanza; infatti grazie a questi riferimenti egli dà vita a
un genere letterario che costituirà in Italia una vera e propria tradizione
arrivando al 1900 passando per Tasso Alfieri, Leopardi e Pascoli. Non si tratta
però solo di un genere, con i suoi codici e un canone determinato (come avverrà
con il petrarchismo del 1500), ma molto di più. Grazie a Petrarca, che riprende
il testimone del Dolce Stilnovo, comincia a formarsi l’IO moderno e
questa formazione, pur in sintonia con l’evoluzione sociale, ne mantiene e ne
evidenzia le distanze. Lo stesso Cristianesimo ha preferito riferirsi a San
Tommaso piuttosto che a Sant’Agostino, ha preferito appoggiarsi a una visione
naturalistica e dunque enciclopedica invece che sviluppare la dinamica
interiore e il rapporto tra il singolo fedele e Dio, aspetto questo che
caratterizzerà la teologia di Lutero, non a caso monaco agostiniano. Il
percorso avviato da Petrarca non può ritenersi concluso neppure oggi perché è
un cammino che si rivela sempre più privo di confini e dunque infinito. La
formazione dell’IO come componente decisiva della realtà troverà un enorme
slancio a partire da fine Ottocento grazie alla poesia e da fine Novecento
grazie alle neuroscienze, ma non è pensabile senza l’opera di Petrarca.
Vediamo dunque come il Canzoniere abbia contribuito a delineare un percorso
completamente nuovo e che avrà enormi sviluppi, perché fondato nella storia e
nella cultura dell’Occidente. La formazione dell’IO è in questo senso
imprescindibile dal concetto di persona che caratterizza il Cristianesimo e
dall’idea cristiana di un uomo-Dio, perché propone che i limiti dell’essere
umano possano essere superati.
Dire che il Canzoniere è il poema di Laura impedisce di coglierne la
complessità soprattutto perché Laura è, come Beatrice per Dante, un mezzo per
scavare dentro la propria anima e fare i conti con se stesso. Il Canzoniere si
apre con un sonetto, non a caso scritto per ultimo, che vuole riassumere il
senso di tutta l’opera: esso così ci fornisce il quadro di riferimento dentro
il quale inserire la lettura delle singole poesie. Quel primo sonetto è però
“il cosa” e non “il come” e dunque ha valore esclusivamente didattico, perché
ci spiega e ci propone, ci dice e ci chiarisce, ci illustra e ci definisce che
cosa aveva voluto fare con tutti quei versi.
“Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono” ci dice molto di più se evitiamo il riassunto e ci immergiamo dentro le
singole parole, cercando in questo modo di salvare “il come” in una poesia che
ha un’altra funzione.
Ci sono tre parole che di per sé assumono un valore decisivo: sospiri,
piango, ragioni. Non esiste costruzione dell’IO senza la sofferenza che è
l’unico elemento che può portare al cambiamento e non esiste costruzione senza
la manifestazione di questo dolore su cui poter avviare uno scavo, la
riflessione. La poesia non serve dunque a esprimere sentimenti ed emozioni, a
far emozionare il lettore o, peggio ancora, a fornire insegnamenti. Il cuore e
la mente, il piangere e il ragionare sono strettamente e ricorsivamente
connessi ed è con tutti e due che occorre fare i conti.
Altri due termini sostanziano la lirica petrarchesca: errore e vano.
Lasciamo perdere il discorso generale che considera l’amore per una donna errore
e vanità perché solo l’amore per Dio fornisce un senso vero alla nostra
esistenza. Si tratta di un discorso e che un cristiano sa a priori, ma che
Petrarca ha sentito il dovere di riaffermare solo alla fine della sua opera; le
poesie rappresentano invece un percorso frastagliato tra questi due universi,
quello terreno e quello divino. In questo senso la parola errore qui presentata
come “sbaglio” ci riporta invece al suo intimo significato etimologico, per cui
“errare” è solo vagare, procedere non in linea retta. E’ questo che fa Petrarca
ed è questa la grande importanza della sua poesia: ogni componimento, direi
ogni verso, è un solcare le quasi infinite tracce della sua anima, complessa e
contraddittoria come tutte le anime, è un vagare, oscillare, muoversi riconoscendo
a tutti quegli anfratti dignità e il valore di realtà. Questo fa il grande
poeta: usa le parole e i versi per andare alla scoperta di quel mondo interiore
portando alla luce (epifania) tutto ciò che vi trova, non per reprimerlo o
esaltarlo alla luce della religione o dell’ideologia, ma perché è il punto di
partenza con cui iniziare quel processo di costruzione che si concluderà solo
con la morte.
Non è interessante giudicare i risultati, a noi non servono: a noi serve il
metodo, il percorso, l’importanza che la parola assume in tutto questo.
Andiamo dunque oltre quella prima poesia e addentriamoci nel “come”
petrarchesco.
Comincio con il sonetto centrale, “Solo e pensoso i più deserti campi”, un componimento che sicuramente tutti avranno
letto a scuola.
Petrarca mette se stesso di fronte a se stesso e ci obbliga, ognuno di noi, a fare lo stesso. L’uomo-poeta si isola dal mondo e pensa, perché queste sono le condizioni
per
potere procedere nella distruzione-costruzione della nostra persona: non si tratta di negare il mondo, ma di riconoscerne la
presenza dentro di noi e
per
fare questo la persona deve avere la capacità di scavare dentro la propria anima. L’uomo-poeta sa che
solo
così potrà fare i conti con se
stesso, con
quel se stesso che
è concentrato sull’amore per Laura,
un
amore che lo accompagna, ma che fa parte di una rete più ampia,
in cui terreno e
divino si scontrano e
dialogano, in un
campo di battaglia
particolare come
l’anima di Petrarca. Concentrato su Laura sa che deve “misurare i più deserti campi” e lo fa con particolare
cura “a passi tardi e lenti”: istintivamente cerca luoghi solitari, cerca di sfuggire allo sguardo degli altri perché
non
vuole che vedano quanto quell’amore
lo coinvolge e lo
turba. Ed è a questo punto, quando
pensa di
avere come interlocutori solo elementi
inanimati (oltre
ai campi deserti anche monti et piagge et fiumi et
selve), che scopre
che tutto questo nascondersi è vano: l’esterno può svanire o congelarsi,
ma
la sua interiorità è viva e gli parla e lo pungola e lo ferisce e lo turba e gli impedisce di far finta di nulla.
Petrarca non ha mai smesso di interrogarsi, ma solo la poesia gli permette
di
scoprire nuovi orizzonti da cui ripartire: si tratta di alcune verità (plurali e con la lettera minuscola) non della
Verità (singolare e con la maiuscola).
Nella poesia, grazie
alla parola, l’uomo-poeta trova una sua nuova con-formazione, una sua nuova con-locazione e nuovi orizzonti. Eccoci
così all’ultima terzina: “Ma pur sì aspre vie né sì selvagge / cercar non so ch’Amor non venga sempre/ ragionando con meco, et io co·llui.” L’uomo-poeta non nega l’esperienza amorosa, ma la vive in
profondità ed è proprio attraverso il percorso espresso dai 14 versi della poesia che non è più lo stesso
uomo di prima. L’amore è come un’altra persona con la quale deve convivere,
una persona con cui l’altra persona
che è dentro di lui deve
fare i conti.
Questo è il senso complessivo della poesia che non è
generico e invece entra in profondità nello specifico.
Vediamo come le parole usate introducano e rafforzino
quel senso.
Innanzitutto va detto che gli aggettivi svolgono un ruolo
decisivo per mostrare l’animo del poeta: non sono descrittivi di uno stato
d’animo ma intensivi e collocati subito all’inizio informano tutta la poesia: IO,
solitudine, pensieri. Le prime due parole sono: “Solo e pensoso”; anche
l’aggettivo “deserti” si muove nella stessa direzione e subito dopo altri
due aggettivi sviluppano questo aspetto, “tardi e lenti”: la calma, la
lentezza, la quiete accompagnano, fisicamente e materialmente, la sua
solitudine. Fisicamente e materialmente, perché dentro invece è un fuoco, il
suo animo non è calmo né quieto né placato, perché “avvampa” ed è per
questo che deve allontanarsi e rimanere solo.
E’ importante capire come due aspetti caratterizzino
tutta la poesia di Petrarca: da un lato l’uso degli aggettivi grazie ai quali
porta alla luce la sua anima e dall’altro la descrizione della natura che non
parla della realtà fuori di lui, ma introduce la sua interiorità. “I campi più
deserti...i monti et piagge et fiumi et selve…”, insomma “vie sì aspre e
sì selvagge”.
Quella di Petrarca non vuol essere una descrizione
realistica e quei luoghi possono trovarsi in qualsiasi parte del mondo: il
deserto, l’asprezza e il carattere selvaggio rimandano come uno specchio
all’interiorità del poeta, come altrove saranno immagini luminose della natura
a prevalere per evidenziare un sentimento interiore di piacere. Ricordiamo che la
parola deserto etimologicamente vuol dire abbandonato e che la parola
selvaggio rinvia alle bestie che vivono nella selva e la parola aspro
ha anche un valore fonico con le tre consonanti che stanno al centro della
parola.
E’ dunque questa poesia da leggere per prima perché qui
troviamo gli elementi fondamentali della lirica petrarchesca e della lirica
italiana: scavo nell’IO diviso, uso degli aggettivi soggettivi e
natura-sentimento.
Una canzone, cioè un componimento poetico più ampio e più
alto, riprende e sviluppa quanto espresso nel sonetto che ora ho proposto: “Di
pensier in pensier, di monte in monte”. Come spesso accade in Petrarca
l’inizio è fondamentale perché fornisce il filtro con cui immedesimarsi nei
versi. Da un lato l’inquietudine, l’impossibilità della tranquillità e di
fermarsi, dall’altro l’immediata identificazione tra la dimensione materiale
(il monte) e l’aspetto spirituale (il pensiero). Anche qui l’Amore è il
turbamento che lo accompagna ovunque vada ed è “contrario a la tranquilla
vita”. Siamo fin dall’inizio in presenza di quell’IO diviso che è la
vera novità introdotta dal poeta: “l’alma sbigottita s’acqueta” ma i
sentimenti che vive sono contraddittori e ciascuno dura poco (“picciol tempo
dura”), così “or ride or piange or teme or s’assecura…si turba e
rasserena”. Non è una generica e astratta rilevazione di diversi stati
d’animo che naturalmente la vita produce, ma al contrario la sequenza di un
film che mostra la difficoltà a trovare un punto fermo, una verità che, pur
nell’alternarsi degli eventi della vita, sappia fornire un punto di
riferimento. E’ proprio qui la differenza tra filosofia e poesia. La dinamica
contraddittoria prosegue in un intreccio con la natura (alti monti e selve
aspre), mentre Petrarca si rende conto che “’l tormento” non trova
una via d’uscita reale “ed a pena vorrei cangiar questo mio viver dolce
amaro”. Infatti il dolore non è solo sofferenza, perché l’anima s’appaga in
quello che lui chiama errore, nel senso già visto di vagare e ondeggiare.
Questo sentimento è tale che “se l’error durasse” altro non chiede.
I due stati d’animo, il piacere e il dolore, non sono
solo contrastanti e alternati, ma essi si fondono e si intrecciano in modo che
il dolore è allo stesso tempo piacere e il piacere sofferenza. In tutto ciò il
pensiero (e dunque la poesia) svolgono un ruolo decisivo, facendo sì che il
poeta si segga, e si senta come una pietra, così come “uom che pensi e
pianga e scriva”. Anche l’ultima stanza prima del congedo sviluppa gli
stessi aspetti presentati fin qui, mostrando come il poeta viva questa
lontananza da Laura, facendoci vedere come la sua anima non riesca a stabilire
dei confini dentro i quali poter giocare e costruire e vivere: il desiderio è
intenso, i suoi sono danni, riesce grazie alle lacrime a sfogare il cuore in
cui dolorosa nebbia si è addensata, e così nuovi sguardi e nuovi pensieri, fino
al respiro dell’anima al pensiero che anche Laura sospiri per il poeta.
Non c’era bisogno di comporre 72 versi per dire che
soffre per amore, ma quei versi erano tutti necessari per dare forma e
comunicarci “il come” di quella sofferenza. Da questa canzone a La
casa dei doganieri di Montale intercorrono 600 anni, ma non si è trattato
di un semplice passaggio di testimone, perché in quei sei secoli altri poeti hanno
arricchito la dimensione e la prospettiva dell’amore che, di secolo in secolo, è
andato assumendo la forma che ci è oggi nota e che ci appare naturale.
Petrarca non si nasconde e la sua convenzionalità (il sonetto,
l’endecasillabo, l’architettura)
sono ben poca cosa. Il Canzoniere vede la comparsa, prorompente ed esplosiva, dell’IO, dell’uomo-poeta, di Francesco Petrarca, in carne-ossa e spirito, in rappresentanza
solo di se stesso, una persona che conosce bene i suoi meriti e che sa stare al mondo, ma che ritiene la vita umana molto più spirituale che materiale: fu riconosciuto poeta grandissimo e incoronato a Roma,
ebbe
incarichi importanti e fu protagonista della
vita sociale in
Italia e in Francia, eppure fu un uomo tormentato. Non era una
debolezza caratteriale, ma la convinzione, fortemente sentita, che la vita dell’uomo ha senso solo se è capace di ricchezza e profondità spirituali. In ogni poesia il poeta non si limita
a presentare Laura come quel dolce
essere di cui si è
invaghito, ma mette a
nudo le prime dinamiche del sentimento moderno dell’amore.
Questo trova la più efficace espressione nel sonetto CXXXIV: “Pace non trovo e non
ho da far guerra / e temo e spero…/….. / Amore nè mi vuol vivo nè mi trae d’impaccio/…../ Pascomi di dolor, piangendo rido;/
egualmente mi spiace morte e vita”.
Il sonetto è certamente troppo didascalico ma rende bene
l’idea di cosa rappresenti l’amore e di come esso riesca ad esprimersi in
profondità grazie alla poesia. In altri componimenti troviamo espressa la
stessa esigenza e lo stesso spettro, elementi che ci introducono nel mondo
dell’amore moderno.
“S’amor non è, che dunque è quel ch’io sento? / … / O viva morte, o dilettoso male / ch’i medesimo non so quel ch’io mi voglio / (poesia CXXXII).
“Vegghio,
penso, ardo, piango… / guerra è ‘l mio stato, d’ira e di duol piena / … / Così sol d’una
chiara fonte viva / move ‘l dolce e l’amaro
ond’io mi pasco; una man sola mi risana e punge.” (poesia CXLIV).
Didascalici
certamente, ma anche in questi esempi, le parole, il come, segnalano la qualità
della poesia: didascalico ma sempre con una capacità poetica. Vedere,
pensare, ardere, piangere, risanare, pungere, temere, sperare sono le
azioni; pace, guerra, impaccio, dolore, morte, vita, male, ira, il dolce,
l’amaro sono gli stati d’animo.
All’uomo moderno tutto ciò appare scontato, e in parte lo è proprio grazie
a Petrarca che più di ogni altro ha saputo dare voce all’amore e stupisce come
poco si sia andati avanti da allora. Ancora oggi la voce dell’amore risuona
dello scavo e delle parole che Petrarca ha portato alla luce, con l’aggravante
che si è cristallizzata una realtà che nel 1300 appariva invece aperta.
Il poeta ci mostra la sofferenza che l’amore comporta, ma la duplicità
degli stati d’animo non è univoca e non esistono solo “Vie aspre e selvagge”
o “campi deserti”. A questo proposito c’è una famosissima canzone che ci
presenta una natura-sentimento espressa in termini positivi e piacevoli; è la
CXXVI, “Chiare fresche e dolci acque”. Cinque stanze e 68 versi.
Esemplare poesia che espande in un’altra direzione ciò che l’amore, questo
nuovo modo di essere, sedimenta.
L’inizio si ha con tre aggettivi, nella forma che abbiamo già visto e che è
frequente nel Canzoniere, tre aggettivi che proprio per la collocazione
informano tutta la poesia ponendoci fin da subito in una prospettiva di
serenità e piacere. E’ come la presentazione di qualcosa che verrà sviluppato e
approfondito.
Nella prima stanza gli elementi della natura fanno da appoggio alla
bellezza della donna e al piacere che ella fornisce: le acque sono chiare
fresche e dolci, il ramo è gentile, l’aria è sacra e serena; per quanto
riguarda Laura le membra sono belle, bello è il fianco, begli gli occhi,
leggiadra la gonna, il seno angelico.
Il poeta immagina di essere sepolto in quel luogo dove vide Laura per la
prima volta e immagina che Laura vi torni sospirando.
L’aspetto narrativo-immaginativo lascia il posto allo spiegarsi di ciò che
il poeta prova e in questo modo ci presenta un’articolazione intensa e profonda
che non si limita alla dichiarazione d’amore. Certo alcuni modi già in uso,
soprattutto nello Stilnovo, vengono qui riproposti, ad esempio nell’ultima
stanza con lo stereotipo della donna-angelo, ma rimangono subordinati a tutto
il resto.
La fiera è bella e mansueta, il giorno dell’incontro benedetto, la vista
desiosa e lieta, bello il velo e belli i rami, la memoria dolce, e i fiori
scendono da quelli a pioggia sopra il suo grembo, formando un amoroso nembo,
che ne copre ora il lembo della veste ora le bionde trecce (oro forbito e
perle), andando a finire in terra o sull’acqua, ma, vagando, quei fiori
sembrava dicessero che lì regna l’Amore.
Dall’amore come essenza di un cuore gentile, non legato alla nobiltà di
stirpe e dalla donna paragonata ad un angelo si è passati a una figura
femminile concreta, umana come concreto e umano è il poeta innamorato. L’amore
non è più patrimonio di cuori nobili (Guido i’ vorrei che tu e Lapo ed io di
Dante), ma è una possibilità che si estende a tutti, certo una possibilità, ma
come tale viene fondata una realtà. Questa realtà avrà bisogno di tempo per
diffondersi e per radicarsi fino al momento in cui in tutto il mondo non esiste
altra idea di amore. Fondare come reale una possibilità significa darle le
forme e le vesti, il che vuol dire in una relazione tra persone darle la voce,
fare in modo che questa realtà non resti mai senza parole, perché nel momento
in cui tace ne corrompe l’essenza. L’essenza dell’amore non è data a priori, ma
ha bisogno da un lato di schiudersi e dall’altro di inventarsi, nella spirale
che è della conoscenza e della creazione: tornando indietro per procedere.
Per il pensare post-moderno conta solo il presente, l’attualità, come
se questa fosse
comparsa dal nulla, figurarsi un poeta,
per
di più di ben
sette secoli fa e che parla di
religione e di una donna senza che
descriva coiti di qua e
coiti di là. Per fortuna quel pensare,
nonostante sia diffuso, non è l’unico.
E’ vero: Petrarca parla di religione e non parla di sesso, descrive la natura e usa parole
che
usiamo ancora oggi e le connette in quel modo speciale che si chiama poesia. Non è questione
di
opinioni, perché si può essere atei, casti, sfrenati, gay,
cattolici o
buddisti. Il punto è che
per
la prima volta in
modo diffuso e in una lingua moderna si
parla della centralità dell’IO: tutta l’opera petrarchesca (esclusi molti scritti in latino) hanno come protagonista il poeta stesso, che non si esalta per le imprese compiute, ma che cerca, grazie all’insegnamento di Sant’Agostino, di scandagliare le profondità
della sua anima. Ripeto: anima,
persona, individuo, IO. Possiamo usare
in modo
intercambiabile questi quattro termini. A differenza della novella (già allora in voga)
e del romanzo (i cui fasti
dovranno aspettare
qualche secolo) il protagonista della
poesia di Petrarca non è occultato sotto la maschera dei personaggi (Madame Bovary c’est moi,
diceva
Flaubert),
ma
si presenta per quello che
è. O
crede di essere, che
non
è molto differente.
Il poeta parla di sè, di cosa fa, dei suoi pensieri e dei suoi dubbi; sa molte
cose e conosce il mondo, ma sa anche che i dubbi sono enormi e che le certezze sono poche,
e talmente grandi e ampie, che
devono confrontarsi con l’essere
mortale che è Francesco e con i gesti che
deve fare ogni
giorno. Abbiamo qui l’esempio di un
uomo cui interessa la dimensione spirituale più della consistenza materiale:
socraticamente
e agostinianamente. Lui sa di non sapere e sa che le verità che gli appartengono non
sono sufficienti, perché devono quotidianamente confrontarsi con l’uomo immerso
nella vita terrena.
Oggi più parliamo di amore e meno gli diamo importanza, lo consideriamo
ancora come un’appendice della nostra esistenza. Petrarca usa l’amore come
l’elemento principe della sua indagine su se stesso, del suo scavo interiore.
Questa indagine lo porta a scoprire che la sua persona è una persona divisa,
non solo tra terreno e divino o tra materiale e spirituale, ma anche nel suo
porsi di fronte all’amore. In questo senso ogni poesia del Canzoniere porta
alla luce, attraverso le parole, questo universo interiore complesso. Talvolta
le parole si ripetono, ma sempre sono il frutto di situazioni diverse e in ogni
caso tale e tanta è la voce che dà a queste diverse persone che vivono dentro
di lui che spesso facciamo fatica a stargli dietro.
C’è una poesia, non molto letta anche perché non risponde ai concetti
estetici che si sono accumulati nel corso dei secoli, ma che può essere
considerata un quadro sintetico di questa situazione. Nel contesto di questi
articoli non vuol essere un punto di arrivo, ma uno stimolo, una suggestione,
un punto di partenza di un viaggio dentro la nostra persona e l’amore che
viviamo, un viaggio fatto attraverso il viaggio di Petrarca.
La poesia è la n.CXXXII: S’amor non è, che dunque è quel ch’io sento?
Il secondo verso ci indica già la strada che dobbiamo percorrere, perché
non basta dichiarare l’amore; infatti Petrarca si chiede “ma s’egli è
amor…che cosa e quale?”. Ancora oggi, sette secoli dopo quella poesia,
quasi tutti evitano di porsi questa domanda, oscillando tra un banale “cosa ci
vuoi fare? È successo” a un altrettanto banale “al cuor non si comanda” o
“dobbiamo evitare di razionalizzare”. “Ti amo, ti amo per sempre, ti amo finché
dura”, insomma sempre e solo “tiamo”, niente “che cosa e quale”.
Andiamo avanti.
I versi 3 e 4 si pongono in concreto la domanda: se è cosa buona, perché
soffro con asprezza mortale? Se invece è cosa malvagia perché il tormento
comporta anche dolcezza?
Petrarca prosegue attraverso queste contrapposizioni che non appartengono
agli ossimori della retorica ma alle contraddizioni della vita umana. E così le
lacrime e il lamento che sono inerenti alla condizione amorosa: perché ci sono?
A cosa servono? Che valore hanno? Il poeta non sa se tutto ciò accade
volontariamente o in modo inaspettato, ma riconosce che la morte che sente
dentro di sé è anche capace di dargli un soffio vitale e non può negare che la
stessa sofferenza provochi anche piacere.
La condizione dell’amore nell’uomo moderno non è definita né definibile e
la metafora della barca ai versi 10 e 11 fornisce un ulteriore punto di
riferimento: la persona innamorata si trova in una barca fragile (frale)
sospinta da venti contrari in alto mare senza nessuno che la guidi.
La conclusione, in questo contesto che vede contrapposta la capacità di scegliere
(saver) all’incapacità di seguire una strada ben delineata (error),
è che “i’ medesmo non so quel ch’io mi voglio”.
Ciò che interessa, e stupisce allo stesso tempo, non è la capacità con cui
Petrarca riesce a proporre ciò che viviamo quando ci innamoriamo, ma il fatto
che lo faccia all’alba dell’amore moderno, sette secoli prima di ora, e che la
nostra riflessione attuale sia ben poco progredita.
Vale la pena insistere sul linguaggio lirico del poeta aretino non tanto
perché diventerà un punto di riferimento per i poeti dei secoli successivi, ma
soprattutto perché è tutto materiale che ci offre su un piatto d’argento e di
cui solo in parte ci siamo serviti. Quella ricchezza linguistica non è il
frutto di una ricchezza enciclopedica, di cui comunque non era sprovvisto, ma,
al contrario, dell’aver analizzato al microscopio la propria persona nel
quotidiano vivere, nei quotidiani e non eroici gesti che fanno di Petrarca
l’uomo comune. La densità linguistica del Canzoniere ha anche un valore
filosofico (200 anni prima di Montaigne), ma soprattutto umano, un valore ancor
più forte oggi che l’essere umano si è allargato alla totalità degli individui.
Ho messo in evidenza la capacità di Petrarca di utilizzare stati d’animo e
aggettivi per portare alla luce la realtà intima e profonda dell’amore; ho
invitato a porre la dovuta attenzione agli elementi della natura che non sono
mai oggettivi ma aiutano invece a entrare meglio nella realtà che il poeta ha
saputo far emergere. In generale ciò che il poeta ci presenta è sempre qualcosa
di concreto e di materiale. Possono essere i monti, le piagge, i fiumi, i
campi, i gioghi, le fonti come pure le selve, i fiori, l’erba verde, le fronde,
un faggio, l’alloro (lauro), il leccio e anche fiere, augelli, un usignolo. La concretezza
maggiore è comunque riservata a Laura che viene sempre presentata nella sua
dimensione materiale: il volto, gli occhi, i fianchi, il seno, il grembo, la
chioma, le trecce, la voce. Certo alcune volte riprende l’immagine dell’angelo
o della ninfa, ma la prospettiva che il poeta apre è del tutto nuova e, anche
in questo aspetto, fornisce un punto di riferimento che, coltivato per secoli, permetterà
la rivoluzione leopardiana de L’infinito.
E’ importante capire la differenza tra poesia e filosofia o concezione del
mondo. Tutti abbiamo una concezione del mondo, semplicistica complessa, da
dilettanti o da professionisti, veloce o articolata. Come scrisse Borges “siamo
tutti o aristotelici o platonici”. Molti, la maggior parte, non si pone il
problema e propone delle idee che molto spesso non sa da dove hanno origine.
Negli anni ’50 del secolo scorso i numerosi comunisti esponevano principi
ed idee che leggevano sul giornale del Partito senza sapere che provenivano da
Marx, da Lenin o altri. Ai tempi del Sessantotto una parte dei rivoltosi
lanciava parole d’ordine che provenivano dalla Scuola di Francoforte,
dall’esistenzialismo e da altri contemporanei come Deleuze e Guattari. La
reazione cattolica della fine secolo si richiamava a pensatori come Maritain,
Whitehead, Chesterton e più di tutti Don Giussani (ispiratore del Movimento di
Comunione e Liberazione). Il nuovo secolo ha visto il proliferare di asserzioni
sempre più numerose e sempre più isolate dal contesto originario: frasi prese
come oro colato solo perché trovate su Internet (talvolta inventate di sana
pianta come ho potuto verificare personalmente) hanno permesso a chiunque di
sentirsi protagonista identificandosi nell’autore supposto delle frasi citate.
I migliori avevano letto libriccini riassuntivi o una pagina di wikipedia e
dunque si erano dati un’infarinatura, ma la quasi totalità non era in grado di
sviluppare un discorso a partire dalla frase su cui si è immedesimata,
figurarsi poi trasformare quella frase in stile di vita procedendo a continue
verifiche.
La poesia è altra cosa. Finora però il consumatore di componimenti poetici
li ha trattati come oggetti validi esteticamente o come dichiarazioni
filosofiche.
I primi continuano a dire: come è bella quella poesia, come è scritta bene,
come è capace di suscitare emozioni; e spesso la bellezza si riduce a un
richiamo della natura, a parole astratte, a immagini aeree: naturalmente si
tratta di schegge che hanno la loro origine nella storia della letteratura e in
genere rinviano o a Petrarca o ai Romantici.
I secondi sono i lettori della poesia come messaggio, per cui i
componimenti di Allegria di Ungaretti sono un messaggio contro la guerra, le
poesie degli ermetici sono un messaggio contro la dittatura fascista; anche
questa impostazione rinvia alla critica militante che soprattutto in Italia ha
fatto il bello e il cattivo tempo a partire dalla fine della Seconda Guerra
Mondiale.
Tutto questo discorso per capire come alcune opere di Petrarca, e in
particolare il Secretum, ci aiutano a entrare nell’universo del
poeta, ma non riguardano la poesia e non la riguardano non perché siano in
prosa ma perché sono convinzioni, sono la visione del mondo del poeta, sono
filosofia. Se Petrarca non avesse scritto Il canzoniere quelle opere non
mi interesserebbero più di tanto e rientrerebbero nella fascia di pensiero di
un Pomponazzi o di un Rudolf Agricola. Essendo stato principalmente poeta però
vale la pena accennare anche al Secretum o alle Epistole.
Il Secretum è un dialogo tra lui e Agostino alla presenza di una
figura, la Verità, che rimane silenziosa. E’ un’opera in cui affronta vari
aspetti dell’esistenza e soprattutto le difficoltà a vivere secondo principi e
valori che pure riconosciamo importanti; egli si interroga, in modo costante e impietoso, sul suo carattere e sul senso della sua vita:
Agostino è il suo maestro e Le confessioni sono l’opera che ritiene
fondamentale, eppure non può non mettere in evidenza la differenza tra il
riconoscimento di tutto ciò che Agostino gli dice e la difficoltà che ha nel
metterlo in pratica. A quei tempi e fino a pochi decenni fa si parlava di debolezza
di carattere, ma oggi siamo in grado di riconoscerne profondità e complessità.
In questo senso Petrarca, che pure aveva una grande stima di se stesso, come si
può vedere anche dal suo autoritratto per i posteri, è un punto di riferimento
per chi oggi ha compreso che non esiste una strada già segnata, ma che occorre
continuamente fare i conti con se stessi, assumersi la responsabilità delle
nostre scelte e mettere continuamente in discussione il cammino intrapreso.
In questo
senso assume una importanza particolare la lettera inviata a Dionigi di Borgo
San Sepolcro relativa a un’ascensione fatta con il fratello Gherardo sul Monte
Ventoso in Provenza. Essa centra uno dei temi fondamentali della riflessione
petrarchesca, che riguarda la tendenza dell’uomo a seguire la via più facile
sempre anche quando si tratta di salire: prima o poi però devi affrontare
l’erta difficoltà.
Persino una passeggiata in montagna fatta
con il fratello diventa l’occasione per una riflessione e uno
scavo
alla ricerca di senso. Analogicamente, la scelta di percorrere un sentiero meno ripido lo porta a riflettere che non esistono scorciatoie e vie
facili. Analogicamente,
lo scenario che gli appare
dalla vetta lo porta a riflettere sul valore dell’essere umano. La conclusione della lettera (un passo di
Sant’Agostino e una riflessione personale) apre le porte all’Umanesimo, ma
soprattutto rimane un invito importante e valido soprattutto oggi: “E gli
uomini se ne vanno ad ammirare gli alti monti e i grandi flutti del mare e i
larghi letti dei fiumi e l’immensità dell’oceano e il corso delle stelle; e
trascurano se stessi”. E ancora: “niente è degno di ammirazione fuorché
l’anima, per la quale nulla è troppo grande”.
Questa è
filosofia e come tale fornisce un quadro di riferimento all’interno del quale
occorre però operare e vivere. E’ ciò che fa la poesia, è ciò che fa Petrarca
attraverso la poesia.
E questa
poesia, come abbiamo visto, parla di Laura, sempre e comunque dell’amore per
Laura. L’amore
per
Laura rinvia all’amore terreno
che vale la pena di essere
vissuto, ma che allo
stesso tempo riconosce i suoi limiti rispetto a quello che appare l’amore vero, cioè
l’amore per Dio.
Gran parte del Canzoniere è dedicato a questo contrasto
tra materiale e spirituale, terreno e
celeste,
umano e divino, insomma tra finito e
infinito;
in questo contrasto
Petrarca
sa che
a vincere dovrebbe essere l’Amore per
Dio,
come ricorda nel primo
sonetto: “…ragiono / fra le
vane speranze e ’l van dolore / …e’l conoscer chiaramente
/ che quanto piace al mondo è breve sogno.”
(I). Ma saperlo con la mente è una cosa,
mentre
riconoscerlo come qualità dell’anima è un’altra, e infatti Petrarca fa quel riconoscimento al termine delle sue 365 poesie, e
lo pone come Incipit, Introduzione, senza riuscire
però a convincerci che abbia trovato la soluzione ai suoi tormenti e ai suoi interrogativi. Non c’è dubbio che sentisse
che quanto piace
al mondo (compreso l’amore) è qualcosa
di
breve, di limitato,
di
finito, di vano, ma ad esso non riesce a rinunciare. Ed è qui la sua grandezza: identificare
il problema, affrontarlo e viverlo, anche senza riuscire a
risolverlo.
Perché parlo di grandezza? Perché quanto posto, non in termini astratti, ma come distillazione
della sua vita quotidiana,
è ancora oggi il tema di fondo dell’umanità,
un tema che si ripropone
regolarmente e che trova approcci differenti, ma che non riesce a
presentare la formula definitiva. Al contrario il rapporto tra finito e
infinito ha pervaso di sé le certezze della religione cristiana che,
soprattutto a partire dal secolo scorso,
ha
cominciato a valorizzare il terreno e l’umano, abbandonando quella visione universalistica con cui era cresciuta. Solo l’Islam ha risolto il problema, annullando l’uomo e facendo del sedicente messaggio di Dio l’unica cosa che vale la pena di vivere sulla terra.
Petrarca è il fondatore della lirica italiana.
Petrarca è il fondatore dell’amore come noi
lo viviamo.
Petrarca è colui che per primo ha posto come decisivo il rapporto tra finito
e infinito, basandolo
sulla propria esperienza personale.
Petrarca è colui che per primo
ha compreso che l’IO è diviso e che dobbiamo fare i conti con questa
spaccatura.
Uno studio
in termini complessi della realtà, e in particolare di quella realtà che si
chiama “essere umano”, trova in Petrarca solidi riferimenti.
Chi parla di umanesimo e neoumanesimo
non
può non ripartire da Petrarca.
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